Fin dall’inizio della pandemia, le persone senza dimora sono apparse come una categoria particolarmente esposta ai rischi legati al virus e alle misure di quarantena adottate dallo Stato italiano.
La letteratura scientifica, così come le pubblicazioni a carattere più operativo sul tema dell’homelessness, evidenziano da tempo come la vita in strada e nei servizi di bassa soglia rappresenti un fattore di rischio per la salute e l’incolumità fisica delle persone. Nella popolazione che frequenta mense, dormitori e centri diurni – che ha un’età media intorno ai 45 anni – sono diffuse patologie cardiovascolari, polmonari e dell’apparato digerente; la precarietà sperimentata quotidianamente e la difficoltà incontrata nel soddisfare bisogni primari, quali mangiare, dormire, lavarsi e curarsi, portano a una condizione psicofisica precaria. La condizione di salute già compromessa espone potenzialmente numerose persone senza dimora alle conseguenze più gravi del virus. Inoltre, la chiusura imposta ai centri urbani ha aggiunto nuove difficoltà alla loro routine quotidiana poiché ha messo a dura prova quei servizi di accoglienza che erano basati principalmente sul volontariato e ha sfilacciato le reti di sostegno informale: la biblioteca in cui poter trovare riparo e usare il bagno, un ristorante che offre un piatto di cibo, qualche piccola offerta in denaro messa a disposizione dai passanti.
Isolamento e distanziamento sociale sono stati presentati come l’unica strategia possibile per tutelare la salute individuale e collettiva. La richiesta del governo di “restare a casa” costituisce un paradosso per chi non ha un’abitazione e ogni mattina deve lasciare il dormitorio all’orario di chiusura (come vi abbiamo raccontato qui). Nonostante l’evidente contraddizione, in queste settimane sono stati diversi i casi di persone in condizione di homelessness multate perché in circolazione nello spazio pubblico.
Il caso torinese
I servizi per persone senza dimora a Torino sono costituiti principalmente da strutture aperte soltanto in orario serale e notturno. Molte di queste strutture sono edifici riconvertiti all’uso: nei casi migliori si tratta di complessi scolastici dismessi che possono accogliere una quarantina di persone; in quelli peggiori di strutture prefabriccate o container che, nel caso dell’allestimento aperto ai migranti in condizione di irregolarità, raggiungono anche i cento posti letto. Già nel tempo ordinario queste soluzioni, come ampiamente dimostrato da studi e rapporti, non sono adatte a ospitare persone in condizione di grave disagio. Nel momento dell’emergenza Coronavirus si è reso ancora più evidente che i dormitori, in cui convivono senza alcuna privacy molte persone che durante il giorno circolano per la città, rappresentano un contesto estremamente esposto al rischio di contagio.
A Torino, fin dall’inizio dell’emergenza l’ente pubblico, insieme alle cooperative sociali che gestiscono i servizi di accoglienza per conto del Comune, ha adottato alcune misure per prevenire il contagio, limitando parzialmente la circolazione delle persone in città e alleggerendo, seppur di poco, l’affluenza ai singoli dormitori grazie all’apertura di due nuovi spazi di accoglienza notturna. Come temuto, però, le misure adottate non sono state sufficienti a ridurre i rischi e in questi giorni si stanno moltiplicando i casi positivi all’interno di queste strutture, sia tra gli ospiti sia tra gli operatori sociali. Torino è tra i primi contesti a dover affrontare questo sviluppo dell’epidemia, ma già altre città e servizi si stanno trovando nella stessa situazione.
Il contagio esponenziale all’interno dei dormitori è legato all’impossibilità di gestire adeguatamente la quarantena preventiva dopo la scoperta del primo caso positivo. La promiscuità e la condivisione degli spazi che caratterizzano i dormitori non permettono di garantire isolamento e distanziamento, che diventano tanto più necessari una volta accertato che il virus è entrato nella struttura. I contagi nei dormitori, se non trovano una risposta tempestiva, espongono a una situazione di rischio inedito e a un contagio quasi inevitabile persone senza dimora accolte e operatori sociali. Di fronte a questa constatazione – che a Torino è stata acquisita al prezzo della salute di diverse persone, operatori e utenti – le Città, le Regioni e le Unità di Crisi regionali dovranno decidere quali risposte dare. Fio.PSD, tramite un comunicato stampa, già il 2 aprile invitava i territori a incentivare l’incremento di soluzioni emergenziali per la quarantena, anche facendo ricorso ad alberghi su disposizione di Sindaci e Prefetti, fornendo così una risposta dignitosa e sicura ai bisogni di queste persone.
I significati della gestione del rischio nei dormitori
La gestione del rischio nei dormitori sembra evidenziare come, nella nostra società, alcune vite valgano meno di altre: in questo caso la vita delle persone senza dimora. Queste persone – secondo una concezione diffusa nella società e spesso radicata anche nelle strutture, negli spazi e nei regolamenti dei servizi a loro rivolti – sono colpevoli della loro condizione. Secondo questa logica essi devono dimostrarsi meritevoli per accedere a quello che invece dovrebbe essere inteso come un diritto – in primis la casa (un approccio inefficace, come dimostrato sul campo dagli interventi housing first) – ed essere disposti ad adeguarsi a qualsiasi soluzione venga loro proposta, per quanto possa risultare inaccettabile per il resto della popolazione. La richiesta di rimanere all’interno di dormitori in cui si è già manifestato il virus, senza alcuna misura di sanificazione straordinaria e nell’impossibilità di garantire il distanziamento sociale, sarebbe inaccettabile per il resto della popolazione ma è coerente con i continui adattamenti imposti a queste persone prima del contagio. La stigmatizzazione e la marginalizzazione di queste persone all’interno della società rende “legittimo”, anche oggi, dare risposte inadeguate, tardive o parziali al pericolo sanitario che corrono, in ragione della mancanza di risorse. I dormitori non tutelavano la salute delle persone prima della pandemia e tantomeno possono farlo ora. Quanto sta accadendo dimostra però che anche la vita degli operatori sociali ha un valore minore di quella di altri cittadini e lavoratori. Da anni sono una categoria professionale a cui è lecito fare richieste che altri non sono disposti ad accettare. Attraverso meccanismi sottili di sfruttamento economico, implicati nella trappola della dimensione affettiva e morale del lavoro di cura, gli operatori sociali hanno visto negli anni ridurre i propri diritti e la loro stessa capacità di difenderli. Hanno imparato a rispondere a loro spese a richieste sempre più inaccettabili, rimodulando progressivamente i limiti e i confini del proprio lavoro.
Questo momento drammatico pone tutti di fronte a scelte che hanno un’evidenza maggiore rispetto a quelle prese nel tempo ordinario. Le richieste e le risposte che in questi giorni sono avanzate dai diversi livelli in risposta all’emergenza sanitaria esplicitano quale concezione di diritti riguarda i gruppi sociali coinvolti. Questo momento di crisi potrebbe essere l’occasione per osare e pretendere interventi che rispondano dignitosamente alle esigenze delle persone, oppure la conferma, drammatica, della subalternità e dell’abbandono di alcuni cittadini ritenuti di “serie B”. Gruppi di cittadini che, tuttavia, non sono di entità trascurabile, dato che il lavoro sociale è uno dei pochi settori che offre ancora numerosi posti di lavoro, soprattutto alle forze lavorative più giovani, e visto il numero crescente di persone in condizioni di povertà estrema e grave emergenza abitativa che potrebbe ulteriormente aumentare proprio a causa della pandemia.
L’esperienza del Coronavirus ci insegna che possiamo essere al sicuro, come singoli, solo se siamo tutti al sicuro. Di fronte alla pandemia, non farsi carico del rischio sanitario di questi gruppi sociali significa mettere concretamente a repentaglio la salute dell’intera collettività. Il pericolo esponenziale di contagio in questo settore ha, però, radici profonde che affondano nell’inadeguatezza dei dormitori, nei meccanismi strutturali che favoriscono l’ampliamento della disuguaglianza socioeconomica, nelle condizioni lavorative degli operatori sociali, negli anni in cui i diritti di questa parte di popolazione sono stati calpestati e trascurati. La pandemia rappresenta una condizione inedita per acquisire questa consapevolezza e intraprendere un cambiamento che ci porti a ragionare e intervenire, sul lungo periodo, come una comunità inclusiva. Da come decideremo di tutelare il diritto alla salute delle persone senza dimora e degli operatori sociali dipenderà, dunque, la nostra “guarigione” dal virus. Ma anche la possibilità di riconoscerci, quando finirà questo momento di emergenza, come uno stato democratico fondato sui diritti.