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Scorrendo i dati della dinamica di spesa per le politiche sociali degli Stati europei mi viene in mente una celebre massima: mala tempora currunt, sed peiora parantur. Possiamo davvero scongiurare il rischio che lentamente vada a spegnersi il modello di protezione sociale europeo? Credo che limitarci a ricordare quanto il welfare sia stato decisivo per raggiungere un equilibrio tra crescita economica e benessere sociale, non sia sufficiente ad impedire lo sfilacciamento del sistema di prestazioni sociali. Al contrario, ci troviamo ad affrontare un passaggio epocale. In primo luogo, ritengo che dobbiamo sgombrare il campo dalla logica manichea, dal pensiero binario, pubblico versus privato, profit versus non profit, che comprime il dibattito sul futuro del welfare in un orizzonte asfittico. Come ha ricordato Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in Veritate, tra profit e non profit è emersa una terra di mezzo, l’impresa sociale, che può essere la mossa del cavallo in una partita che sembra ormai persa. Di questi temi, si è discusso il 4 ed il 5 dicembre nella riunione della taskforce sugli investimenti ad impatto sociale, istituita nel giugno scorso in occasione del G8 dal Premier Cameron, a cui partecipo come Presidente di Uman Foundation.

L’esperienza del Regno Unito: la Big Society Capital e i Social Impact Bond

Da tempo alcuni Paesi, con il Regno Unito in testa, sono alla ricerca di strumenti che possano rappresentare un’alternativa alla crisi. Penso, ad esempio, al percorso che, a partire dal 2000, ha portato alla creazione di un vero e proprio ecosistema favorevole agli investimenti e alle imprese sociali nel Regno Unito. Dalla prima taskforce, voluta da Gordon Brown e Tony Blair e affidata a Sir Ronald Cohen, si è giunti, nel volgere di un decennio, a costruire le condizioni per un vero e proprio salto di paradigma. Così, Cameron ha ufficialmente lanciato nel 2012 Big Society Capital, una banca dedicata a sviluppare il settore degli investimenti ad impatto sociale. BSC nasce dalla volontà pubblica, senza essere però un soggetto governativo. 

Guardiamo al ruolo chiave di BSC nel sostenere i vari Social Impact Bond, che dal 2010 in avanti, sono stati lanciati in Inghilterra per sperimentare, attraverso partnership pubblico-privato, modelli innovati di finanziamento delle prestazioni di welfare, legate al raggiungimento di risultati sociali. Dal primo SIB sperimentale di Peterborough nel settore delle giustizia, oggi nel Regno Unito sono attivi 13 Social impact Bond, in diversi ambiti: la riduzione della disoccupazione giovanile, l’inclusione sociale dei senza fissa dimora, il miglioramento della vita delle fasce anziane della popolazione, gli adolescenti a rischio emarginazione sociale. Attraverso i SIB si possono sperimentare sul medio-lungo termine interventi sociali che oggi, contando esclusivamente sulle risorse pubbliche, non sarebbero sostenibili.

Un approccio come quello del Social Bond è in grado di generare una serie di vantaggi. In primo luogo, le organizzazioni del terzo settore coinvolte nell’erogazione dei servizi possono costruire progettualità di lunga durata, che consentono di migliorare e raffinare il proprio intervento. L’amministrazione pubblica sposta parte del rischio del finanziamento degli interventi sperimentali sul settore privato. A loro volta, le comunità interessate dagli interventi beneficiano di una progettualità più matura ed articolata. Altri Paesi stanno seguendo questo percorso. Negli USA, il Governo federale ha implementato da tempo i Pay for Success Bond, con uno stanziamento di 100 milioni di dollari nel 2012. In Australia, è partito un Social Benefit Bond dedicato ai minori. In Israele, a breve saranno lanciati dei SIB per l’occupabilità delle fasce deboli. I dati sono certamente ancora acerbi per fare una valutazione articolata e profonda sui SIB, ma i primi risultati sono incoraggianti. Per accompagnare, però, questo passaggio è indispensabile, come del resto è avvenuto nel Regno Unito, che la Politica sia protagonista.

Tempo d’innovazione: l’Italia non si faccia trovare impreparata

Da qualche tempo, in diversi settori, dalle organizzazioni del terzo settore al mondo finanziario, sta maturando l’idea che limitarci a rimpiangere un passato idilliaco, non possa in alcun modo portarci fuori dalla crisi. Oggi, come ci segnalano gli amici internazionali che siedono nella taskforce sugli investimenti sociali, è il tempo dell’innovazione. L’Italia non può farsi trovare impreparata anche in questo passaggio. Abbiamo passato l’ultimo decennio avviluppati su questioni di lana caprina, il risultato è impietoso. Un welfare sostenibile e di qualità dovrebbe, invece, essere un punto fermo nell’agenda politica, sia dei progressisti che dei conservatori. Tanto più però, penso che questo processo debba essere guidato dalle forze democratiche, per evitare che dietro la retorica dell’innovazione si nasconda la forbice dell’austerità. Per questo, mi piacerebbe tanto conoscere l’opinione di chi si candida a governare il Paese – e mi rivolgo in particolare a chi si è affermato segretario alle recenti primarie del Partito Democratico – sull’ipotesi di realizzare nel nostro Paese una banca per gli investimenti sociali. A Londra, abbiamo discusso di futuro, saremo in grado di farlo anche da in Italia, fuggendo per una volta dalla schiavitù della contingenza?

 

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