Ora che Matteo Renzi siede nella stanza dei bottoni, il tempo degli annunci a effetto e dei richiami a Obama è definitivamente scaduto. Cosa c’è nel famoso Jobs Act? Che cosa si propone di fare il nuovo governo in tema di lavoro? A questo punto l’opinione pubblica ha il diritto di sapere: di leggere e valutare proposte concrete, con tanto di costi, tempi, obiettivi misurabili. Nell’impaziente attesa, è opportuno fermare qualche paletto sulle cose minime da fare.
La prima è molto semplice: realizzare tutte le misure già legiferate che ancora galleggiano nel limbo degli adempimenti amministrativi e finanziari e che dunque non stanno producendo alcun risultato. Incentivi alle assunzioni, alla contrattazione di secondo livello, apprendistato, utilizzo dei fondi Ue: l’eredità delle disposizioni di legge non ancora operative è lunga, in parte risale addirittura al governo Monti. Possiamo consigliare al "velocista" Renzi di smaltire come prima cosa tutto l’arretrato.
La seconda priorità "minima" riguarda Fisco e burocrazia. O meglio, la loro drastica semplificazione, soprattutto per le imprese. Permessi, licenze edilizie, autorizzazioni ambientali, appalti, dichiarazioni tributarie e modalità di riscossione, rimborsi, compensazioni: c’è una selva oscura da disboscare, che ostacola le attività di chi produce in Italia, scoraggia gli investitori stranieri, spinge a delocalizzare. L’eliminazione di questi impedimenti è una condizione necessaria perché si torni a crescere e dunque a creare posti di lavoro. Monti e Letta ci hanno provato, ma non è successo quasi nulla. Il disegno di legge sulle semplificazioni presentato in Parlamento nel giugno 2013 sta ancora facendo la spola da una Commissione all’altra, e a ogni giro diventa più lungo e complicato. Fra le priorità minime andrebbe inclusa anche l’adozione di un nuovo codice del lavoro, secondo la proposta di Pietro Ichino. Sono riforme a costo zero: almeno su queste il nuovo governo può prendere impegni temporali precisi e verificabili?
C’è poi la cosiddetta "garanzia giovani", l’ambizioso programma per il lavoro degli under 25 cofinanziato dall’Unione Europea. Il neoministro Poletti ha detto che il programma inizierà entro un mese. Non rimandi oltre, visto che altri Paesi Ue sono già partiti, sulla base di piani molto dettagliati. Su questo fronte il governo Renzi davvero non può scherzare. La disoccupazione giovanile è un problema "allucinante" (come il presidente stesso ha riconosciuto in uno dei suoi tweet) e per giunta è stato proprio il governo italiano a premere su Bruxelles, nel giugno scorso, affinchè i finanziamenti venissero concentrati nel 2014 e 2015. Con che faccia inizieremo a luglio il semestre di presidenza italiano senza poter vantare qualche risultato nell’attuazione della garanzia giovani? La sfida è tutt’altro che facile: i potenziali beneficiari sono quasi un milione e in teoria bisognerebbe offrire a ciascuno di loro una proposta di lavoro o formazione entro quattro mesi dalla fine della scuola o dalla perdita del lavoro. Con i servizi per l’impiego che ci ritroviamo, solo un coinvolgimento diretto e massiccio del sistema imprese (tirocini, stage, apprendistati) produrrebbe qualche risultato in tempi rapidi. Dato il suo ruolo istituzionale e il suo background, il ministro Guidi può forse giocare un ruolo importante in questa partita.
Al di là dell’agenda minima, sarebbero desiderabili almeno due "piatti forti". Il primo riguarda gli ammortizzatori sociali. Il progetto elaborato per il Pd da Stefano Sacchi prevede l’abolizione della Cassa integrazione in deroga (uno schema costoso e perverso) e l’introduzione di una «Nuova Aspi» che, pur non essendo completamente universale, coprirebbe i buchi più macroscopici della riforma Fornero. La proposta è seria: diventerà quella del governo? Il secondo piatto forte riguarda gli incentivi all’occupazione. Come e di quanto verrà abbassato il costo del lavoro? Quanto andrà alle imprese, quanto ai lavoratori? A tutti i lavoratori? A queste domande non si risponde con le trattative fra partiti o fra governo e parti sociali, ma con un disegno strategico sul modello di sviluppo che riteniamo più adatto per un Paese come l’Italia.
È probabile che Matteo Renzi includa nel suo piano per il lavoro anche un terzo punto: l’introduzione del cosiddetto contratto unico a tutele crescenti. È un tema su cui merita senz’altro riflettere. Ma è anche questione molto controversa. Il mondo sindacale è in gran parte contrario, il Pd parlamentare è diviso. Il nuovo governo — e soprattutto gli italiani — hanno bisogno di risultati tangibili, non di scontri ideologici. La realizzazione dei punti "minimi" sopra indicati, la riduzione (magari progressiva e condizionale) del cuneo fiscale e la riforma degli ammortizzatori (compreso il tema spinoso dei servizi per l’impiego e per la ricollocazìone dei disoccupati) sono gli obiettivi su cui conviene puntare per il medio periodo. Senza promettere la luna, con un paziente lavoro di progettazione istituzionale e di guida politica.
Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 2 marzo