“Ero arrivato a un punto in cui per riuscire a conciliare il lavoro con le esigenze della mia famiglia avevo quasi pensato di cercare un altro impiego”.
Sergio vive in provincia di Milano. È sposato e padre di un bambino che frequenta le elementari. Lavora come autista per Atm, l’azienda del trasporto pubblico locale, mentre la moglie è dipendente di una grande catena di ristorazione. Entrambi lavorano su turni e questo ha reso a lungo molto difficile gestire la quotidianità e gli impegni familiari.
“Oltre alla scuola ci sono gli allenamenti, il catechismo, gli amici. Ogni volta io e mia moglie dovevamo organizzarci per accompagnare e andare a prendere nostro figlio. E non sempre riuscivamo a farlo”, spiega. Per non parlare poi degli imprevisti o di quando il bambino si ammala e deve restare a casa. A complicare ulteriormente la situazione c’è poi il fatto che sia i parenti di Sergio sia quelli della moglie sono lontani e quindi non possano aiutarli. “Mi sono sposato per avere una famiglia, ma non funzionava”, ricorda.
Quando si parla di conciliazione vita-lavoro, una figura come quella di Sergio non è certo la prima che viene in mente. Eppure, questo autista quarantenne, pur di migliorare l’equilibrio tra la dimensione professionale e privata, era arrivato a mettere in discussione la sicurezza di un contratto a tempo indeterminato. Il suo vissuto è paradigmatico: è il simbolo di un problema sempre più sentito, da persone sempre più numerose e diverse.
Un equilibrio raro, come un unicorno
Per milioni di italiani, l’esigenza di conciliare gli orari e gli impegni lavorativi con il carico di cura familiare è un problema che troppe volte non trova soluzione. Per non parlare del desiderio, ancora più spesso frustrato, di trascorrere tempo libero di qualità con le persone amate. Vale per i lavoratori come Sergio, e ancor di più per le lavoratrici.
Secondo un sondaggio realizzato a inizio 2024 da Legacoop e Ipsos, il 43% degli uomini italiani considera insufficiente la possibilità di realizzare la conciliazione vita-lavoro. Il dato schizza al 68% tra le donne, che lamentano soprattutto l’insufficienza dei servizi pubblici volti ad aiutarle e la mancanza di adeguate tutele economiche e legali per la maternità (risposte fornite, rispettivamente, dal 69% e 62% delle intervistate).
Sono percentuali che non sorprendono, in un Paese in cui i carichi familiari sono ancora fortemente sbilanciati, ma che portano a domandarsi se una reale e soddisfacente conciliazione sia realizzabile per tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici, nelle grandi città come nei piccoli centri, tra i dipendenti come tra i liberi professionisti.
In pratica viene da chiedersi: la conciliazione vita-lavoro è davvero possibile?
Per provare a rispondere a questa e molte altre domande, Percorsi di secondo welfare comincia con questo articolo una nuova serie, intitolata #ConciliazioneUnicorno. Perché, se è vero che il bisogno di conciliare è sempre più avvertito e, di conseguenza, si parla sempre più di questo tema, è anche vero che, per molte persone, trovare un equilibrio tra vita e lavoro è ancora molto difficile e distante.
La conciliazione rischia di essere percepita come un unicorno, un animale mitologico che, oggi, viene spesso usato per descrivere i concetti di rarità ed eccezionalità. È il caso, per esempio, delle imprese non quotate in borsa e spesso tecnologiche che superano il miliardo di dollari di valore e vengono definite unicorni. Tutti gli imprenditori ambiscono a far diventare tali le loro start-up, ma sono davvero pochi quelli che ci riescono davvero.
Fare il vampiro per conciliare
La conciliazione compare sempre più spesso anche tra le rivendicazioni sindacali e le motivazioni di sciopero. A scendere in piazza per chiedere (anche) maggiore equilibrio sono stati, per esempio, i dipendenti della multiutility Hera a Bologna o gli operatori sociali del Comune di Reggio Emilia.
Una “carente conciliazione dei tempi di vita e lavoro” è stato anche uno dei punti dello sciopero nazionale nel trasporto pubblico locale indetto il 9 settembre 2024 da Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti, Faisa Cisal e Ugl Autoferro. Il problema, quindi, è dell’intero settore, non solo di Sergio che, nel frattempo, ha trovato una soluzione temporanea. In virtù dell’anzianità di servizio maturata, infatti, è rientrato in una turnazione fissa ambitissima dai conducenti, quella che va da mezzanotte alle sette di mattina.
“Faccio il vampiro”, spiega con un pizzico di amarezza mentre ripercorre una sua giornata tipo: arriva a casa tra le 7.30 e le 8 del mattino, se la moglie è già al lavoro accompagna il figlio a scuola e poi va a dormire. La sveglia suona alle 3 del pomeriggio, torna a scuola a riprendere il figlio e gestisce gli impegni pomeridiani. Cena presto e poi qualche ora di sonno prima di riprendere servizio, a mezzanotte.
Sulla carta tutto funziona e l’obiettivo di Sergio è resistere fino a quando il figlio sarà più grande e più autonomo. Ma non nasconde né la fatica fisica né il peso che questa scelta ha avuto sulla sua vita familiare: “Con mia moglie - racconta - ci vediamo poco e niente: due o tre ore la sera. Anche per lei è difficile”.
Del resto, la conciliazione è stata a lungo considerata un tema esclusivamente femminile.
Conciliazione, una storia (ancora) al femminile
Guardando al passato, politiche come i congedi obbligatori per le madri e i servizi per l’infanzia sono nati con l’obiettivo primario di garantire alle donne lavoratrici la possibilità di mantenere occupazione e salario. In tal senso, ricorda la sociologa Chiara Saraceno, “tra gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia era uno dei Paesi più generosi, con un lungo congedo di maternità e scuole materne diffuse sul territorio. Poi, però, purtroppo, gli altri Paesi europei ci hanno superato”.
La direttiva europea sulla conciliazione vita-lavoro: innovazioni e compromessi
Il sorpasso è avvenuto contestualmente a un cambio di paradigma a livello di Unione Europea in materia di work-life balance. “A partire dagli anni Novanta - spiega una pubblicazione della Fondazione Marco Vigorelli - si afferma il principio della ‘conciliazione condivisa’, con l’affermazione del modello dual career. Secondo questo modello gli uomini diventano, al pari delle donne, attori protagonisti nell’organizzazione della vita professionale e privata”.
É qui che il nostro Paese rimane indietro. Come scrive Maurizio Ferrera nell’Agenda FAST per contrastare la denatalità in Italia, presentata da Secondo Welfare in una recente pubblicazione, “è vero che il concetto di conciliazione è entrato anche in Italia nel lessico politico. Ma è ancora prevalentemente usato come uno strumento volto a temperare gli effetti negativi della nascita di un figlio per le madri”.
Il risultato, attacca la statistica Linda Laura Sabbadini, è che “le donne vivono un doppio svantaggio”. “Da un lato non esistono politiche di congedi parentali e servizi sociali adeguati che le supportino per alleggerire il carico di lavoro familiare. Dall’altro, all’interno delle coppie, non c’è ancora una divisione dei ruoli che garantisca una gestione più equa dei carichi di lavoro familiare e una condivisione delle responsabilità genitoriali”, spiega Sabbadini, pioniera degli studi di genere e direttrice dell’Istat tra il 2000 e il 2023.
Le conseguenze di questa situazione sono molteplici, e tutte negative. Se una donna sceglie di avere dei figli e continuare a lavorare, la sua conciliazione sarà probabilmente molto complicata. Se invece sarà costretta a rinunciare ai figli o a lasciare il lavoro, non ne sarà felice e la sua scelta si ripercuoterà o sui bassi livelli di occupazione femminile o sugli ancora più bassi tassi di fecondità del nostro Paese.
“Non c’è mai stata una strategia adeguata che permettesse di rimuovere gli ostacoli all’accesso e alla permanenza delle donne nel mercato del lavoro”, riprende Sabbadini.
“I numeri - continua - parlano chiaro: il 20% delle donne lascia il lavoro alla nascita del primo figlio, un dato che è rimasto fermo nel corso degli anni e con il passare delle generazioni. Ed è un segnale molto forte”. A confermarlo ci sono gli ultimi dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Nel 2022 sono state registrate ben 61mila dimissioni nei primi tre mesi di vita del figlio: il 72,8% di queste si riferiscono a donne che, nella quasi totalità dei casi, hanno deciso di rinunciare al proprio impiego per dedicarsi ai figli. Pesano soprattutto le difficoltà legate al lavoro di cura (41%) e la scarsa disponibilità delle aziende a venire incontro alle esigenze delle lavoratrici (21%).
Asili e congedi, entrambi insufficienti
I due principali strumenti di conciliazione messi a disposizione dallo Stato per i genitori sono gli asili nido e i congedi parentali. Entrambi, tuttavia, presentano forti criticità, a maggior ragione per i nuclei con un reddito basso. “La legge che ha istituito i nidi pubblici è del 1971 (la numero 1044, ndr), ma di fatto non è mai stata applicata”, puntualizza Sabbadini. Il divario tra domanda e offerta è ancora molto ampio: solo il 28% dei bambini fino a tre anni trova posto nei nidi, di cui il 13% in quelli pubblici.
La carenza di strutture pubbliche o convenzionate viene compensata da quelle private, le cui rette però sono molto elevate. E che in assenza di contributi come il “bonus asili” o forme di welfare aziendale, rischiano di gravare troppo sui bilanci di molte famiglie.
“Le donne che hanno un reddito più elevato - sottolinea Sabbadini - possono permettersi di acquistare sul mercato l’aiuto di cui hanno bisogno, sotto forma di nidi privati o babysitter. La maggior parte della popolazione femminile, invece, non può e questo alimenta un circolo vizioso: per svolgere il lavoro di cura, le donne spesso accettano lavori part time o precari, che però riducono ulteriormente il loro reddito”. E finiscono per incidere negativamente pure sulla conciliazione.
Anche il congedo parentale non sembra aiutare, anzi. Il modo in cui è stato concepito finisce per penalizzare ancora una volta le donne.
Introdotto nel 2000 (legge 53), questo congedo è una misura non obbligatoria che permette ai genitori di usufruire di un periodo di assenza dal lavoro per un totale di 10 mesi, in aggiunta ai congedi di maternità e di paternità. I mesi possono essere suddivisi tra i partner ma, commenta Sabbadini, “è ancora molto difficile che un uomo usufruisca del congedo parentale perché viene ancora percepito come molto penalizzante in termini di carriera e la riduzione dello stipendio è significativa”.
Il risultato, considerato che mediamente gli uomini guadagnano più delle donne, è che nella stragrande maggioranza dei casi sono le madri a usufruire di questo congedo e verosimilmente, sono madri di nuclei con un buon reddito, che possono permettersi di rinunciare a una fetta significativa delle entrate familiari per alcuni mesi.
Per due dei 10 mesi di congedo, infatti, l’indennità è dell’80%, mentre per i restanti è del 30%. Ora, secondo Il Sole 24 Ore, la legge di bilancio in discussione dovrebbe aggiungere un terzo mese all’80%, ma per Sabbadini non basta. A suo parere, “al fine di garantire un maggiore coinvolgimento dei padri nella gestione dei figli” servono “indennizzi al 100% della retribuzione” per il congedo parentale e un “congedo di paternità paritario”. Oggi è di 10 giorni.
Bambini, ma non solo
La cura e l’assistenza degli anziani e delle persone con disabilità rappresenta un altro aspetto del lavoro domestico che ricade, di nuovo, in larga parte sulle spalle delle donne. Sono donne, infatti, l’80% dei circa 8,5 milioni di caregiver familiari in Italia e molte sono in piena età lavorativa, tra i 45 e i 65 anni.
Il principale strumento normativo di cui possono beneficiare queste caregiver è la legge 104/92, che dà diritto a una serie di agevolazioni fiscali e alla possibilità di usufruire di tre giorni (frazionabili) al mese di permessi retribuiti. La norma, però, riguarda le persone disabili e quindi tocca solo una piccola parte degli anziani italiani bisognosi di una qualche forma di cura.
“L’Italia, come molti altri Paesi del Sud Europa, a lungo ha risposto a questo bisogno di assistenza facendo affidamento sul lavoro non retribuito delle donne delle famiglie coinvolte dal problema Ed è quello che si continua a fare”, spiega Saraceno.“Oggi, però - aggiunge la sociologa - la situazione sta cambiando”. L’invecchiamento della popolazione, la bassa natalità e l’aumento dell’occupazione femminile fanno sì che sono sempre meno i figli che si prendono cura dei genitori anziani e le cosiddette badanti rappresentano solo una parziale (e costosa) risposta ai bisogni.
Il risultato è, ancora una volta, una grave mancanza di conciliazione per i caregiver. Secondo un sondaggio condotto tra 600 caregiver da Cittadinanzattiva e dall’associazione Carer, il 73,4% degli intervistati ha dichiarato di aver dovuto rinunciare al lavoro o allo studio per alcuni periodi della propria vita. Inoltre, quasi il 45% del campione ha detto di sentirsi poco realizzato personalmente e più della metà (55,8%) di aver poco tempo per la propria sfera personale.
Nonostante ciò, a differenza delle politiche per l’infanzia, l’assistenza a persone anziane o con disabilità fatica a essere formulato come un tema di conciliazione. “Ancora oggi quando si parla di invecchiamento il dibattito ruota attorno al tema dei costi per la sanità, ma non si vedono i problemi delle famiglie”, conclude Saraceno.
Conciliare, senza fatica
Anche Sergio, alle volte, tra un turno alla guida dell’autobus, un sonnellino pomeridiano e una corsa a prendere il figlio, pensa ai suoi genitori. Sono rimasti nella regione del sud dalla quale proviene, così come quelli di sua moglie. Da un lato, nella sua già complessa routine, non deve prendersi cura quotidianamente anche di loro. Dall’altro, però, non può contare sulla vicinanza dei nonni, da molti considerati il vero pilastro del welfare informale italiano.
La vita di Sergio è molto diversa da quella dei suoi genitori.
Il suo lavoro, invece, no. È anche per questo che conciliare è così difficile.
“L’organizzazione dei turni nel comparto dei trasporti segue ancora lo stesso modello degli anni Cinquanta”, riflette Giovanni Abimelech, da poco eletto a capo della Cisl Lombardia e, in precedenza, segretario generale della Fit Cisl regionale, che si occupa di trasporti. “A quell’epoca - continua - un auto-ferro-tranviere riusciva a mantenere la famiglia con il suo stipendio, mentre la moglie stava a casa per prendersi cura dei figli e per fargli trovare un piatto caldo a qualsiasi ora finisse il turno”.
Oggi è tutto cambiato e i problemi sono quelli raccontati da Sergio. “Con certe turnazioni - riflette il sindacalista - è come se il tempo non fosse tuo, ma dell’azienda”. E a molti lavoratori questo non sta bene, soprattutto a quelli più giovani.
A fine 2023, la Cisl Lombardia ha intervistato un campione di 17mila lavoratori (il 52% donne) di diversi settori che, dopo la pandemia da Covid-19, hanno presentato dimissioni volontarie presso gli sportelli del sindacato. Il 26,2% degli intervistati ha indicato la necessità di una migliore conciliazione come motivo della decisione. Un’esigenza che viene sentita maggiormente dagli under 35, il cui dato fa registrare 15 punti percentuali in più dei colleghi più anziani.
Ovviamente pesano anche altri fattori, compreso quello economico e la ricerca di una maggiore stabilità. Ma quello che osserva Abimelech è soprattutto un profondo cambiamento generazionale: “Ho 59 anni, per me e per i miei coetanei l’obiettivo era il contratto a tempo indeterminato che dava la tranquillità necessaria ad acquistare una casa e mettere su famiglia”.
Oggi, anche quando c’è, questa stabilità non dà le stesse garanzie: la precarietà, gli stipendi bassi e l’aumento dei prezzi rendono difficile per i più giovani realizzare i propri progetti. Quindi, conclude Abimelech, “hanno iniziato a cercare altro: più tempo libero e una migliore qualità della vita”.
Non hanno figli da curare né anziani da assistere, ma anche i più giovani cercano una maggiore conciliazione tra ambito privato e professionale. Gli unicorni sono rari, ma le nuove generazioni di lavoratori e lavoratrici sembrano determinate a scovarli.