Come possono gli enti locali continuare a garantire i servizi sociali ai propri cittadini se la crisi ne aumenta i bisogni? Come possono fare innovazione nonostante i tagli alla spesa pubblica? Ne abbiamo parlato con l’Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Forlì, Davide Drei, e con Fausta Martino, dell’Unità Innovazione Sociale e Valutazione dei Piani di Zona. Un Comune che sta cercando di rinnovarsi facendo leva sulla partecipazione di tutti gli attori sociali e delle comunità locali, mettendo a frutto l’esperienza dei Piani di Zona.
Qual è il contesto socio-economico in cui vive attualmente la città?
Inutile dire che la crisi sta avendo pesanti ripercussioni sul benessere dei cittadini, provocando un forte aumento delle richieste di aiuto ai servizi sociali: anche il territorio forlivese, seppur ricco e con un buon livello di servizi, sta soffrendo molto. Ma non è solo la crisi a far crescere il numero di persone che si rivolgono ai servizi. C’è anche l’evoluzione demografica, caratterizzata da un generale invecchiamento della popolazione: siamo una delle città con le età più elevate a livello nazionale, abbiamo il 25% della popolazione oltre i 65 anni, e più di 100 ultracentenari. E ci sono i processi migratori, che rispecchiano l’andamento tipico del centro-nord Italia.
Come state reagendo? Quali riforme avete messo in atto?
Nonostante i vincoli di stabilità, a livello comunale non abbiamo diminuito la spesa per interventi sociali, recuperando le risorse necessarie da altre voci del bilancio. C’è stato infatti un forte calo dei trasferimenti nazionali, che abbiamo cercato di reintegrare con fondi comunali. In generale, infatti, non abbiamo voluto diminuire il livello di intervento, anzi abbiamo previsto dei fondi aggiuntivi su due linee.
La prima, concertata con le organizzazioni sindacali, prevede trasferimenti finanziari diretti (del valore di 1000, se con figli minori, o 500 euro, se no) erogati attraverso bandi destinati a persone che hanno avuto cessazioni o riduzioni del rapporto di lavoro e bandi per contributi per l’affitto. Attenzione, non parliamo delle fasce di popolazione più svantaggiate, caratterizzate da una povertà assoluta, ma di quelle colpite dall’impoverimento generato dalla crisi economica.
La seconda linea di intervento, dedicata alle povertà estreme, vede invece un’azione diretta da parte del Comune. Abbiamo previsto interventi specifici per i senza fissa dimora – spinti dal fatto che gli ultimi inverni in Romagna sono stati molto duri -, creando una struttura dedicata dove vengono organizzati anche progetti personalizzati di reinserimento sociale. Le persone in povertà persistente sono infatti sempre più numerose.
Questo per quanto riguarda le risposte più immediate, ma ci siamo resi conto che andava sviluppata anche un’altra pista di lavoro nell’ordine di generare un cambiamento più profondo nelle politiche sociali. Noi subiamo gli effetti delle decisioni di due livelli: da una parte uno Stato che negli ultimi dieci anni ha fatto un passo indietro sulle politiche sociali non dando corso a normative come la 328/2000 – che erano anche molto avanzate e potenzialmente in grado di favorire la creazione di servizi sociali integrati – e che ha tagliato drasticamente i fondi nazionali (che dal 2010 al 2011 sono calati di ben il 76,3%). Dall’altra una Regione presente per certi aspetti in bene, per il sostegno che ci garantisce, soprattutto a livello economico: abbiamo, ad esempio, un Fondo regionale per la non autosufficienza che ha la capienza che aveva quello nazionale, circa 400 milioni di euro. Per altri tuttavia richiede un’applicazione delle risorse molto rigida e vincolata, che tende a standardizzare i servizi – pensiamo al sociosanitario, soprattutto all’area anziani. Un modello che tende a creare servizi di alta qualità complessiva, ma che lascia pochi spazi a quei bisogni e a quelle persone che non rientrano nei percorsi e nei casi previsti dalla normativa.
La combinazione di una spesa in decremento da una parte, e una standardizzazione eccessiva dall’altra, ci hanno imposto di cercare nuove strade di lavoro.
Quali strade, in particolare, avete intrapreso per ricercare l’innovazione sociale?
Ci siamo resi conto della necessità di trovare nuove metodologie di innovazione sociale e nuovi strumenti per creare relazioni virtuose tra pubblico e privato. Attualmente il problema degli enti locali non deve essere come gestire meno risorse, ma come portare a un governo pubblico risorse di natura diversa, anche privata. Non essere solo esecutori di normative, ma creatori di una nuova modalità di azione territoriale.
Abbiamo individuato i tavoli dei Piani di Zona come il luogo giusto in cui portare questo dibattito. I Piani di Zona qui hanno infatti una discreta maturazione dal momento che è da più di un decennio che si sta cercando di perseguire l’integrazione sia tra enti che tra settori (ambiente, salute, ecc). Un’integrazione che, dal punto di vista dell’ente locale, si è rivelata spesso più efficace con il Terzo Settore che con altre istituzioni, (ad es. sulle politiche del lavoro). Buono invece il rapporto con la ASL, grazie all’esperienza avviata nell’ambito del distretto sanitario e con gli altri enti locali: il territorio forlivese ha sviluppato un discreto dialogo tra Comuni perché alcune politiche sociali, ad esempio i servizi di tutela dei minori e disabilità, sono da anni governate congiuntamente a livello distrettuale.
Tornando all’innovazione, l’obiettivo era di arrivare ad una programmazione che superasse due parametri: quello della rappresentanza, allargando gli incontri anche a quei soggetti solitamente non previsti dai Piani, verticalizzando la partecipazione; e quello degli obiettivi, cioè ripensare gli oggetti della programmazione, lavorando non più su uno specifico target ma in modo trasversale – un risultato difficile da raggiungere perché i fondi sono ancora assegnati per target.
Abbiamo cominciato aprendo un dibattito che ha coinvolto soggetti eterogenei: terzo settore, dirigenti dell’azienda sanitaria, funzionari di altre istituzioni, altri settori del Comune (ad esempio, ambiente e urbanistica), associazioni, cooperative e volontariato. L’idea che ne è scaturita è stata di riformare il processo di programmazione in modo appunto partecipativo, passando dalla logica dei tavoli a quella dei processi di lavoro.
Per l’elaborazione del nuovo Piano di zona (2013-2014), le 5 aree del Piano saranno ridotte a 3, che funzioneranno in modo “tradizionale” ma in forma più snella:
- sostenere il rapporto tra ambiente e salute;
- famiglie e minori;
- non autosufficienza.
Ad esse verranno affiancate due aree trasversali, nelle quali confluiranno parte delle azioni in capo ai tavoli della programmazione 2009-2012, caratterizzate dall’utilizzo di strumenti di partecipazione sperimentali:
- sostegno alle famiglie che si prendono cura di anziani, disabili, minori e persone con disagio mentale;
- vulnerabilità: dalla crisi nuove opportunità.
Le due aree sono state individuate da una “cabina di regia” ristretta – 10 persone – che ha individuato nome e filo conduttore dell’area di riferimento, allargata poi a 25 per comprendere i “grandi assenti” cioè nuovi attori e leader informali. La fase finale, che avrà luogo a settembre, prevede un ultimo stadio di progettazione di comunità in cui verranno esaminate buone prassi, idee nuove e risorse sconosciute, per arrivare, in conclusione, alla realizzazione del piano 2013-2014. Per stimolare la partecipazione, si ipotizza inoltre di rendere la “cabina di regia” itinerante, cioè spostando gli incontri nei diversi territori del distretto.
In quale modo si possono conciliare risorse e attori pubblici e privati?
Bisogna fare dei distinguo tra gestione e finanziamento. Dal punto di vista gestionale in questi territori c’è un alto livello di welfare mix. Su minori e disabilità, ad esempio, la maggioranza degli operatori appartiene al Terzo Settore, mentre relativamente agli anziani il settore pubblico è ancora predominante.
Il finanziamento è invece ancora quasi tutto pubblico e riuscire a includere risorse private o di natura non pubblica non fa parte del sistema, ma fa parte delle “occasioni”. Buone relazioni possono far convergere su un progetto anche risorse esterne, ad esempio dalle fondazioni, ma dipende sempre dalle circostanze. In questo senso siamo ancora molto all’inizio, si dovrebbe lavorare di più per coinvolgere nuovi soggetti finanziatori.
Un sistema caratterizzato da meno risorse e più rigidità della spesa, potrebbe diventare circoscritto solo ad alcune fasce di popolazione, al di fuori delle quali si rischia l’affermarsi di un welfare deregolamentato, in parte sommerso e in balia di operatori poco affidabili. Per evitare questo rischio, l’ente pubblico deve avere un ruolo anche su queste aree. Come fare? Noi non siamo supportati da strumenti normativi. La Regione non ha infatti regolato questa fascia, è rimasta quasi esclusivamente sulla spesa pubblica, privilegiando il ruolo degli amministratori come gestori della spesa pubblica e poco come regolatori dei mercati sociali, sia pubblico che privato. E’ uno spazio su cui dovremmo lavorare, anche perché se non si fa con un privato sociale responsabile e con un soggetto condiviso, poi ce ne saranno altri. Mescolare le risorse, usare le risorse pubbliche come volano per quelle private, ci permette invece di orientarle, gestirle con regole definite e in luoghi pubblici. Siamo troppo ancorati ai fondi pubblici e ai modelli che ne discendono, mentre dovremmo intervenire con strumenti più strutturati con il privato sociale, anche aggregando la domanda, riscoprire forme di mutualismo. Un problema emergente per gli enti locali è infatti che i cittadini presentano sempre più domande complesse e parcellizzate, ma l’aiuto rischia di ridursi all’assistenzialismo. Bisogna quindi dare attenzione a chi aggrega la domanda e alla capacità dei cittadini di mettere insieme i loro bisogni.
Come si può raggiungere questo risultato?
Per i pochi margini di manovra che abbiamo stiamo cercando di fare interventi che, a livello comunale, vadano nella direzione descritta. L’Agenzia Sociale Regionale sta investendo in queste iniziative, si mettono in piedi sperimentazioni “di nicchia” come i Community Lab; sarebbe bene diventassero progetti “di sistema” anche per gli assessorati alla salute e alle politiche sociali della Regione, che gestiscono le risorse. I Comuni gestiscono sì la spesa, ma lo fanno su regole, non sono autonomi, anzi sono molto vincolati. E’ vero che gli enti superiori si devono occupare del controllo sulla gestione della spesa e non tollerare scostamenti, ma dovrebbero lasciare a noi amministratori locali un margine sufficiente per fare patti comunitari e innovativi con i nostri cittadini. La questione non è solo quanto si spende, ma come si spende.
Potete raccontarci qualcosa in più su queste sperimentazioni, in particolare sul coinvolgimento dei cittadini?
Il progetto Abitanza di Villafranca nasce nell’ambito del tavolo sulla coesione sociale del Piano di Zona, dalla presa di coscienza delle diversità dei territori, non solo tra Forlì e gli altri Comuni del distretto, ma anche tra zone della stessa città.
La prima fase per la realizzazione del progetto Abitanza è stata la mappatura dei bisogni della popolazione, realizzata attraverso interviste e attività sul territorio. A questa è seguita la costituzione di un comitato di partecipazione (formato da tecnici del Comune, imprenditori, associazioni e cittadini desiderosi di dare una mano) e di cinque gruppi di lavoro, ognuno con un obiettivo ben preciso. Abbiamo infatti lavorato direttamente nei quartieri coinvolgendo anche i cittadini, per fare capire che il modello “io chiedo, il Comune dà” non è più praticabile.
Villafranca è un quartiere residenziale di circa duemila abitanti a 15 chilometri dal centro della città. Di forte tradizione agricola, ha vissuto negli ultimi anni una rapida trasformazione, fino a diventare il classico “quartiere dormitorio”: pochi spazi di socializzazione e pochi servizi, soprattutto per anziani, giovani e famiglie. Abbiamo quindi deciso di creare un progetto che unisse la valorizzazione del territorio con la messa in piedi di un “welfare soft” finalizzato a promuovere l’accoglienza, la socializzazione e le attività di auto e mutuo aiuto.
Tra le attività previste, ci sono un banca del tempo locale – Ufficio Collocamento Energie”- una forma di welfare soft che interviene in aiuto ai servizi sociali; una biblioteca autogestita dai genitori; il progetto di recupero dell’ex istituto agrario, edificio dismesso che potrà essere gestito autonomamente dalla banca del tempo e altre associazioni e che potrà ospitare la biblioteca, ma anche un ufficio postale e alcuni servizi del Comune; il consorzio “Il triangolo dell’ortofrutta”, creato da 11 aziende agricole accumunate dalla scelta di bandire i concimi chimici e di promuovere la vendita a chilometro zero. E infine, la costituzione di un comitato di quartiere aperto: chiunque può partecipare e, al fine di favorire il coinvolgimento della popolazione, le riunioni avranno luogo in sedi informali (bar, circoli, ecc).
La comunità sta rispondendo bene per quanto riguarda il supporto al progetto e l’impegno attivo per il welfare, mentre ci sono ostacoli di natura economica – per reperire, ad esempio, i fondi necessari a ristrutturare l’istituto agrario (si pensa ad un project financing) e burocratica: c’è moltissima paura e tantissimi vincoli, ad esempio sulla responsabilità.
Per meglio capirlo, prendiamo un altro esempio: Foro Boario, un quartiere della città dove c’è un problema di integrazione sociale dovuto alla realizzazione di un complesso di alloggi ERP a fianco di uno stabile medio-borghese di classe A, oltre ad altre questioni complesse legate alla “qualità dell’abitare” (traffico e inquinamento provocati da un parcheggio di autobus). In particolare, in quest’area si trova un terreno – un ex-cantiere – abbandonato dopo il fallimento della società proprietaria. Dal momento che in zona manca uno spazio verde, il Comune ha chiesto il comodato d’uso sull’area per metterla a disposizione degli abitanti. L’idea è questa: noi vi diamo un terreno gratis, dato che non avete spazio per bambini, voi lo gestite e mantenete in ordine. E’ sorto un problema di responsabilità: “se un bambino si fa male?”. Il presidente della circoscrizione si è assunto allora la responsabilità e ne risponderà personalmente. Si tratta di un esempio che dimostra l’importanza delle relazioni personali e del lavoro di comunità: Caritas mette a disposizione un educatore di strada, che sta aiutando a recuperare lo spazio. Gli abitanti dell’ERP si occuperanno della pulizia del verde, il Consorzio il Triangolo dell’ortofrutta aiuterà a trasportare la terra per recuperare il terreno. Non è direttamente welfare, ma è un modo di fare comunità, di produrre equilibrio e coesione sociale. Il tutto a costo zero per il Comune. Sono esperienze che nascono e vivono grazie ai cittadini e in cui l’impegno del Comune è esiguo, un aspetto utile in tempi di risorse scarse.
Riferimenti
Il Progetto Abitanza a Villafranca di Forlì
I nostri approfondimenti sul tema degli enti locali e la crisi
Il Piano di sviluppo del welfare della città di Milano
Il progetto Sicis del Comune di Novara: intervista all’Assessore Augusto Ferrari
Welfare, lavoro e sviluppo: competitività e coesione sociale sono ancora un binomio possibile?
Welfare: cosa si è fatto (e non) nel 2012? Quali sfide per il 2013?