Il 6 ottobre su Corriere Buone Notizie è uscita la nostra inchiesta sulle organizzazioni che durante la fase 1 hanno attivato o rafforzato strumenti di welfare aziendale e responsabilità sociale per venire incontro alle mutate esigenze sociali. L’inchiesta si basa sui dati della ricerca "Organizzazioni solidali ai tempi del Covid-19" svolta dal nostro Laboratorio tra marzo e aprile 2020. Di seguito potete leggere il commento di Federico Razetti, che mette in guardia sul rischio di disperdere gli sforzi messi in campo. Qui invece potete leggere l’articolo principale curato da Paolo Riva.
La crisi innescata dal Sars-COV-2 si sta rivelando un vero e proprio “stress test” non solo per la sopravvivenza e la tenuta esistenziale di individui e famiglie – in molti casi messi a dura prova sul piano sanitario, economico e psicologico – ma anche sulla capacità di resistenza di sistemi complessi quali le organizzazioni (pubbliche e private), improvvisamente costrette ad agire in un contesto radicalmente mutato. Con la drammatica brutalità di cui gli eventi dirompenti sono capaci, l’epidemia ha messo a nudo tutta la vulnerabilità della nostra società. Ha però anche evidenziato quanto persone e organizzazioni siano dipendenti tra loro e quanto la “salute” delle relazioni sociali possa fare la differenza nel resistere all’urto delle crisi, contenendone l’impatto sul benessere individuale e collettivo.
Il legame tra benessere personale e collettivo emerge con tutta evidenza, anche in tempi ordinari, nel variegato universo del welfare aziendale e della responsabilità sociale. Durante la “fase 1”, l’indagine condotta da Percorsi di secondo welfare ha documentato come, proprio nei territori più duramente colpiti dal contagio, numerose organizzazioni – private e pubbliche, profit e non profit, grandi e piccole – hanno attivato o rafforzato questi strumenti per assicurare continuità alle proprie attività, offrire nuovi servizi per venire incontro alle mutate esigenze dei propri collaboratori e delle loro famiglie, sostenere le istituzioni pubbliche e le comunità impegnate nell’immane sforzo di contrasto alla diffusione del virus. Ciò che appare particolarmente interessante è che, come illustrato anche nell’infografica, la pandemia ha indotto diverse organizzazioni a sperimentarsi per la prima volta – per convinzione o necessità – sui terreni del welfare aziendale, dello smart working e della responsabilità sociale.
Affermare per questo che la crisi potrebbe trasformarsi in un’opportunità rischierebbe di aggiungere poco al dibattito su come uscire dalla crisi seguendo logiche più sostenibili di quelle che hanno condotto alla situazione attuale. Guardando al welfare aziendale e alla responsabilità sociale, conviene piuttosto interrogarsi su come creare le condizioni perché l’investimento fatto – più o meno convintamente – da molti soggetti collettivi durante il confinamento non si disperda, ma diventi invece apprendimento e patrimonio acquisito, a vantaggio di organizzazioni e individui. Infatti, se oltre il 40 per cento di chi si era già cimentato in queste iniziative prima della crisi ha dichiarato l’intenzione di accrescere il proprio impegno anche nella “nuova normalità”, tra chi lo ha fatto per la prima volta durante il lockdown solo poco più di un quarto ha manifestato lo stesso intento.
L’imminente discussione della Legge di Bilancio e i tavoli negoziali aperti per i rinnovi di diversi Contratti Collettivi saranno ottimi banchi di prova per valutare la convinzione e la capacità – del Governo e dei corpi intermedi – di creare le condizioni necessarie a facilitare la capitalizzazione, anche da parte dei “neofiti” del welfare, dell’esperienza maturata nei mesi più duri della crisi. Tenendo conto, auspicabilmente, della ridefinizione dei bisogni indotta dalla pandemia e della necessità che le iniziative sostenute siano sempre più inclusive.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 6 ottobre nell’ambito della collaborazione tra Secondo Welfare e Buone Notizie; è qui riprodotto previo consenso dell’autore.