Gli interventi:
Introduzione ai lavori di Alessandro Mauri e Roberto Daffonchio
Maria Luppi
Francesca Pasquini
Paolo Venturi
Arianna Visentini
Franca Maino
La cornice del seminario
Venerdì 12 ottobre, presso la Sala Conferenze dell’Azienda Sanitaria Locale di Pavia, si è tenuto il seminario dal titolo “Nasce la rete territoriale per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro a Pavia: le sfide dell’innovazione sociale”. Il seminario ha aperto un articolato ciclo di formazione sui temi della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, progettato e realizzato dal Centro di Ricerca Interdipartimentale “Studi di Genere” dell’Università degli Studi di Pavia (referente per il Centro del ciclo di formazione è Laura Canale). Queste iniziative rientrano nelle previsioni del “Piano territoriale di lavoro”, un documento che declina in strumenti di governance innovativi ed in azioni concrete l’ "Accordo territoriale sulla conciliazione famiglia lavoro”, firmato da numerosi enti ed istituzioni della provincia di Pavia nell’ottobre del 2011: «Con il presente accordo di collaborazione a livello territoriale si intende sostenere la costruzione e lo sviluppo di un coerente sistema di politiche e di azioni volte alla conciliazione famiglia lavoro […] attraverso la creazione di una rete di partner pubblico-privati a livello territoriale, in grado di recepire e promuovere politiche per la conciliazione dei tempi famiglia-lavoro e la conseguente individuazione degli organismi di governo e di gestione dei processi e l’implementazione dei processi di conciliazione famiglia lavoro, sperimentando nuovi modelli di collaborazione, con particolare attenzione alle piccole e medie imprese localizzate in Lombardia […]» (art.1 dell’Accordo).
In questi obiettivi ambiziosi si riflette il forte investimento che, negli ultimi due anni, Regione Lombardia ha compiuto nella direzione di promuove sull’intero territorio regionale efficaci politiche di conciliazioni, nella cornice del Dgr 381 dell’agosto 2010. Tali politiche hanno il proprio fulcro in strumenti di governance innovativi, individuati nelle “reti territoriali di conciliazione”.
La sfida della conciliazione tra lavoro e cura richiede infatti, in un momento in cui le risorse disponibili sono drasticamente ridotte dalla crisi economico-finanziaria che ha investito il nostro paese, l’attivazione di efficaci processi innovativi nel campo sociale. Regione Lombardia è impegnata da tempo su questo fronte, in particolare attraverso la promozione di partnership tra soggetti pubblici e soggetti privati, per dare vita a modelli innovativi di welfare. L’innovazione sociale è del resto alla base della volontà regionale di costruire un nuovo welfare abilitante di comunità, che prevede l’attivazione di processi partecipati con i territori per la definizione del “Nuovo patto per il welfare lombardo”.
La conciliazione tra tempi di vita e di lavoro è però prima di tutto un fenomeno culturale e, come tale, la sua declinazione in azioni concrete deve essere sostenuta da efficaci processi di formazione e sensibilizzazione; processi sui quali l’Azienda Sanitaria Locale di Pavia ha fortemente investito, chiedendo all’Università degli Studi di Pavia l’elaborazione di una serie di incontri che si snoderanno tra novembre 2012 e maggio 2013. L’obiettivo è quello di accompagnare il territorio nell’approfondimento delle principali tematiche della conciliazione: dalla analisi dello sviluppo delle politiche per la famiglia nel contesto europeo alla contrattazione di secondo livello; dalle buone pratiche di welfare aziendale alla progettazione nell’ambito dei fondi europei.
Disegnare processi innovativi per la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro significa, del resto, attivare meccanismi sociali virtuosi, in cui il territorio, nelle sue articolazioni (istituzioni, società civile, imprese e sindacati), diviene protagonista di risposte modulate ed efficaci che contribuiscono alla coesione sociale e allo sviluppo economico.
Gli interventi
Il seminario del 12 ottobre è stato aperto dal dottor Alessandro Mauri, direttore generale dell’Azienda Sanitaria Locale di Pavia, che ha contestualizzato l’esperienza della rete territoriale di Pavia nella cornice della programmazione regionale. E’ seguito l’intervento del dottor Roberto Daffonchio, dirigente della Sede Territoriale di Regione Lombardia di Pavia, centrato sull’importanza di sostenere le politiche di conciliazione attraverso attività mirate di formazione ai soggetti del territorio, tese ad un cambiamento prima di tutto culturale, nei contesti familiari, aziendali ed istituzionali.
Successivamente ha preso la parola la dott.ssa Maria Luppi, della Direzione Generale Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale, che ha illustrato il percorso della conciliazione in Lombardia partendo dal titolo del seminario, e in particolare dal concetto di “nascita”. Secondo la Luppi tale espressione coglie molto bene il senso dell’esperienza delle reti: da un lato rimanda infatti al lungo e impegnativo lavoro preparatorio svolto dalle istituzioni nella costruzione delle relazioni sottese alla rete; dall’altro, riflette l’idea che il processo vada nutrito ed accompagnato affinché esso possa consolidarsi e radicarsi in modo stabile sul territorio. La formazione, da questo punto di vista, rappresenta un passaggio cruciale proprio nella fase iniziale di attivazione di nuovi meccanismi di governance, mirati alla promozione di politiche di conciliazione. A partire dall’Intesa con il Dipartimento per le pari opportunità, raggiunta in Conferenza unificata nell’aprile del 2010, Regione Lombardia ha infatti deciso di raccogliere la sfida di una trasformazione in chiave innovativa della governace territoriale, nella cornice legislativa rappresentata dal “Programma regionale di sviluppo” della IX legislatura. Tale documento ha di fatto creato gli strumenti necessari a definire nuove modalità di intervento nel campo sociale, attraverso la previsione di una più intensa integrazione tra le politiche e l’azione trasversale degli assessorati.
La Luppi ha sottolineato come il Libro verde del novembre del 2010 rappresenti un’ulteriore tappa del processo di nascita delle reti territoriali, finalizzata al coinvolgimento, mediante processi partecipati, dei cittadini (consultazione on-line) e dei principali stakeholders attivi sul territorio regionale nella definizione del successivo percorso. L’esito di tale processo è stato il Libro bianco, che ha declinato in azioni concrete gli orientamenti maturati nel Libro verde, secondo una tabella di marcia (road map) che ha un orizzonte programmatorio di un triennio (2011-2013), e con l’impegno a verificare periodicamente l’avanzamento rispetto agli obiettivi programmatici (che sono trasversali rispetto a settori come i tempi delle città, l’occupazione, la competitività delle imprese, i servizi di cura).
In quest’ottica, le reti non esprimono soltanto nuove partnership pubblico-privato, bensì anche differenti politiche locali che si intrecciano nelle iniziative di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
L’impegno sulle reti territoriali ha coinciso del resto con la definizione, da parte di Regione Lombardia, di linee di sviluppo innovative per il welfare territoriale: il superamento dell’approccio assistenzialista e il perseguimento di un welfare abilitante, centrato sulle risorse relazionali (Nuovo patto per il welfare). Questo percorso di innovazione sociale comporta la moltiplicazione dei soggetti attivi nell’elaborazione e nell’implementazione delle politiche sociali, nonché una più attenta lettura dei bisogni espressi dal territorio.
Il successivo intervento di Francesca Pasquini (Eupolis Lombardia) ha messo a fuoco, da un lato, i processi di peer review cui Regione Lombardia ha partecipato in questi ultimi anni nel contesto europeo e che vedono la sperimentazione delle reti territoriali lombarde oggetto di notevole interesse in particolare nel circuito dell’associazionismo familiare (rete Coface) europeo. In particolare, il network delle associazioni familiari si sta attivando, in questi mesi, per fare dichiarare il 2014 “Anno europeo per la conciliazione tra famiglia e lavoro”. Lo sforzo di innovazione nella governance di Regione Lombardia si inscrive, ha sottolineato la Pasquini, nella progressiva trasformazione del welfare state in “civil welfare”, cioè in un sistema di protezione sociale in cui risulta centrale l’azione della società civile. Purtroppo è molto probabile che le iniziative nel campo della conciliazione, a livello regionale, dovranno scontare il ridimensionamento dei fondi dedicati nell’ambito della programmazione del Fondo sociale europeo.
Ciò che caratterizza, sotto il profilo della capacità di innovazione, il tessuto sociale ed istituzionale lombardo è certamente la sua complessità, ma anche una positiva capacità di dinamismo dei territori, che, secondo la Pasquini, è ben rappresentata dal fatto che ai sei territori oggetto dell’iniziale sperimentazione della dote conciliazione (Dgr 381/2010) si sono rapidamente aggiunti anche i rimanenti 7, che hanno mostrato di credere nel processo e stanno già oggi raccogliendo i frutti delle azioni intraprese nelle proprie reti. Tra i dati presentati da Eupolis al seminario pavese, spicca in particolare il numero dei soggetti coinvolti sull’intero territorio lombardo all’interno delle reti: ben 443, tra soggetti istituzionali, società civile e imprenditori. Risultati che sembrano particolarmente confortanti anche nel confronto con una esperienza ben più consolidata come quella delle “Alleanze locali per la famiglia” tedesche.
Tra i vari dati presentati da Francesca Pasquini sulle reti territoriali lombarde, si segnalano poi, da un lato, la composizione delle azioni realizzate per tipologia (fig.1), dall’altro, un primo interessante tentativo di Eupolis di analizzare i diversi approcci strategici adottati dalle Reti nelle proprie scelte di governance (fig. 2). Non è presente – è bene sottolinearlo – in queste ricostruzioni alcuna volontà di definire il “migliore” tra gli approcci territoriali. Semmai vi è la constatazione che proprio perché il civil welfare si realizza attraverso un forte radicamento alla comunità di riferimento, diversi modelli di governance si vanno definendo, in concreto, in ragione degli assetti istituzionali e delle dinamiche sociali ed economiche proprie di ciascun territorio. Certamente, però, i segni di un maggiore investimento in processi di innovazione sociale sembrano presenti soprattutto in quelle reti caratterizzate da un approccio “imprenditoriale”, che tende cioè a superare la naturale avversione al rischio tipica dell’agire amministrativo, per potenziarsi mediante il coinvolgimento di soggetti spesso distanti dai tavoli di lavoro tradizionali e la sperimentazione di azioni fortemente innovative.
Figura 1. Azioni progettuali delle Reti: una visione d’insieme
Fonte: Eupolis Lombardia.
Figura 2. Approcci strategici al coordinamento delle Reti
Fonte: Eupolis Lombardia.
Paolo Venturi, di Aiccon, ha arricchito il dibattito in sala, valorizzando il ruolo assunto, nello sviluppo di un welfare genuinamente di comunità, dal Terzo settore. Secondo Venturi, l’incapacità di innovare dipende dalla difficoltà di assumere prospettive nuove nella definizione dei problemi e nella ricerca delle risposte: il motivo per cui lo stato, negli ultimi decenni, è diventato ipertrofico non è altro che il riflesso dell’arretramento progressivo della società civile, a causa di un paradigma consolidato che privilegiava la standardizzazione dei servizi e le risposte dall’alto ai bisogni sociali. Ne consegue che tutte quelle politiche che oggi mirano a rafforzare la società civile, sulla base di una crescente fiducia nei meccanismi di risposta dal basso ai bisogni della comunità, implicano di per se stesse l’adesione ad un nuovo paradigma di policy, che si potrebbe risolvere, in futuro, in un ridimensionamento progressivo del ruolo dello Stato.
Al fine di sviluppare queste argomentazioni, Venturi ha presentato i risultati di una ricerca svolta per Regione Emilia-Romagna nel 2010 – ma ancora di assoluta attualità nel contesto attuale di inasprimento della crisi e di drastica riduzione del Fondo per le politiche sociali – dal titolo “Un altro welfare: esperienze generative”. La ricerca promuove una riflessione sul ruolo del Terzo settore nella promozione della coesione sociale, con una particolare attenzione alle “lezioni” che la pubblica amministrazione può trarre proprio dalla capacità della società civile – ed in particolare dell’associazionismo e del mondo cooperativo – di generare una serie di valori cruciali per lo sviluppo economico e sociale del paese sotto forma di beni relazionali. In quest’ottica, secondo Venturi, è necessario superare la visione dicotomica tradizionale stato/mercato, poiché è la stessa crisi attuale a dimostrare come, per il perseguimento di efficienza ed equità, sia fondamentale introdurre un terzo e distinto polo, quello appunto della società civile. Quest’ultima è destinata a divenire un protagonista delle politiche pubbliche, poiché è in grado di apportare al sistema, nel suo complesso, un fattore cruciale come la “fiducia” reciproca. Lo studio empirico su 55 iniziative del Terzo settore in Emilia-Romagna ha dimostrato che il funzionamento dell’economia sociale non sia centrato sullo scambio di equivalenti (mercato) o su obiettivi di equità e redistribuzione (stato) ma essenzialmente sulle motivazioni intrinseche del dono e della reciprocità. Se tale ruolo dovesse essere maggiormente valorizzato e promosso dal pubblico, ci troveremmo di fronte a politiche pubbliche diverse e più promettenti di quelle messe in campo negli ultimi decenni.
Per Venturi queste riflessioni devono essere adeguatamente ancorate agli indicatori strutturali, che focalizzano le sfide sociali del futuro, ed in particolare ai dati relativi all’invecchiamento della popolazione (report Istat dicembre 2011) ed alla diminuzione dei fondi statali disponibili per finanziare le politiche sociali (si veda a tale proposito la fig. 3 riferita alla presentazione di Franca Maino). Solo tenendo in adeguato conto tale contesto – che è obiettivo ed indiscutibile – si può cercare di fare qualche ipotesi sul futuro dei sistemi di welfare europei. In particolare Venturi fa riferimento alla teoria di Victor Pestoff (“Un altro welfare: esperienze generative”, p. 100) sui due distinti scenari che potrebbero caratterizzare nei prossimi anni il welfare state socialdemocratico svedese. Come è possibile vedere nella figura 4, secondo Pestoff è certo che il ruolo dello Stato (fino ad oggi cruciale in un sistema di welfare di tipo universalistico come quello della Svezia) sia destinato a ridursi significativamente. Ciò che non è chiaro, e rimane sostanzialmente aperto, è il ruolo che andranno assumendo il mercato, da un lato, e il Terzo settore, dall’altro: le due ipotesi possibili sono quindi una “privatizzazione rampante” (se dovesse prevalere il primo) o un processo di “democratizzazione” del welfare (se la società civile sarà in grado di giocare un ruolo di primo piano nel ridisegno delle politiche pubbliche).
Figura 3. Andamento dei fondi nazionali per le politiche sociali (2007-2011, valori in milioni di euro)
Fonte: IRS.
Figura 4. Possibili modalità di sviluppo del welfare state in Svezia
Fonte: (“Un altro welfare: esperienze generative”, p. 100. Lo schema è tratto da Pestoff, V., (2005), “Beyond the Market and State. Civil Democracy and Social Enterprises in a Welfare Society”, Aldershot, UK and Brookfield, NJ).
Le potenzialità del Terzo settore, ha continuato Venturi, derivano anche e soprattutto dalla sua capacità di inclusione sociale. Proprio perché le politiche sociali progettate ed implementate con il contributo del non profit aumentano lo stock di capitale relazionale degli individui, esse sono le più funzionali ad affrontare le sfide dei nuovi rischi sociali, caratterizzate proprio dalla diffusione di incertezza nelle carriere lavorative e nelle relazioni famigliari. Ne è un chiaro esempio uno dei casi studiati dalla ricerca, quello del “Punto di incontro San Giovanni” (“Un altro welfare: esperienze generative”, p. 43): «Il progetto nasce nel 2003 nell’ambito del Progetto Anziani della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, per iniziativa del Comune di San Giovanni in Persiceto e grazie al contributo della Parrocchia di San Giovanni Battista che mette a disposizione un locale all’interno della canonica, sita in zona centrale (piazza del Popolo). L’obiettivo è l’integrazione dell’assistenza domiciliare per anziani non autosufficienti con un servizio diurno di prevenzione e riabilitazione di capacità compromesse, nonché l’offerta di attività di socializzazione e intrattenimento rivolte anche ai care-givers […]. La fruizione del servizio, attualmente offerto su tutto il territorio del Distretto Pianura Ovest, è flessibile in base al bisogno, con tariffe giornaliere e la possibilità di consumare o meno il pasto. Gli anziani accompagnati da un proprio familiare che non richiedano assistenza accedono gratuitamente. Per la sua felice collocazione, che ne favorisce l’integrazione con la comunità locale, il centro è frequentato anche da anziani autosufficienti in cerca di compagnia e/o desiderosi di offrire il proprio contributo come volontari». Questo è certamente un esempio evidente di come il protagonismo del Terzo settore, nel contesto dei servizi per la conciliazione tra lavoro e cura, possa generare esperienze di grande valore, in grado di potenziare la coesione sociale di una comunità locale. La ricerca ha del resto dimostrato, attraverso una serie di interviste ai protagonisti di queste sperimentazioni, come la stessa pubblica amministrazione sia in grado di rafforzare la propria legittimazione di fronte ai cittadini attraverso la trasformazione del proprio ruolo. Si tratta di quel “cambio di prospettiva”, di cui Venturi aveva parlato nell’esordio del suo intervento, che implica per il settore pubblico meno burocrazia e più capacità di riconoscere gli altri protagonisti del welfare, di coordinarli, supportarli e, ovviamente, valutarli.
Il penultimo intervento del seminario è stato svolto da Arianna Visentini (Variazioni Srl), che si è occupata del tema dell’innovazione sociale nelle reti di conciliazione dal punto di vista di imprese e sindacati. Partendo della sua esperienza professionale di consulenza alla progettazione di azioni positive in azienda, la Visentini ha sottolineato come quello della conciliazione sia oggi un tema alla ribalta. Politici, economisti, sociologi e pedagogisti si trovano oggi frequentemente a trattare argomenti strettamente connessi con la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro: dai servizi per l’infanzia alla long-term care; dalla womenomics alle pari opportunità; dalla produttività aziendale alla responsabilità sociale di impresa.
Ciò che osserviamo, ha proseguito la Visentini, è un fenomeno di obiettiva difficoltà della società civile – arretrata negli scorsi decenni sotto la spinta di politiche pubbliche capillari – ad agire, cioè a trovare strumenti ed opportunità per crescere e consolidare i legami tra individui. Eppure la recente crisi della spesa pubblica sembra avere aperto nuove prospettive, centrate su iniziative dal basso che potrebbero nel tempo coprire gli spazi lasciati vuoti da uno stato che retrocede non solo a causa di minori risorse, bensì anche della scarsità di idee su come risolvere le complesse sfide sociali che il paese si trova ad affrontare.
Per quanto riguarda nello specifico il tema della contrattazione territoriale e di quella aziendale, si deve rilevare che la normativa nazionale offre da almeno un paio di anni la strumentazione necessaria per procedere di buona lena sulla via dell’innovazione sociale (L. 4 novembre 2010 n.183, Intesa del 7 marzo 2011, Intesa interconfederale del 28 giugno 2011, art. 8 della manovra finanziari dell’agosto 2011 “Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”). Regione Lombardia ha a sua volta adottato il Dgr 381 del 2010 – alla base della sperimentazione delle reti territoriali di conciliazione – che muove nella medesima direzione: promuovere la contrattazione di secondo livello come l’ambito privilegiato per modellare strumenti di flessibilità organizzativa in grado di rispondere alle esigenze conciliative dei lavoratori e delle lavoratrici. Secondo la Visentini, la troppo diffusa diffidenza verso questi strumenti è del tutto ingiustificata: è certamente possibile che gli stessi producano effetti peggiorativi delle condizioni del lavoro, così come è altrettanto possibile che i medesimi, gestiti con consapevolezza e capacità di innovazione da parte datoriale e sindacale, segnino un nuovo corso delle relazioni industriali, sempre più centrato sul benessere dei lavoratori (considerati nel peculiare contesto locale e nel rispetto delle esigenze soggettive).
C’è poi, ha continuato la Visentini, la complessa questione della detassazione del salario di produttività (si veda a tale proposito l’intervista di Secondo welfare ad Armando Tursi), che, per promuovere davvero pratiche di flessibilità buona, non deve ridursi a premiare l’aumento delle ore lavorate (magari offrendo come contropartita servizi di cura), ma semmai favorire quelle forme di flessibilità organizzativa che riconoscono ai lavorati tempo aggiuntivo da gestire (telelavoro, part-time volontario) avendo come contropartita risultati in termini di produttività e di maggiore coinvolgimento dei lavoratori nei processi innovazione aziendale.
La normativa offre margini su cui è possibile costruire pratiche genuine di responsabilità sociale di impresa. Ciò che peserà sugli sviluppi futuri di tale prospettiva è ovviamente in primo luogo la volontà delle parti di trovare compromessi in grado di garantire che una maggiore flessibilità si accompagni ad una maggiore produttività.
Nello specifico, le reti territoriali lombarde di conciliazione possono essere uno strumento davvero efficace per favorire processi di contrattazione territoriale, attraverso il ruolo di facilitatore delle istituzioni locali, purché – e questo è certamente un inciso degno di nota dell’intervento di Arianna Visentini – i decisori pubblici che operano nella rete siano consapevoli del fatto che quest’ultima aggrega interessi che possono essere ( e spesso sono) per loro natura divergenti. Solo nella misura in cui le amministrazioni che hanno promosso la rete giocheranno un ruolo di mediazione e di contemperamento delle diverse istanze portate dagli stakeholders, gli obiettivi finali della conciliazione saranno raggiunti effettivamente. La società civile, insomma, nel momento in cui viene coinvolta attivamente nelle politiche di welfare deve poter manifestare tutte le sue voci, e ciascuna di esse deve trovare spazio nei processi di consolidamento delle reti territoriali.
Tornando in conclusione dell’intervento allo scenario nazionale, la Visentini ha poi sottolineato l’importanza di promuovere una legislazione che finalmente introduca, in modo manifesto ed inequivocabile, vantaggi fiscali per quelle imprese che si impegnano nella costruzione di un nuovo welfare territoriale mediante misure aziendali di flessibilità e servizi di welfare.
L’intervento conclusivo del seminario è stato affidato a Franca Maino, che ha efficacemente tirato le fila del discorso, attorno alla nascita della rete territoriale per la conciliazione di Pavia e alle sue ricadute in termini di innovazione sociale.
Il punto di partenza è ovviamente rappresentato da quello che è ormai un fenomeno assodato, ovvero la forte pressione che oggi ricade sul welfare state, determinata da tre fenomeni connessi: in primo luogo l’emersione dei nuovi rischi sociali, che cambiano la mappa dei bisogni esistenti e la natura delle risposte da dare ai cittadini; in secondo luogo, i vincoli di bilancio stringenti che impongono al nostro paese il rigoroso perseguimento del pareggio; in terzo luogo, la crisi economico finanziaria che mette a rischio gli obiettivi di crescita contribuendo ad inasprire le condizioni di disagio per una fetta crescente della popolazione italiana.
Questa costellazione di sfide non è ancora stata affrontata, dal governo nazionale, con misure significative di riforma del welfare state: la distribuzione della spesa sociale oggi non è dissimile da quella di vent’anni fa, cioè totalmente sbilanciata a favore delle prestazioni pensionistiche rispetto a quelle dedicate a giovani, care givers e bambini.
A questo quadro va però aggiunto il fatto che le politiche di retrenchment della ricetta liberista, cioè di riduzione del peso dello stato sociale, non solo non sembrano essere state efficaci nel salvare i conti pubblici ma, nell’attuale congiuntura di crisi, rischiano di estendere drammaticamente la quota di popolazione non protetta dal welfare state a causa della precarietà o dell’assenza del lavoro.
In questo scenario critico, il secondo welfare potrebbe essere in grado di svolgere una funzione integrativa del primo welfare. Si tratta ciò di riconoscere l’importanza dell’affiancamento del Terzo settore e delle imprese for profit all’attore pubblico locale, nella definizione di politiche che siano in grado di resistere, appunto, alla riduzione delle risorse statali, attraverso contributi economici non pubblici ma anche con idee e progettualità. L’obiettivo è quello di sostenere la coesione sociale, e, nella migliore delle ipotesi, costruire un nuovo e più inclusivo sistema di welfare territoriale.
Nel contesto specifico delle politiche di conciliazione, Franca Maino ha sottolineato come i dati disponibili ci dicano che il nostro paese sconta una tradizionale debolezza nel settore delle politiche familiari (si vedano a tale proposito le slides nei riferimenti). Emergono, in particolare, due importanti fronti di azione, a livello nazionale e locale: da un lato la cura dell’infanzia; dall’altro il tema delle non autosufficienze. Per entrambi il livello di “socializzazione del rischio” è ancora troppo basso e la famiglia (in primo luogo le donne) continua ad avere un ruolo assolutamente primario.
La rete territoriale di conciliazione, da questo punto di vista, potrebbe elaborare nel tempo risposte innovative ed efficaci, in grado di contare sul sostegno diffuso della comunità locale.
Gli attori oggi presenti nella reti territoriali lombarde non sono soggetti “nuovi” ma nuovo è certamente il modello di governance adottato, cioè sostanzialmente aperto, pur all’interno di una forte strutturazione istituzionale e con una vocazione all’ancoraggio territoriale che rappresenta un vero valore aggiunto della sperimentazione lombarda. In questo contesto innovativo, l’attore pubblico non scompare ma viene esaltato, in particolare nella dimensione degli enti locali; ruolo che deve essere necessariamente ripensato, in chiave partecipativa, nei confronti degli attori non profit e for profit. La capacità di promuovere partnership complesse risulterà quindi decisiva per il rafforzamento delle reti territoriali.
Ritornando poi su quanto detto da Arianna Visentini, Franca Maino ha confermato l’importanza, in questi nuovi modelli di governance, della capacità dei funzionari pubblici di leggere gli interessi in campo, che non necessariamente sono convergenti ma possono divenire sinergici. In questo senso la capacità di dialogare con gli stakeholders e di progettare interventi integrati, senza mai perdere di vista la mission pubblica, saranno la vera grande sfida delle reti.
L’innovazione sociale insita in questi processi (“nuove idee – prodotti, servizi e modelli – che rispondono ai bisogni sociali in modo più efficace delle alternative esistenti e che, allo stesso tempo, creano nuove relazioni sociali e collaborazioni – Commissione Europea, Ufficio dei consiglieri di politica europea – Bepa) fa si che la partita delle reti territoriali di conciliazione possa essere letta proprio con questo focus: la definizione di nuovi e più funzionali modelli di governance e, al contempo, la progettazione congiunta (pubblico/privata) di azioni concrete, in grado di contemperare le esigenze di cura e di lavoro delle famiglie con il forte bisogno di investimento in educazione precoce e capitale umano dei bambini di questo paese.