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Una figura di peso è ricomparsa sulla scena politica tedesca. Si tratta di Peter Hartz, l’ex dirigente della Volkswagen che ispirò le riforme del mercato del lavoro adottate fra il 2003 e il 2005. Negli ultimi mesi, Herr Hartz ha espresso valutazioni critiche circa il miracolo occupazionale della Germania e si è detto addirittura «indignato» di come l’Unione europea (non) stia reagendo al dramma della disoccupazione giovanile. Giudizi che non collimano certo con le posizioni di Angela Merkel. Per la Cancelliera, infatti, il mercato del lavoro è competenza dei governi: sono loro a dover fare i «compiti a casa», possibilmente imitando la Germania.

Hartz riconosce che l’occupazione tedesca è molto cresciuta nell’ultimo decennio e che «un lavoro qualsiasi è meglio della disoccupazione». Ma non gli piace il dualismo che si è creato fra garantiti e precari e non va per nulla fiero dei tanto decantati minijobs . Nel 2002 la Commissione da lui stesso presieduta aveva messo in guardia contro questo scenario, proponendo un salario minimo di 7,5 euro l’ora e un reddito garantito di 500 euro mensili per i senza lavoro. Tali misure avrebbero arginato, appunto, la proliferazione di lavori mal pagati e poco qualificati, nonché l’aumento di povertà e diseguaglianza. Ci sono voluti più di dieci anni perché il governo federale introducesse (nel luglio scorso) il salario minimo. E non è detto che questa riforma riesca ora a contrastare squilibri ormai consolidati nel mercato del lavoro.

Sull’Europa il signor Hartz avanza una proposta molto interessante: l’istituzione di una sorta di servizio «comune» per l’impiego, volto a promuovere la mobilità transfrontaliera dei giovani. Due gli strumenti previsti. Da un lato un sistema omogeneo e unificato di «diagnosi dei talenti», capace di monitorare attitudini e competenze. Dall’altro lato un «radar per l’impiego», che censisca i posti disponibili entro l’intero perimetro europeo e segnali tutte le occasioni e tutti i contesti in cui è vantaggioso fare (piccola) impresa. Il servizio sarebbe coordinato dall’Ue, con un meccanismo di franchising per l’apertura di centri del lavoro a livello locale. Gli incentivi dovrebbero essere congegnati in modo che i partecipanti mantengano i legami con la regione di origine, per evitare fughe permanenti di cervelli. I giovani non diventerebbero espatriati permanenti, ma «euro-patriati» per un periodo limitato.

Un simile schema costerebbe caro: circa 30 mila euro per partecipante. I giovani disoccupati nella Ue sono più di 5 milioni. Anche se, per cominciare, fosse interessato solo il 10%, si tratterebbe comunque di una somma pari a 15 miliardi. È proprio su questo fronte che Hartz diventa ambizioso. A finanziare dovrebbe essere la Ue. La proposta è quella di istituire un fondo che emetta «titoli formativi», alimentato da investimenti dei Paesi membri ma anche di istituzioni private e imprese. L’Unione non è pronta, ammette Hartz, per mutualizzare i debiti pubblici nazionali. Ma una cosa la può fare subito: stabilire che questo tipo di investimenti siano scorporati dal computo del deficit di bilancio. La famosa «flessibilità», insomma, declinata al servizio degli under 25.

Per risolvere il dramma della disoccupazione servono idee, risorse e decisioni politiche. Herr Hartz ci metterebbe le idee (ha già avviato uno schema sperimentale nella Saar). L’Unione europea faciliterebbe il reperimento delle risorse. Manca però la decisione politica. E quest’ultima presuppone la disponibilità tedesca: si ritorna sempre lì. Negli ultimi mesi, il governo di Berlino ha stoppato con un secco no la proposta di istituire un programma Ue per co-finanziare gli ammortizzatori sociali nazionali. Lungi dal considerare la disoccupazione giovanile come una sfida comune (in quanto in parte connessa al funzionamento dell’Unione monetaria), la Cancelliera non perde occasione di ribadire il suo Nein a qualsiasi forma di «socializzazione» dei rischi fra Paesi. Usque tandem?, è il caso di chiedere. La pazienza dei giovani europei si sta esaurendo, senza decisioni sagge e lungimiranti l’Europa rischia di morire.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 12 settembre

 


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