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Fondazione Bracco, in collaborazione con Percorsi di secondo welfare, ha deciso di promuovere un ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa italiane coinvolgendo osservatori privilegiati, studiosi ed esperti di varie discipline. L’obiettivo, alla luce delle nuove e complesse sfide sociali sollevate dalla pandemia di Covid-19, è ragionare trasversalmente sul ruolo che le Corporate Foundations del nostro Paese stanno giocando, e potranno giocare nel prossimo futuro, inserendo tali riflessioni in un una cornice analitica il più possibile ampia e articolata.

A questo scopo ci siamo confrontati con Patrik Vesan, docente di “Politiche sociali e del lavoro” presso l’Università della Valle d’Aosta, membro del Consiglio nazionale di Assifero e del comitato esecutivo della Fondazione comunitaria della Valle d’Aosta. Di recente Vesan è stato inoltre nominato come “mentor” dell’International Fellow Program del Center on Philantrophy and Civil Society della City University of New York (CUNY).


Dal tuo osservatorio privilegiato, a cavallo tra il mondo accademico e il mondo delle fondazioni, quali sono i tratti che caratterizzano il modello italiano di filantropia istituzionale?

Difficile parlare di un vero e proprio modello. La filantropia istituzionale in Italia è in effetti ancora molto giovane dal momento che si è sviluppata prevalentemente negli ultimi vent’anni. Se pensiamo al caso degli Stati Uniti d’America dove essa invece può vantare una storia di almeno 150 anni, allora è facile comprendere le differenze. Questo non significa che in Italia la filantropia, in quanto azione individuale e sociale, sia un fenomeno recente, tanto è vero che alcune organizzazioni filantropiche hanno una storia millenaria. Ma ciò che caratterizza nel nostro Paese la filantropia istituzionale propriamente detta è l’ancora limitata strutturazione interna, vale a dire le deboli capacità istituzionali delle fondazioni e la loro tendenziale scarsa patrimonializzazione.

Un aspetto importante da sottolineare riguarda l’utilizzo stesso del termine “filantropia istituzionale”, adottato ad esempio da Assifero nel maggio 2016. La scelta fu puntuale e ponderata: ponendo il fuoco sull’idea di filantropia istituzionale si intendeva infatti andare al di là dell’idea che il compito centrale, se non l’unico, della filantropia fosse l’erogazione di risorse finanziarie. Questo aspetto costituisce un elemento cardine dell’azione filantropica, ma è ben lungi dall’esaurirla. Parlare di filantropia istituzionale significa non tanto parlare di singoli donatori e donazioni, ma di enti che mettono in campo una pluralità di risorse, non solo finanziarie, ma anche immobiliari, intellettuali e relazionali. Significa ragionare in termini di creazione d’opportunità. In tal senso, l’erogazione di risorse finanziarie rimane uno strumento fondamentale, ma non l’unico e soprattutto non un fine in sé.

Oggi, nel quadro della filantropia istituzionale, come possiamo considerare la filantropia strategica in Italia? Un fenomeno affermato o in relazione al quale c’è ancora molto strada da fare?

Sicuramente siamo ancora alle prime armi in un panorama complessivo dove ovviamente è sempre possibile individuare qualche esperienza più avanzata. Per fare filantropia strategica occorrono comunque competenze e organizzazione. In tal senso, come più volte ricordato da Carola Carazzone anche sulle pagine di Secondo Welfare, occorre un cambio di mentalità e paradigma: investire nella professionalizzazione degli enti filantropici. Molti pensano che questa “professionalizzazione” possa snaturare l’azione filantropica stessa, ma non è necessariamente così. Se si ragiona per obiettivi e impatti, e non solo in termini di allocazione di risorse, il “gioco” e compito precipuo della filantropia cambia. Occorrono infatti capacità specifiche e diverse da quelle necessarie alla “semplice” erogazione di risorse. La filantropia strategica non vive di emergenze, le contrasta anche anticipandole. La filantropia non alloca semplicemente denari, ma deve imparare ad essere lungimirante.

Un altro aspetto centrale è favorire la costruzione di reti. Non si tratta del solito slogan sull’importanza dei network. La filantropia istituzionale italiana nelle sue diverse declinazioni deve sviluppare al suo interno un’idea di comunità di azione e intenti che possa portarla a crescere in maniera sinergica. Quando molte fondazioni filantropiche promuovono progetti chiedono loro stesse di superare le cosiddette silos mentalities. Chiedono in altre parole al mondo delle associazioni e delle cooperative che finanziano sinergie e azioni comuni. Bene, questa idea deve essere portata avanti dagli stessi enti filantropici italiani sulla scena nazionale ed internazionale. Assifero negli ultimi anni ha cercato di investire in questa direzione creando per l’appunto momenti di condivisione, di scambio di esperienza, contribuendo a tessere partenariati. In sintesi, l’obiettivo fondamentale è spingere le fondazioni a guardare altrove, superando la tendenza all’autarchia e al solipsismo.

Quali suggerimenti e indicazioni possono venire dall’esperienza internazionale per rafforzare tale approccio? Quali condizioni potrebbero favorire un approccio filantropico più strategico e attento all’impatto sociale?

Come dicevo occorre innanzitutto investire sulle capacità istituzionali interne agli enti filantropici. Questo è una aspetto essenziale per contribuire a creare un “ambiente abilitante” in cui la filantropia istituzionale possa prosperare. In secondo luogo, occorre far fonte al rischio della frammentazione delle azioni favorendo diverse forme e modalità di condivisione delle risorse, degli obiettivi e delle strategie. Solo così si cresce, senza per questo omologarsi. A tal proposito l’esperienza dei collaborative funds può risultare interessante. Si tratta di individuare aree tematiche di intervento, mettere assieme risorse e costruire strategie d’intervento comune. In Italia qualcosa in una direzione vagamente assimilabile è stato fatto ad esempio sulla povertà educativa, ma è ancora poco.

Un altro aspetto interessante che va potenziato riguarda la capacità di azione politica che la filantropia italiana dovrebbe affinare. Si tratta di mettere a punto strategie di advocacy e pressione che possono incidere non solo sul dibattito pubblico in generale, ma anche sui processi decisionali in maniera puntuale. Si tratta di partecipare a larghe “coalizioni sociali” – si pensi all’Alleanza contro la povertà, all’Alleanza per l’infanzia, al Forum diseguaglianze e diversità, all’Associazione italiana per lo sviluppo sostenibile – individuando le condizioni per un’azione efficace e puntuale.

Gli enti filantropici, come componente viva della società civile, sono portatori di conoscenza e valori che dovrebbero essere instillati nei processi decisionali al fine di orientarli. In altre termini, a mio modo di vedere, la filantropia strategica non è solo una questione relativa alla messa a punto di strumenti tecnici di misurazione d’impatto (che comunque ritengo utili quando servono a innestare veri processi di auto-aprendimento, senza rimanere fine a se stessi), ma riguarda la capacità di costruire e sostenere pubblicamente una certa visione di società.

Nello specifico, che cosa può fare a filantropia d’impresa in un contesto di crisi come quello generato dall’emergenza Coronavirus?

La risposta che posso dare è che la filantropia d’impresa – ma più in generale tutti gli enti filantropici – devono imparare a pensare oltre la crisi, preparandosi sia ad agire in un contesto non emergenziale, sia ad affinare eventuali capacità di intervento in uno stato di urgenza e necessità. Perché purtroppo di crisi ve ne saranno altre. Insomma, occorre preparazione. Per quel concerne poi la filantropia d’impresa in Italia occorre anche migliorare la capacità di focalizzazione, ovvero individuare temi di intervento su cui specializzarsi per investire le risorse in un’ottica però collaborativa.

Più in generale, gli effetti nefasti del lockdown pongono di nuovo al centro un tema che considero cruciale per la filantropia italiana: la lotta a tutto campo contro le diverse forme di diseguaglianze. Si tratta non solo di favorire interventi riparatori, volti a lenire le ferite prodotte dalle disparità sociali ed economiche, ma anche preventivi, in grado di investire sulle capacità non solo delle persone “meritevoli” ma anche dei luoghi in cui abitano.

Infine occorre promuovere un’azione politica volta al contrasto delle crescenti diseguaglianze socio-economiche e di riconoscimento, anche favorendo l’adozione di misure predistributive. Sono convinto che la filantropia debba porre al centro dei suoi obiettivi primari i temi della giustizia e dell’equità e avviare una profonda riflessione anche su se stessa, sul proprio contributo e sulle implicazioni di quest’ultimo per la democrazia. Questo è stato il messaggio-chiave delle strategia #ShifthThePower lanciato dal Global Summit on Community Philanthropy tenutosi a Johannesburg nel dicembre 2016 (ve ne parlammo qui, nda). Occorre sostenere una nuova narrativa perché ricordando le parole dell’ambasciatore James Joseph: Charity is good, but justice is better.

 

 Questo contributo è parte del ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa nell’era del Covid-19, promosso da Fondazione Bracco insieme a Percorsi di secondo welfare.