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Il 6 ottobre su Corriere Buone Notizie è uscita la nostra inchiesta sulle organizzazioni che durante la fase 1 hanno attivato o rafforzato strumenti di welfare aziendale e responsabilità sociale per venire incontro alle mutate esigenze sociali. L’inchiesta si basa sui dati della ricerca "Organizzazioni solidali ai tempi del Covid-19" svolta dal nostro Laboratorio tra marzo e aprile 2020. Di seguito potete leggere l’articolo "di contesto" curato da Paolo Riva; qui invece trovate il commento di Federico Razetti, che mette in guardia sul rischio di disperdere gli sforzi messi in campo.

“Senza soluzione di continuità”. Gaia Melloni risponde così quando le si chiede come è stato per ActionAid Italia il passaggio dalla normale attività a quella in lockdown, lo scorso marzo. “Abbiamo uno staff di circa 140 persone e con la logistica non abbiamo avuto problemi”, spiega la responsabile organizzativa dell’Ong. “Da noi – prosegue – lo smart working era già la norma, grazie a un progetto lanciato cinque anni fa”. Per questo, ad inizio confinamento, Melloni e il suo team non hanno dovuto spendere energie per riorganizzarsi, ma si sono concentrati sui bisogni emergenti, attivando una serie di misure a sostegno del lavoro del personale: formazione, informazione, possibilità di supporto psicologico, un’assicurazione sanitaria, spazi di condivisione. 

Quello di ActionAid è un caso interessante, ma poco comune, anche nel mondo delle imprese. Per moltissime organizzazioni, profit e non profit, le sfide imposte dal confinamento sono state molto complicate. Alcune però le hanno affrontate meglio di altre, in quanto a lavoro agile, welfare aziendale e responsabilità sociale d’impresa (RSI), generando ricadute positive per i lavoratori, ma anche per le comunità.

Il laboratorio Percorsi di secondo welfare ha scovato questi soggetti e ha proposto loro un questionario, dalle cui risposte è nata la ricerca «Organizzazioni solidali ai tempi del Covid-19». “Crediamo – spiega la direttrice Franca Maino – che queste pratiche siano dei simboli di attenzione per i territori in cui le organizzazioni operano. E possano quindi contribuire a contrastare le conseguenze della crisi scatenata dalla pandemia”.

Per quanto riguarda la RSI, la metà delle quasi 500 organizzazioni censite già realizzava interventi solidali e, in larga parte, ne ha introdotti di nuovi durante il lockdown, mentre il 33 per cento ha iniziato durante la Fase 1. Tra le azioni più frequenti, le donazioni a ospedali e protezione civile e l’acquisto di materiale sanitario. Sul fronte del welfare aziendale, smart working compreso, quasi il 76 per cento degli enti considerati ha introdotto nuove azioni, tra cui indennità o assicurazioni per i malati di Covid-19 e supporto psicologico. 
 


La ricerca spiega che tra le due aree esistano dei “chiari nessi”
, considerato “l’impegno profuso da molte organizzazioni su entrambi i fronti”. È il caso dell’azienda farmaceutica Grünenthal Italia, che da tempo compie azioni di RSI, dal 2015 ha un ampio piano di welfare aziendale e durante il lockdown ha lanciato ulteriori iniziative. “Abbiamo previsto la donazione, su base volontaria, dell’1 per cento del premio di produzione e/o di un’ora di retribuzione dei dipendenti all’Ospedale Sacco di Milano e alla Protezione civile. E, in entrambi i casi, l’azienda ha aggiunto una donazione di pari importo”, spiega il responsabile delle risorse umane Luigi Uccella.

Passata l’emergenza, quale eredità lasceranno queste iniziative? Quella che Secondo Welfare ha definito ri-attivazione solidale” durerà? Oppure la crisi economica e sociale prenderà il sopravvento? Riguardo al futuro, il 41 per cento delle organizzazioni ritiene prematuro fare valutazioni, ma il 35 per cento dice di voler aumentare gli investimenti in questi ambiti. Un dato che fa ben sperare Maino. “Da un lato – osserva – si sta sviluppando un dibattito positivo, che analizza rischi e opportunità di queste pratiche, a partire dallo smart working. Dall’altro, i prossimi mesi saranno cruciali, con la stesura della Legge di bilancio e la definizione delle proposte per l’uso dei fondi europei di Next Generation EU”.

Intanto, a settembre, sono stati pubblicati i risultati del Welfare Index PMI, curato da Generali: per la prima volta in cinque anni, su 6.500 piccole e medie imprese, più della metà è risultata attiva nel welfare aziendale. Per gli autori del rapporto si tratta di “un salto di qualità”, che potrebbe ulteriormente concretizzarsi con i rinnovi di numerosi contratti collettivi nazionali, possibili nei prossimi mesi e capaci di sfiorare i 14 milioni di lavoratori coinvolti.

Per Maino, ancora di più in questa fase decisiva, è fondamentale allargare il più possibile i benefici del welfare aziendale, dai soli lavoratori che ne hanno diritto a tutte le comunità di cui fanno parte: da aziendale a territoriale. “Per riuscirci – riprende la direttrice di Secondo Welfare – serve una forte consapevolezza da parte delle aziende e, soprattutto, delle organizzazioni di rappresentanza sindacali e datoriali”. L’idea è che, per superare le difficoltà delle imprese medio piccole nel fare welfare aziendale, si debba fare rete, aggregare più soggetti sugli stessi territori e rispondere così ai bisogni di intere comunità e non di singole aziende, magari le più grandi e in salute.

 Non è facile, ma è possibile. “Lo Stato dovrebbe stanziare alcuni fondi per dei progetti trasversali, di rete, che facciano lavorare insieme istituzioni che si occupano di temi diversi”, propone Maino. “Negli ultimi dieci anni – conclude – il nostro Laboratorio ha mappato tante esperienze di secondo welfare dal basso: co-progettazioni sui territori che hanno sfidato diffidenze e generato fiducia. Non sono distribuite in modo omogeneo, ma esistono: è arrivato il momento di valorizzarle e metterle a sistema”.


Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 6 ottobre nell’ambito della 
collaborazione tra Secondo Welfare e Buone Notizie; è qui riprodotto previo consenso dell’autore.