Il Ministero del Lavoro sta mettendo a punto l’implementazione della Youth Guarantee, l’iniziativa dell’Unione Europea volta a contrastare la disoccupazione giovanile che nel continente cresce a ritmi allarmanti, e che è arrivata a toccare il 41,6 % in Italia. Le aspettative sono alte, ma quali risultati effettivamente potrà raggiungere nel nostro paese? Il contesto italiano presenta infatti molte criticità – sia relative alle politiche del lavoro che al sistema economico – che rischiano di compromettere l’esito del piano.
Tra crisi e austerity
Innanzitutto ci sono problematiche riconducibili al contesto generale, a cominciare dalla crisi economico-finanziaria. L’Italia, come molte delle economie europee, non si è ancora ripresa dallo shock del 2008. Nel 2013 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il livello del 40% per gli under 25 e il 10,3% tra i 25 e i 74 anni; il PIL continua a scendere, -2,5% nel 2012 (Eurostat). Come è possibile creare posti di lavoro per i più giovani se l’intero sistema economico è in crisi?
Non solo. Come vedremo, il sistema italiano di politiche del lavoro per essere veramente efficace deve essere radicalmente riformato e adeguato ai nuovi bisogni, alla stregua di quanto accade nei “migliori” paesi europei, un obiettivo che richiede ingenti investimenti pubblici. Parte delle risorse necessarie in questo senso arriveranno dall’Unione Europea – grazie al Fondo Sociale Europeo o alla Youth Employment Iniziative –, altre potranno essere recuperate ri-equilibrando le voci di spesa – ad esempio dalle politiche passive a quelle attive – ma è chiaro che i parametri imposti per abbattere il deficit pubblico potranno compromettere la possibilità di effettuare investimenti su larga scala.
Il fattore età
L’Unione Europea ha indirizzato la Youth Guarantee principalmente ai NEET sotto i 25 anni, lasciando ai singoli Stati la possibilità di estenderla fino ai 30 anni. L’Italia ha momentaneamente deciso di circoscrivere l’iniziativa fino ai 25 anni e valuterà nel corso dell’anno un eventuale – probabile – allargamento fino ai 29.
Una decisione che sarebbe, secondo molti, assolutamente auspicabile. In Italia, infatti, il conseguimento del diploma di scuola superiore avviene un anno dopo rispetto a molti altri paesi, il che genera un ritardo nel completamento degli studi e quindi dell’ingresso nel mondo del lavoro. Teniamo presente, inoltre, che la percentuale di NEET tra i 20 e i 25 anni è del 29,5%, cioè non molto più alta di quella tra i 25 e i 29, che è al 28,9%.
Limitare la misura ai minori di 25 anni rischia quindi di rendere la Garanzia inutile per buona parte dei giovani disoccupati italiani, coloro che hanno completato il percorso di studi e sono entrati nel mondo del lavoro proprio nel mezzo della crisi. I quali, oltre al “danno” di avere cercato il primo impiego in una fase di congiuntura economica critica – con l’impatto che ne deriva per carriere, retribuzione, ecc. – avrebbero anche “la beffa” di essere esclusi dalle nuove politiche di sostegno all’occupazione.
Le politiche attive
Dati i meccanismi di path dependency e policy legacy, possiamo ragionevolmente supporre che nei paesi che hanno già politiche attive o “garanzie” per l’occupazione giovanile la Youth Guarantee potrà avere maggiori possibilità di successo, essendo costruita su un terreno già ben predisposto. Al contrario, nei paesi dove queste politiche sono scarse – o nulle – la sua implementazione sarà più difficile da realizzare, e da realizzare con successo.
A questo proposito, il sistema italiano di politiche del lavoro è fortemente squilibrato. In riferimento alla spesa pubblica in materia di politiche del lavoro, nel 2012 l’Italia ha speso l’80% delle risorse in misure di sostegno al reddito, appena il 18% in politiche attive e solo il 2% in servizi per l’impiego (Eurostat). Se consideriamo che è su queste ultime due che si concentra la Youth Guarantee, è chiaro che le condizioni di partenza non sono delle migliori.
I centri per l’impiego
Un altro “tasto dolente” è costituito dai centri per l’impiego, a cui la Garanzia riserva un ruolo centrale, individuandoli come il punto di incontro tra i giovani disoccupati e i datori di lavoro. Saranno i CPI, infatti, a gestire le richieste e a offrire le relative proposte – di lavoro o formazione. Ma saranno davvero in grado di farlo?
“Afflitti” dalla carenza di risorse economiche e umane, presentano in media 1 operatore per 200 disoccupati – nel Regno Unito il rapporto è di 1 a 43, in Germania 1 a 27. Il che significa che questi operatori sono quasi completamente assorbiti da mansioni burocratiche/ammnistrative, e molto poco spazio è lasciato invece alle “attività di promozione attiva”, come la pianificazione di percorsi personalizzati, e la costruzione di relazioni collaborative con le imprese e le altre realtà territoriali.
Inoltre, guardando ai principali canali di assunzione, solo il 2,2% delle aziende nel 2012 ha effettuato le proprie assunzioni rivolgendosi ai CPI. Una percentuale quasi irrisoria se confrontata con gli altri canali di assunzione: annunci sulla stampa (1,5%), agenzie per il lavoro/portali online (5,2%), database aziendali/ candidature spontanee (24,4%) e, soprattutto, segnalazioni di conoscenti, famigliari e fornitori (Confartigianato 2013). Non si tratta, quindi, solo di un problema di strutture, quanto anche di mentalità.
I tirocini: davvero un’opportunità?
La Youth Guarantee, infine, enfatizza la rilevanza dei tirocini come opportunità di accrescere le capacità degli inoccupati e facilitare il passaggio scuola-lavoro, riducendo il mismatch delle competenze: in Italia il 40% dei giovani è inadeguato alla propria posizione occupazionale o perché sottoqualificato (20%) o sovraqualificato (20%). Percentuale, quest’ultima, che sale al 30,4% tra i laureati.
Numerose ricerche rivelano, tuttavia, che i tirocini negli ultimi anni sono stati utilizzati, più che come opportunità di potenziamento delle competenze, come modalità di reclutamento di manodopera a basso costo e senza particolari vincoli contrattuali. Due fattori dimostrerebbero questa tendenza: innanzitutto negli anni passati, nonostante il numero generale di posti di lavoro sia calato, il numero di tirocini attivati è aumentato. In secondo luogo, la scarsa qualità dei progetti formativi – richiesti per l’attivazione di un tirocinio – che si riducono spesso ad una mera lista di mansioni elementari, che poco “impattano” su una buona formazione professionale. Il risultato è che nel 2012 solo l’11% dei tirocini si sono trasformati in contratti di lavoro regolari e l’uso dei tirocini è stato limitato, e maggiormente concentrato nell’ambito del percorso di studio.
In conclusione, è difficile pensare che la Youth Guarantee possa risolvere, da sola, il problema della disoccupazione giovanile in Italia. Può rappresentare, però, un’occasione importante per effettuare, finalmente, quelle riforme delle politiche del lavoro che nel nostro paese sono state messe sempre in secondo piano a discapito soprattutto di alcuni gruppi, come quello dei giovani, che hanno scarsa capacità di rappresentanza. L’Unione Europea negli ultimi anni ha spesso funto da motore per il cambiamento, sensibilizzando l’attenzione in merito ad alcuni problemi, incoraggiando le riforme su altri. Riuscirà a farlo anche con la Youth Guarantee?
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