In queste settimane si parla molto del Reddito di cittadinanza, la misura con cui il MoVimento 5 Stelle promette di “abolire la povertà” in Italia. Eppure uno strumento per sostenere chi si trova in condizione di indigenza già esiste nel nostro Paese: si chiama Reddito di Inclusione (REI) ed è attivo nella forma attuale da quasi un anno. Se ne parla poco, ma si tratta di un intervento che nei primi sei mesi di implementazione ha raggiunto circa un milione di persone, che mensilmente ricevono un sostegno economico e sono accompagnate nell’individuazione di soluzioni attraverso cui trovare un lavoro per uscire con dignità dalla situazione di difficoltà in cui si trovano.
In questo senso, il REI è il primo passo che avvicina l’Italia agli altri Paesi europei che possiedono un “reddito minimo di inserimento”, ovvero una misura nazionale a sostegno di tutte le persone in povertà. Un risultato al quale si è arrivati grazie alla continuità con cui, nel corso degli ultimi anni, le misure anti-povertà sono state progressivamente estese e migliorate anche grazie al dialogo tra istituzioni e organizzazioni che si occupano proprio di questi temi.
Al di là degli slogan, se l’attuale Governo intende davvero combattere la povertà dovrebbe evitare la via “rivoluzionaria” e partire da quanto già c’è. In questo senso, ci è parso opportuno ripercorrere l’iter di sviluppo del REI, in modo da aiutare a comprendere il lungo lavoro di riflessione, confronto e implementazione iniziato ben sei anni fa. La povertà infatti – e purtroppo – non si abolisce per decreto: per aggredire questo fenomeno servono politiche pubbliche complesse e strategie di lungo periodo volte a contrastare in maniera mirata le diverse forme con cui si presenta il fenomeno, facendo i conti anche con la necessaria gradualità che contraddistingue questo genere di interventi.
Reddito di Inclusione: di cosa stiamo parlando?
Il REI è la misura nazionale di contrasto alla povertà a cui possono accedere tutti i cittadini che rispettino alcuni criteri legati alla residenza e alla condizione economico-patrimoniale. Il REI può essere percepito per 18 mesi, alla scadenza dei quali è necessario passino almeno sei mesi prima di poter richiedere nuovamente il beneficio. Lo strumento si articola in due dimensioni. Da un lato un beneficio economico, la cosiddetta parte passiva della misura, quindi risorse monetarie che arrivano direttamente nelle mani di chi si trova in povertà. Dall’altro una componente di servizi alla persona, la parte attiva della misura, che devono essere garantiti a livello locale dai servizi sociali dei Comuni in partnership con le organizzazioni del Terzo Settore.
Il beneficio economico
L’importo del REI, come detto, varia in considerazione della numerosità del nucleo richiedente ed è commisurato alle risorse economiche e patrimoniali di cui tale nucleo dispone. Nella pratica il beneficio è erogato attraverso una carta di pagamento elettronica (Carta REI) che è ricaricata automaticamente dallo Stato e che può essere utilizzata per effettuare acquisti presso esercizi abilitati al circuito Mastercard, per pagare le utenze presso gli uffici postali e per prelevare contante.
Il “progetto personalizzato”
La parte attiva della misura si concretizza in un “progetto personalizzato” che mira a promuovere l’inclusione sociale e/o lavorativa della persona in povertà e che deve essere definito in accordo con i servizi sociali comunali. Concretamente, il progetto personalizzato coinvolge l’intero nucleo familiare e prevede specifici impegni da parte della famiglia e interventi erogati dai servizi competenti (come lo svolgimento di un tirocinio formativo o forme di supporto alla genitorialità). Gli interventi da includere nel progetto sono stabiliti sulla base di una complessa valutazione delle problematiche e dei bisogni del nucleo. Inoltre, quando la condizione di povertà è legata esclusivamente alla mancanza di lavoro, il progetto personalizzato è sostituito da un “patto di servizio” stipulato fra il beneficiario disoccupato e il Centro per l’impiego su indicazione dei servizi comunali.
Beneficiari
Secondo i dati messi a disposizione dall’INPS nel suo primo semestre di attuazione (gennaio-giugno 2018) hanno beneficiato del REI 266.653 nuclei familiari per un totale di circa 840.745 persone, che hanno percepito in media 308 euro mensili. Come spiegavamo anche qui, nel calcolo andrebbero prese in considerazione anche le persone che nello stesso periodo hanno percepito gli ultimi scampoli della precedente misura, il Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA), che poteva essere richiesta fino al 31 ottobre 2017. Tenendo conto della somma dei beneficiari di REI e SIA, nel primo semestre 310.902 famiglie per un totale di 1.018.039 persone hanno goduto di queste misure anti-povertà.
Una premessa: il ruolo dell’Alleanza contro la povertà
Il REI non è una misura disegnata in maniera unilaterale dalla politica, ma è piuttosto il frutto del costante confronto fra i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni e la società civile, rappresentata in particolare dall’Alleanza contro la povertà, l’organizzazione che riunisce associazioni, confederazioni, sindacati e altre organizzazioni del Terzo Settore che condividono l’obiettivo di promuovere il miglioramento delle politiche di lotta alla povertà. Con la nascita dell’Alleanza, avvenuta a fine 2013, per la prima volta nel nostro Paese si è costituito un organismo che rappresenta gli interessi delle persone in povertà e che ha contribuito in maniera significativa alla nascita e al disegno di questa misura. In tutte le fasi che hanno portato all’introduzione del REI, che proveremo a raccontarvi in questo approfondimento, l’Alleanza contro la povertà ha giocato un ruolo di primo piano alimentando costantemente l’attenzione sul tema, elaborando proposte e partecipando attivamente ai processi decisionali. Seppur non sempre citata nel corso dell’articolo, dunque, in questa storia l’Alleanza ha un posto centrale che, per altro, è auspicabile possa mantenersi anche in futuro.
Prima del REI: dalla Carta Acquisti al Sostegno all’Inclusione Attiva
Il REI come detto non è l’esito di un provvedimento “illuminato” o, come va di moda dire di questi tempi, “rivoluzionario”. È piuttosto il frutto di un lungo e complesso percorso, che ha visto, da un lato, il costante incremento delle risorse investite nel campo della povertà e, dall’altro, l’allargamento progressivo della platea dei beneficiari. Per capire la portata di queste azioni appare quindi interessante fare un passo indietro e vedere su quali basi si fonda quello che poi è diventato il REI.
La Carta Acquisti ordinaria e la Nuova Carta Acquisti
Nel 2008 il principale strumento per combattere la povertà, voluto dall’allora Governo Berlusconi, era la Carta Acquisti: una carta di debito, dell’importo di 40 euro mensili, pensata principalmente per i pensionati e finalizzata all’acquisto di generi di prima necessità. Nel 2011 fu prevista una riforma di questa carta e una sperimentazione del valore di 50 milioni di euro da realizzare in 12 Comuni con più di 250.000 abitanti per estenderla anche ad altre categorie di persone. La caduta del Governo Berlusconi nel novembre 2011 portò al rinvio del provvedimento, che fu però “ereditato” dal Governo Monti che, con il Dedreto legge 5/2012, diede vita alla Nuova Carta Acquisti (NCA) rivolta alle famiglie in povertà con almeno un minore e condizionata alla sottoscrizione, da parte del beneficiario, di un percorso di inclusione sociale di competenza dei servizi sociali comunali.
La sperimentazione (della durata di 12 mesi) partì nell’estate del 2013, ma con una dotazione finanziaria (i citati 50 milioni) sufficiente a raggiungere meno del 10% dei nuclei familiari in possesso dei requisiti d’idoneità, nonostante questi fossero particolarmente stringenti. Il nucleo, nel quale doveva essere presente un figlio minorenne, doveva infatti avere un Isee complessivo inferiore o uguale a 3.000 euro, non possedere una casa di proprietà del valore (calcolato ai fini ICI) superiore a 30.000 euro, non possedere un patrimonio mobiliare e patrimoniale superiore a 8.000 euro. Il valore dei trattamenti assistenziali, delle indennità o delle pensioni non doveva superare i 600 euro mensili. Nessun componente del nucleo doveva inoltre essere in possesso di autoveicoli o motocicli acquistati nei 3 anni precedenti. Infine, con riferimento alla condizione lavorativa, i componenti in età attiva dovevano essere stati inattivi nei 36 mesi precedenti la richiesta.
A settembre del 2014, quando la misura era stata implementata in 11 delle 12 città oggetto della sperimentazione, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali fece un primo bilancio. In primo luogo, paradossalmente, le esigue risorse stanziate non erano state esaurite. Le amministrazioni comunali avevano impiegato una quota che, a seconda delle città, andava dalla metà ai due terzi del totale delle risorse. Complessivamente (per varie ragioni di cui abbiamo trattato qui) solo il 30% dei fondi disponibili furono assegnati. I nuclei beneficiari erano stati appena 6.517, pari complessivamente a 26.836 persone che avevano percepito in media 334 euro al mese.
Il Sostegno all’Inclusione Attiva
A giugno del 2013 il Governo Letta istituì un gruppo di lavoro, presieduto dall’allora Vice-ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maria Cecilia Guerra, per ragionare di una nuova misura di contrasto alla povertà. A settembre dello stesso anno il gruppo presentò la proposta per l’introduzione del Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA), una misura universalistica – ovvero che non condiziona l’intervento alla presenza di una qualche caratteristica individuale o familiare ma tiene conto solo dell’insufficienza delle risorse economiche – per contrastare la povertà in Italia. Anche in questo caso, in maniera simile alla NCA, l’erogazione del sussidio avrebbe dovuto accompagnarsi alla sottoscrizione di un percorso di inclusione.
Nonostante l’intenso lavoro svolto dal gruppo di esperti, la Legge di Stabilità 2014 non stanziò il miliardo e mezzo di euro individuato come “limite minimo di impegno finanziario” necessario per avviare la misura. Per dare comunque gambe al SIA fu quindi avviato un complicato lavoro di recupero e accorpamento di risorse provenienti da fonti diverse – anche comunitarie – che permettesse almeno di programmare una serie di estensioni della NCA, ora sotto il nome di SIA, e non gettare via il lavoro fatto fino a quel momento. In particolare, la Legge di Stabilità ampliò la sperimentazione della NCA alle regioni del Centro-Nord, completando il processo di estensione a livello nazionale iniziato pochi mesi col cosiddetto Decreto Lavoro (76/2013) che aveva già esteso lo strumento alle regioni del Sud Italia.
Legge di Stabilità 2016: uno snodo centrale
Nel 2015, anche a causa del forte aumento del livello di povertà nel Paese, il Governo Renzi si impegnò ad intervenire in modo incisivo su questo fronte. In questo senso gli ultimi mesi dell’anno rappresentarono uno snodo centrale per la discussione sul tema e, in particolare, per l’inserimento nella Legge di Stabilità 2016 di provvedimenti che permettessero di aggredire fortemente la povertà.
In primo luogo, fu prevista l’adozione di una Legge Delega per il contrasto alla povertà, ovvero un provvedimento con cui il Parlamento avrebbe dato mandato al Governo per definire e implementare una “misura unica nazionale di contrasto alla povertà” (quindi, anche se ancora non così definito, quello che sarebbe poi diventato il Reddito di Inclusione). In secondo luogo, fu istituito il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale e, per la prima volta, furono previsti ingenti finanziamenti strutturali (ovvero stabilmente iscritti nel registro di finanza pubblica) in materia di lotta alla povertà (ne parlammo qui e qui).
In quest’ottica furono stanziati 380 milioni che, unitamente a risorse recuperate da precedenti stanziamenti, vennero impegnati per estendere ulteriormente la NCA/SIA. Nei fatti, grazie a una dotazione complessiva di 750 milioni, il SIA fu individuato come la “misura ponte” per sostenere, in attesa del futuro REI, le famiglie in povertà presenti su tutto il territorio nazionale. La stessa Legge di Stabilità approvò inoltre lo stanziamento – a decorrere dal 2017 – di 1 miliardo l’anno per sostenere la misura.
L’attuazione del “SIA ponte” e l’emanazione della Legge Delega
Nel corso del 2016 e del 2017 l’evoluzione della politica di contrasto alla povertà proseguì su due differenti binari. Da un lato, presero il via i lavori che portarono prima all’emanazione della Legge Delega per l’implementazione di quello che sarebbe diventato il REI; dall’altro, si procedette all’attuazione del “SIA ponte” realizzando anche una serie di estensioni che hanno visto progressivamente crescere la platea dei beneficiari.
L’attuazione del “SIA ponte”
Il SIA fu attivato su tutto il territorio nazionale secondo le modalità indicate dal decreto “Avvio del Sostegno per l’Inclusione Attiva – SIA” del 26 maggio 2016. Rispetto alla Nuova Carta Acquisti, inoltre, il “nuovo” SIA ridefinì i requisiti del nucleo familiare richiedente. Se infatti la NCA si rivolgeva solo alle famiglie con un figlio minorenne, il SIA poteva essere richiesto anche in presenza di un figlio disabile e di una donna in stato di gravidanza accertata. Inoltre, con il SIA decadde il requisito, previsto dalla NCA, legato alla presenza nel nucleo familiare di disoccupati, di cui almeno uno doveva aver svolto attività lavorativa continuativa per un minimo di sei mesi nei tre anni precedenti la richiesta della misura. Un’ulteriore novità riguardò l’introduzione della “valutazione multidimensionale del bisogno” che teneva conto dei carichi familiari e della situazione economica e lavorativa, con l’obiettivo di favorire i nuclei con figli fino a tre anni, quelli in cui era presente un genitore solo e in cui c’erano persone con disabilità grave o non autosufficienti. Per ottenere il beneficio era richiesto il raggiungimento di un punteggio minimo complessivo di 45 punti. La misura così definita divenne effettivamente operativa il 2 settembre 2016, giorno dal quale i cittadini in possesso dei requisiti poterono iniziare a farne richiesta.
Pochi mesi dopo l’entrata in vigore del SIA, la Legge di Bilancio 2017 stabilì un incremento a regime di 150 milioni del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Le risorse disponibili salirono così a 1,2 miliardi per il 2017 e a 1,7 miliardi per il 2018. La stessa Legge di Bilancio stabilì, inoltre, che un decreto interministeriale avrebbe dovuto procedere all’aggiornamento dei criteri per l’accesso al SIA al fine di ampliare ulteriormente la platea dei beneficiari. Una scelta, quest’ultima, dettata dalla percezione che un gran numero di persone in stato di bisogno fossero escluse dal SIA e confermata pochi mesi dopo (il 17 gennaio 2017) dal Presidente dell’Inps nel corso di un’audizione presso la Commissione lavoro del Senato. In particolare Boeri evidenziò che su 208.350 domande presentate nel 2016 solo 58.865 (29%) erano state accolte. Un situazione dovuta alla presenza di vincoli troppo restrittivi nella valutazione multidimensionale del bisogno (ne abbiamo discusso qui e qui).
Successivamente, il 16 marzo 2017 uno specifico decreto intervenne sul punto e ridusse da 45 a 25 il punteggio necessario per accedere alla misura. Questo decreto stabilì, inoltre, un incremento del beneficio per un importo pari a 80 euro a favore delle famiglie composte da un solo genitore e da figli minorenni e, in caso di presenza di persona non autosufficiente, l’innalzamento da 600 a 900 euro mensili della soglia riferita al valore complessivo dei trattamenti economici (di natura previdenziale, indennitaria e assistenziale) percepiti nel mese precedente la richiesta del SIA.
La Legge Delega e il lancio del REI
Parallelamente andava delineandosi il (non facile) percorso che avrebbe portato al REI. Il Disegno di Legge Delega sulla povertà fu presentato dall’allora Ministro Poletti l’8 febbraio 2016 alla Camera, che approvò il provvedimento il 14 luglio successivo trasmettendolo al Senato.
A causa della caduta del Governo Renzi in dicembre il provvedimento sembrò però finire su un binario morto e solo dopo più di un anno (marzo 2017) dalla presentazione al Parlamento, la Legge Delega fu licenziata dal Senato. Il Governo Gentiloni ricevette quindi il mandato parlamentare di adottare uno o più decreti legislativi finalizzati all’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà, individuata dalla Legge Delega come “Livello essenziale delle prestazioni – LEP”. In parole povere, a fronte dell’autonomia di cui Regioni ed enti locali godono nel campo delle politiche sociali, la nascente misura avrebbe dovuto comunque essere garantita omogeneamente su tutto il territorio nazionale. Per la prima volta una misura di lotta all’indigenza era riconosciuta come un diritto soggettivo di quanti si trovano in povertà (vedi più avanti).
Tutto l’iter di approvazione della delega è stato caratterizzato dalla continua interazione tra Governo e Alleanza contro la povertà – che portò a varie modifiche sia nell’approvazione parlamentare della Legge Delega che nel seguente lavoro di stesura del relativo decreto di attuazione – e che risultò evidente anche nel Memorandum che il 14 aprile 2017 venne siglato dal Presidente del Consiglio Gentiloni e dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali Poletti.
Infine, il 15 settembre 2017, il Decreto Legislativo n. 147 attuò la delega istituendo a decorrere dal 1° gennaio 2018 il Reddito di Inclusione. Il decreto previde inoltre una modifica importante alla struttura del REI: una quota del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, la cosiddetta “quota servizi”, sarebbe stata destinata al rafforzamento e alla programmazione dei servizi territoriali rivolti ai beneficiari. In questa fase il REI, in linea con quanto previsto in precedenza dal SIA “ponte”, era ancora una misura categoriale e non universalistica, dato che riconosceva precedenza alle famiglie con minori, con disabili gravi, con donne in stato di gravidanza accertata o a persone disoccupate di 55 o più anni di età. Ma pochi mesi dopo anche questo aspetto sarebbe stato superato.
La Legge di Bilancio 2018: il REI diventa universalistico
Prima ancora di entrare in vigore, infatti, la Legge di Bilancio per il 2018 trasformò il REI in una misura (almeno sulla carta) universalistica. In particolare fu prevista la decadenza di tutti i requisiti di accesso riguardanti le caratteristiche del nucleo familiare e l’accesso fu vincolato esclusivamente al possesso di una serie di requisiti relativi alla residenza e alla condizione economica (ne abbiamo discusso qui e qui). Inoltre, per i nuclei familiari con 5 o più componenti è stato previsto un incremento del 10% sul massimale annuo dell’importo economico. In questo caso il beneficio è passato da circa 485 a circa 534 euro mensili.
L’estensione della platea dei beneficiari e l’incremento del beneficio sono stati resi possibili da un maggiore impegno finanziario da parte del Governo. In particolare, la Legge di Bilancio 2018 ha incrementato lo stanziamento del Fondo Povertà di 300 milioni nel 2018 e previsto un ulteriore incremento di 700 milioni nel 2019 e di 900 milioni nel 2020. Inoltre, dal 2020 è stato prevista una crescita (dal 15% al 20%) della “quota servizi” del Fondo povertà, quindi delle risorse destinate al rafforzamento e alla programmazione della parte attiva della misura, ovvero dei servizi sociali territoriali rivolti ai beneficiari.
Figura 1. Le tappe che hanno portato al Reddito di Inclusione (clicca per ingrandire)
Il rafforzamento dei servizi: per la prima volta si definiscono i livelli essenziali delle prestazioni
Questo elemento legato ai servizi potrebbe sembrare secondario, ma non lo è. Come detto, secondo quanto previsto dal decreto legislativo che lo ha attuato, il REI definisce un “Livello essenziale delle prestazioni – LEP”. In campo sociale, un sistema basato sui LEP è stato introdotto per la prima volta dalla Legge 328/2000. Tuttavia, prima del REI, i LEP non sono mai stati definiti nella loro concretezza. Questo si è verificato, da un lato, perché la riforma costituzionale del 2001 (riforma del Titolo V) ha attribuito alle Regioni poteri in materia di assistenza sociale, scardinando di fatto il (neo-nato) sistema basato sui LEP definito dalla 328. Dall’altro perché all’epoca mancavano finanziamenti strutturali utili a rendere effettivi i LEP, tanto che la dotazione del Fondo nazionale per le politiche sociali, nato per finanziare il sistema integrato dei servizi territoriali, era determinata annualmente in Legge Finanziaria. Si trattava quindi di una dotazione non strutturale che, avendo un orizzonte (nella migliore delle ipotesi) triennale, non poteva fornire la copertura necessaria al concreto finanziamento dei LEP.
Con l’approvazione nel marzo 2018 del “Piano per gli interventi e i servizi sociali di lotta alla povertà” che costituisce lo strumento programmatico per l’utilizzo della “quota servizi” del Fondo povertà, i LEP, per la prima volta, sono stati definiti in campo sociale. Anche se rimane un’ombra, poiché come si legge nel Piano i LEP sono garantiti “nei limiti delle risorse disponibili”, la previsione di un finanziamento strutturale dà corpo a un sistema di servizi basato sul riconoscimento di diritti soggettivi. Si tratta di un sistema che il nostro Paese aspettava da molto tempo.
Concretamente grazie a queste previsioni il REI stabilisce un livello essenziale delle prestazioni e di conseguenza sono considerati livelli essenziali delle prestazioni anche i servizi e gli interventi che accompagnano il nucleo familiare dal momento della richiesta del REI all’uscita dalla condizione di povertà. I LEP come definiti nel Piano riguardano in particolare: I) la valutazione multidimensionale del bisogno; 2) il progetto personalizzato; 3) i servizi volti a garantire l’accesso al REI (punti di accesso al REI). Questi servizi devono ora essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
C’è però un problema. Con l’approvazione del Piano nazionale, le Regioni sono state chiamate a disciplinare attraverso propri Piani regionali (o altri atti di programmazione) le modalità di collaborazione e cooperazione tra i servizi. La predisposizione di questi Piani dovrebbe consentire agli enti locali di accedere alle risorse della “quota servizi” stanziate a livello nazionale e di avviare il complesso lavoro di rafforzamento dei servizi destinati ai beneficiari del REI. Diverse Regioni però ad oggi non si sono ancora dotate di propri piani e quindi rischiano di "bloccare" le risorse destinate ai Comuni.
Qualche riflessione (non) conclusiva: cosa c’è ancora da fare
E ora un po’ di questioni molto pratiche. La dotazione del Fondo povertà per il 2018 è pari a 2.059 milioni di euro, di cui: 1.747 milioni destinati alla componente economica del REI e 297 milioni al rafforzamento dei servizi sociali territoriali (20 dei quali riservati agli interventi e servizi in favore delle persone in condizione di povertà estrema e senza dimora). Per il 2019, le risorse già stanziate ammontano a circa 2,5 miliardi e a decorrere dal 2020 dovrebbero salire a quasi 2,8 miliardi strutturali.
In sei anni siamo passati dai 50 milioni investiti nella NCA, che come abbiamo visto a distanza di un anno dall’avvio non aveva raggiunto neanche 27.000 persone, agli oltre 2 miliardi della dotazione del Fondo povertà, che nei primi mesi del 2018 hanno consentito di raggiungere oltre 1 milione di persone (sommando beneficiari del REI e dell’ultima parte del SIA). Tuttavia, molti sono ancora i poveri che, con gli stanziamenti attuali, rischiano di non accedere alla misura e, al contempo, quelli che vi accedono non sempre ricevono risorse sufficienti a garantire il raggiungimento della soglia di povertà assoluta. Per questo rimane auspicabile che si proceda all’incremento delle risorse necessarie a raggiungere tutti e a garantire loro di superare la condizione di povertà assoluta.
Secondo le stime realizzate dall’Alleanza contro la povertà questa dotazione permette ad oggi di raggiungere circa 2,5 milioni di persone. Per raggiungere tutta la platea di oltre 5 milioni di persone in povertà assoluta e, al contempo, garantire a tutti il raggiungimento della soglia di povertà assoluta (aumetando il beneficio fino a 396 euro medi mensili rispetto ai 308 attuali) sarebbero necessari circa 8,5 miliardi di euro l’anno. Considerando le risorse attuali, servirebbe allora una dotazione aggiuntiva a regime di circa 5,8 miliardi annui. Una cifra certamente ingente ma, nei fatti, inferiore ai 10 miliardi di euro che il MoVimento 5 Stelle ha dichiarato necessari per implementare il Reddito di cittadinanza. E, soprattutto, sarebbe una cifra che andrebbe a innestarsi su un sistema che, seppur non perfetto, si rivolge effettivamente alle persone più svantaggiate.
Allo stesso tempo, bisogna garantire agli Enti locali continuità, oltre che nei finanziamenti, anche nell’attribuzione delle funzioni legate ai servizi, in modo da consentire loro di proseguire con la programmazione delle azioni volte al rafforzamento delle misure dedicate al reinserimento dei beneficiari. Come abbiamo visto, infatti, la presa in carico dei nuclei prevede un complesso lavoro di valutazione del bisogno e la definizione di un percorso personalizzato di uscita dalla povertà. Si tratta di compiti che al momento solo i servizi sociali possono svolgere in maniera adeguata, e in questa fase è molto difficile, se non impossibile, immaginare che una valutazione di questo tipo possa essere interamente demandata ai Centri per l’impiego (al momento solo parzialmente coinvolti dal REI) così come sarebbe previsto dal Reddito di Cittadinanza.