Con i provvedimenti varati il 12 marzo dal Consiglio dei ministri, ha preso finalmente forma il famoso Jobs Act, quel piano per i posti di lavoro che Matteo Renzi si era impegnato a elaborare subito dopo la nomina a segretario del Pd. Meno restrizioni e regole più snelle per le assunzioni, sostegni più efficaci per i disoccupati, incentivi e servizi per le madri che lavorano: queste le linee direttive dei nuovi provvedimenti, chiaramente ispirate al modello della flexicurity (flessibilità coniugata a sicurezza) da anni raccomandato dall’Unione europea.
Un decreto legge semplificherà da subito le assunzioni a tempo determinato e quelle degli apprendisti, andando incontro alle richieste delle imprese. Il riordino delle troppe forme contrattuali oggi esistenti e soprattutto la definizione di un nuovo tipo di contratto «a tutele crescenti» e di un compenso orario minimo (come quello appena introdotto in Germania) sono invece demandate a un disegno di legge. Quest’ultimo chiederà al Parlamento anche la delega a intervenire su altri cruciali fronti. Gli ammortizzatori sociali, con l’estensione dell’indennità di disoccupazione (la cosiddetta Aspi) alle tante categorie di precari oggi esclusi. I servizi per l’impiego, tramite l’istituzione di una Agenzia nazionale per l’occupazione responsabile sia per le politiche attive sia per l’erogazione dei sussidi (secondo il modello francese). La semplificazione della miriade di adempimenti a carico di imprese e lavoratori. E infine il rafforzamento delle misure di conciliazione fra responsabilità familiari e lavorative, soprattutto a vantaggio delle donne.
Arriveranno i nuovi posti di lavoro? Difficile rispondere, dato che l’occupazione non dipende solo dalle regole, ma anche dallo stato complessivo dell’economia italiana e internazionale. «Se» tutti i punti del Jobs Act fossero realizzati, diventerebbe però più facile creare lavoro, a parità di condizioni. E soprattutto avremmo un mercato occupazionale più equo e inclusivo. Si tratta tuttavia di un grande «se». Almeno tre ostacoli si frappongono al raggiungimento degli obiettivi del Jobs Act : dettagli, tempi e costi. Il disegno di legge fissa i paletti entro cui dovrà essere esercitata la delega governativa. Ma sui punti caldi resta vago e reticente.
Sarà abolita la cassa integrazione in deroga? Come si supererà l’attuale giungla di disposizioni regionali su formazione e servizi per l’impiego? Si introdurrà davvero un serio sistema di sanzioni per quei disoccupati (o cassintegrati) che non accettano ragionevoli proposte formative o occupazionali alternative al sussidio? Come si eviterà che la liberalizzazione dei contratti a termine conduca ad uno scenario «spagnolo» di percorsi lavorativi a spezzatino fra un’impresa e l’altra, senza ricevere adeguata formazione? Le risposte a queste domande possono condurre a esiti molto diversi in termini di quantità e qualità del lavoro disponibile.
Sui tempi di attuazione del disegno di legge, il rischio è quello della «palude» in Parlamento, amplificata dal possibile risentimento di sindacati sinora esclusi dal processo decisionale. La cosiddetta «delega fiscale» presentata da Tremonti nell’estate 2011 è giunta a compimento solo poche settimane fa: più di due anni e mezzo. Sul mercato del lavoro non possiamo certo permetterci tempi altrettanto lunghi, ma il rischio è alto.
Infine, le risorse. Nell’articolo 6 del disegno di legge c’è scritto: «Dall’attuazione delle deleghe non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Ottima idea. Però, a spanne, per la nuova Aspi servono almeno 2,5 miliardi. E risorse aggiuntive sono indispensabili per rafforzare le misure sulla maternità e la conciliazione. Da dove arriveranno questi soldi? Da una drastica riduzione della cassa integrazione? Sarebbe auspicabile. Ma serve un progetto dettagliato e credibile sulla transizione dal vecchio al nuovo sistema. Se questo progetto c’è già, vorremmo conoscerlo. Se non c’è, è urgente prepararlo: per evitare le trappole della palude e soprattutto per rassicurare lavoratori e imprese.
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