Il 13 novembre su Corriere Buone Notizie, inserto settimanale del Corriere della Sera, è stata pubblicata un’inchiesta curata da Percorsi di secondo welfare sulle misure pubbliche di contrasto alla povertà implementate negli ultimi anni. Di seguito trovate l’articolo di contesto firmato da Davide Illarietti, giornalista del Corriere della Sera, e l’infografica curata da Sabina Castagnaviz; qui invece potete trovare il commento di Lorenzo Bandera sul ruolo che l’Alleanza contro la povertà ha giocato (e potrebbe ancora giocare) su questo fronte.
In principio fu la «social card». Poi la Nca. Il Sia. Il Rei. Infine il Reddito di cittadinanza. La storia della lotta alla povertà, in Italia, è un cimitero di acronimi e slogan più o meno azzeccati, che nascondono – in soldoni – stanziamenti più o meno esigui, a sostegno di una popolazione sempre più povera. In sette anni si sono susseguite cinque sigle, una per governo. La Carta Acquisti berlusconiana. La Nuova Carta Acquisti, montiana. Il Sostegno all’Inclusione attiva del governo Letta. Il Reddito d’inclusione renziano (di cui vi avevamo raccontato ampiamente qui, ndr).
Il dibattito in corso sulla legge di bilancio Lega-5Stelle rischia di farlo dimenticare. Ma di strumenti (e soldi) sul tavolo del contrasto all’indigenza ne sono passati, e non pochi. Quante persone ne hanno beneficiato negli anni? Con quale impatto e quali risultati? I dati raccolti dall’Inps, dai sindacati e dalle associazioni dicono che le diverse misure hanno più in comune di quanto, forse, si vorrebbe far credere. E che la strada è stata – e sarà ancora – lunga.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio statistico dell’Inps, ad esempio, nei primi nove mesi di quest’anno sono stati erogati benefici economici (tra nuovi Rei e vecchi Sia) a 390mila famiglie, per un totale di oltre 1,1 milioni di persone. Assegno medio: 305 euro al mese. A beneficiarne sono state «soprattutto le regioni del Sud – si legge nel rapporto – Campania e Sicilia insieme rappresentano la metà dei nuclei familiari interessati». Ma numeri importanti – ed è la prima volta – si registrano anche al Nord, dove 187mila persone hanno ricevuto un assegno medio di 265 euro al mese.
La povertà resta lungi dall’essere «abolita», tuttavia. Dall’inizio della crisi lo stanziamento pubblico è passato da 50 milioni di euro l’anno (social card) a 2 miliardi annui (i Rei nel 2018). Ma anche i poveri assoluti sono aumentati, da 3 a 5 milioni: segno che i percorsi di reinserimento lavorativo cui gli assegni – in teoria – si accompagnano non hanno funzionato, o non bastano. La grande differenza però è di concetto. «È stato fatto un primo importante passo verso un approccio universalistico ispirato al reddito minimo, che coinvolge la povertà in toto e in quanto tale, e non più categorie limitate di beneficiari: un salto che avvicina l’Italia agli altri paesi europei», osserva Chiara Agostini del laboratorio Percorsi di Secondo Welfare, think tank della Statale di Milano e del Centro di ricerca Einaudi di Torino.
Gli intoppi non sono mancati, lungo la strada. La legge (decreto legislativo 147/2017) chiede alle venti Regioni di predisporre altrettanti piani per la lotta alla povertà. Non tutte lo hanno fatto: all’appello ne mancano sette, tra cui Campania e Sicilia. Risultato: una mappa d’Italia a macchia di leopardo, e i soliti squilibri geografici. Anche nella «virtuosa» Lombardia, per fare un esempio, gli accordi tra centri per l’impiego e servizi sociali sono una rarità: l’anno scorso esistevano in appena 39 casi su 91, secondo un’indagine condotta da associazioni e sindacati riuniti nell’Alleanza contro la povertà. In compenso, i beneficiari di sussidi in un anno sono passati da 26mila a 76mila: in media 21 per ogni assistente sociale. «Il servizio ha bisogno di essere potenziato. Il ministero del Lavoro ha messo a disposizione delle risorse, ma gli enti locali non possono accedervi in assenza di un piano regionale», spiega la segretaria di Cisl Lombardia Paola Gilardoni. Un cortocircuito. Solo nel 43 per cento dei casi – per dirne una – ai «sussidiati» lombardi sono stati offerti tirocini o borse-lavoro.
A farne le spese sono i diretti interessati, che «rischiano di vedersi sospeso l’assegno mensile erogato dall’Inps qualora non possano sottoscrivere dei progetti personalizzati per avviare il percorso di uscita dalla povertà», aggiunge Gilardoni. Su tutto questo incombe l’incognita del Reddito di cittadinanza. A cominciare dalle cifre. Quelle prospettate dal governo – oscillano: nove miliardi l’anno, dieci – non collimano con i calcoli del Terzo settore. Secondo l’Alleanza contro la povertà – che ha collaborato con l’ultima legislatura per elaborare analisi e soluzioni al problema-povertà – il fabbisogno dei 5 milioni di indigenti italiani è di 8,5 miliardi l’anno. Un quarto sono stati già stanziati fino al 2020. Fatta la differenza, mancherebbero 5,8 miliardi, non dieci.
«Il timore è che il nuovo strumento soppianti quello precedente, stravolgendone l’architettura», commenta Agostini. «Sarebbe un peccato: oltre allo spreco di risorse, vorrebbe dire cancellare anni di riflessione e scivolare verso un approccio puramente occupazionale. La povertà invece è un fenomeno complesso, che necessita di risposte multidisciplinari». Il problema insomma è di metodo. La nuova misura Lega-5Stelle promette di investire, per la distribuzione dei Redditi di cittadinanza, sulla rete dei centri per l’impiego (da potenziare) anziché sui servizi sociali dei Comuni. «Inoltre il governo non sembra voler coinvolgere nel percorso l’Alleanza contro la povertà. Il rischio – conclude l’esperta – è che venga meno la concertazione con le parti sociali». E si butti via quanto finora si è fatto, e speso.
Questo articolo è stato pubblicato su Buone Notizie del 13 novembre 2018 ed è stato realizzato nell’ambito della collaborazione tra Percorsi di secondo welfare e il settimanale del Corriere della Sera.
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