Il tema del welfare aziendale è sempre più discusso sulle pagine dei quotidiani, all’interno delle aziende, e tra gli esperti. Il trattamento fiscale di questi benefit e servizi è cruciale rispetto alla scelta del management di attuare sistemi di welfare per i dipendenti. Abbiamo già pubblicato su questo sito autorevoli pareri, come quello del giornalista Dario Di Vico e del professor Alberto Brambilla. Entrambi ritengono la legislazione vigente troppo datata, e chiedono al nuovo Governo di intervenire per rendere le agevolazioni fiscali più efficaci.
Abbiamo chiesto al Prof. Armando Tursi, docente di diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano, di aiutarci a capire come funzionano oggi gli incentivi fiscali in materia di welfare aziendale, e di darci il suo parere a riguardo.
- Ci aiuta a ricostruire il quadro della legislazione vigente in materia?
Non esiste un quadro normativo in materia di welfare aziendale. In realtà, il cosiddetto welfare aziendale è un fenomeno che, sotto il profilo giuridico sostanziale, si presenta assolutamente disorganico ed a-sistematico, essendo riconducibile a diversi ed eterogenei ambiti normativi: per un verso, la previdenza e l’assistenza integrativa e/o complementare (comprensiva della “previdenza complementare” propriamente detta, disciplinata dal d.lgs. n. 252/2005; dell’assistenza sanitaria integrativa, disciplinata dall’art. 9 del d.lgs. n. 502/1992 e, da ultimo, dal d.m. 27.10.2009; dei cosiddetti “ammortizzatori sociali contrattuali”, disciplinati in linea generale dall’art. 2, comma 28, della legge n. 662/1996); per l’altro, le forme di retribuzione non monetarie (fringe benefits, retribuzione in natura, beni e servizi aziendali per la generalità o per categorie di dipendenti o loro familiari). Queste ultime vengono in rilievo sotto il profilo giuridico esclusivamente nella dimensione fiscale, essendo disciplinate dall’art. 51 del TUIR.
- A quando risalgono gli articoli sul trattamento fiscale del welfare aziendale e in che contesto sono nati?
Il testo unico delle imposte sui redditi (d.p.r. n. 917/1986) codifica norme risalenti al 1973 (d.p.r. n. 597/1973). In particolare, l’art. 48 del d.p.r. n. 597/1973 riconduceva al reddito da lavoro dipendente “tutti i compensi e gli emolumenti … percepiti … in dipendenza del lavoro prestato, … anche a titolo di sussidio o liberalità”, ed escludeva dalla tassazione solo “i contributi versati … ad enti o casse aventi esclusivamente fine previdenziale o assistenziale in ottemperanza a disposizioni di legge, di contratti collettivi o di accordi aziendali o previdenziale dal datore di lavoro”.
L’art. 51 del TUIR modifica questa disciplina sotto tre profili:
a) amplia la nozione di reddito da lavoro, considerando tale anche quello percepito (non “in dipendenza”, ma anche solo) “in relazione al rapporto di lavoro”;
b) ridimensiona il beneficio fiscale dei contributi alle forme di previdenza e assistenza integrativa, limitando la deducibilità fiscale dei contributi versati alle forme pensionistiche complementari ad euro 5.164,57, e quella dei contributi di assistenza sanitaria integrativa ad euro 3.615,20;
c) amplia il novero dei compensi esclusi dall’imponibile, includendovi tra l’altro, e per quanto interessa il cd. “welfare aziendale”: l’utilizzazione delle opere e dei servizi offerti dall’azienda alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti, o dei loro familiari a carico, per finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto; le somme monetarie erogate alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti per frequenza di asili nido, colonie, borse di studio a favore di familiari a carico. Prevede inoltre una parziale defiscalizzazione per i compensi in natura (esenti fino a euro 258,23), per le auto concesse in uso promiscuo, per la concessione di prestiti, per la concessione in uso di fabbricati.
In sostanza, si può dire che la logica è stata quella di un intervento di razionalizzazione dei costi fiscali in chiave anti-elusiva, mentre è mancata una logica proattiva rivolta al welfare aziendale come manifestazione di bisogni nuovi indotti dal nuovo quadro sia macro-economico (welfare redistributivo) che micro-economico (nuovi modelli organizzativi, bisogni “immateriali”, politiche di conciliazione del lavoro con altri spazi vitali).
- Gli articoli si riferiscono a servizi di welfare per tutti i dipendenti o per intere categorie di lavoratori, o sono applicabili anche ai “fringe benefits” di natura più individuale?
Sono riservati alla “generalità” o a “categorie di dipendenti” i benefici in natura consistenti nell’offerta di opere e servizi per fini di utilità sociale (“finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto”) e i benefici monetari per frequenza di asili nido, colonie e borse di studio a favore di familiari; così come l’offerta di azioni “alla generalità dei dipendenti” entro il tetto di 2.066 euro (mentre è stata eliminata nel 2008 la fiscalità di vantaggio per le stock options). Possono ricondursi al genus dei benefici collettivi anche i contributi alle forme pensionistiche complementari e a casse o fondi sanitari integrativi, in quanto istituiti per contratto collettivo o regolamento aziendale. Sono però oggetto di trattamento fiscale di favore anche taluni fringe benefits “individuali” (non necessariamente riservati ai managers), quali i compensi in natura fino a 258 euro, l’auto aziendale, i prestiti, la concessione in uso di fabbricati.
- Le norme favoriscono alcune tipologie di benefit più di altri? Ad esempio somme di denaro o prestazioni “in natura”?
Le erogazioni in natura sono favorite rispetto a quelle monetarie: in linea generale, queste ultime costituiscono sempre retribuzione tassabile (eccezioni: contributi di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa; rimborso spese mediche per soggetti portatori di handicap previsti da contratti collettivi o regolamenti aziendali; borse di studio, asili nido, colonie), anche se erogate a titolo di liberalità. Si ricorda che la legge n. 126/2008 ha eliminato il regime di vantaggio fiscale precedentemente vigente per le erogazioni liberali in occasione di festività e ricorrenze alla generalità dei dipendenti.
- La legislazione è chiara e facilmente utilizzabile dalle aziende?
Gravi incertezze riguardano le condizioni di vantaggio fiscale per l’utilizzazione delle opere e dei servizi di utilità sociale: l’art. 51, lett. f) del TUIR prevede che esse debbano essere “volontariamente sostenute”, e ciò sembra, assurdamente, escludere il vantaggio fiscale se il beneficio è contemplato da un accordo collettivo. In tal senso si è espressa la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 34/E del 10.3.2004.
- Ritiene che la legislazione contribuisca a favorire la diffusione del welfare aziendale? Incoraggia la contrattazione con i sindacati?
No: esistono margini di ambiguità e contraddizioni sistematiche circa il requisito della volontarietà, che rende imponibili i servizi di welfare aziendale contemplati dalla contrattazione collettiva, ponendosi in stridente contraddizione con le previsioni in materia di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa, per le quali, al contrario, la contrattazione collettiva assurge a requisito per ottenere il vantaggio fiscale.
Inoltre, il riferimento alle finalità sociali, operato dall’art. 51, lett. f) del TUIR, appare datato e riduttivo, non essendo in grado di cogliere appieno la portata del moderno welfare aziendale, che dovrebbe invece fare riferimento a una nozione di well-being inteso come capacità degli individui di sviluppare e mobilitare al meglio le proprie risorse, in modo da soddisfare prerogative sia personali (fisiche e mentali), sia esterne (sociali e materiali), ovvero come la capacità del soggetto di interagire con l’ambiente in modo positivo.
- Gli accordi con le parti sociali contengono incentivi al welfare aziendale?
Il tema è oramai diventato attuale e di frontiera, perché coinvolge sia la prospettiva redistributiva del welfare propriamente e tradizionalmente inteso, sia quella psico-organizzativa del total reward, ossia del welfare aziendale inteso come forma non monetaria di compensation. Tuttavia – anche per i ritardi e la vischiosità della legislazione – non sembra essere ancora pervenuto a un grado sufficiente di maturità, anche sotto il profilo dell’elaborazione concettuale e sistematica. In sostanza, si può dire che il tema è ormai ben presente nella contrattazione collettiva, anche se più diffuso e consolidato nelle forme della previdenza complementare, meno compatto e meno chiaramente delineato nelle altre forme in cui il welfare aziendale è declinato. Un dato importante da registrare è il protagonismo delle aziende: il welfare aziendale di nuova generazione sembra spesso più ispirato a logiche aziendali-manageriali di HRM, che sindacali.
- Cosa si potrebbe fare per migliorare la legislazione attuale?
Sul piano generale, di policy, sarebbe necessario porsi il problema di una possibile riconduzione ad unità della variegata fenomenologia che va sotto il nome di welfare aziendale, alla luce di una “nozione-cappello” unitaria di “welfare contrattuale”, capace di conciliarlo con il tradizionale welfare redistributivo (a cominciare dalla previdenza complementare). Sarebbe in tal modo possibile declinare armonicamente il tradizionale welfare redistributivo con le politiche aziendali di total reward (o se si vuole: la prospettiva politologica con quella aziendalistica). La chiave di volta della nuova concezione dovrebbe essere costituita dalla valorizzazione della sussidiarietà orizzontale nelle politiche di welfare, puntando sulla bilateralità.
La fiscalità di vantaggio dovrebbe essere conseguentemente ridisegnata, ispirandosi ai principi:
– della rilevanza costituzionale dell’assistenza e della previdenza integrativa di quella pubblica;
– della meritevolezza sociale dell’assistenza privata, anche se non integrativa di quella pubblica, se e in quanto sorretta dalla “bilateralità”;
– dell’unificazione dei regimi di assoggettamento contributivo degli importi versati a schemi di previdenza e assistenza privata collegati alla bilateralità. Si potrebbe pensare a blocchi di flessibilità contributiva sommabili per adesioni plurali a schemi di previdenza e assistenza privata (collegati a bilateralità).
- I governi locali in Italia promuovono la diffusione del welfare aziendale attraverso la legislazione?
Gli attori pubblici (Regioni, enti locali) avvertono l’esigenza di garantire servizi alla domanda crescente in presenza di forti vincoli nella finanzia pubblica, e ciò si traduce in:
– incentivi alla creazione di programmi di welfare aziendale (sgravi fiscali, contributi…);
– forme di “sostegno reciproco azienda-ente pubblico” nel garantire alcuni servizi (ad esempio, asili nido aziendali con posti in convenzione per le graduatorie comunali).
Uno spazio operativo si profila anche per il Terzo settore: alle cooperative sociali può essere esternalizzata l’erogazione di servizi alla persona per i quali esse sono specializzate, data le difficoltà dell’azienda nel farsi carico della gestione diretta.
Infine, il coinvolgimento degli enti bilaterali nel welfare aziendale può agevolare la gestione di programmi cui aderiscono le Piccole e Medie imprese: le PMI spesso si rivolgono ai primi o si consorziano tra di loro per erogare servizi e agevolazioni ai propri dipendenti.
Nel settore della previdenza complementare, il ruolo delle Regioni e delle Province Autonome, nonostante la competenza legislativa concorrente in materia di “previdenza complementare e integrativa” stabilita dall’art. 117 della Costituzione, risulta fortemente limitato dalla pervasività della legislazione statale. L’esperienza di maggior rilievo è quella del Trentino Alto Adige, dove PensPlan Centrum SpA offre servizi di supporto gestionale-amministrativo ai fondi pensione regionali e forme di sostegno finanziario/garanzia a favore degli iscritti.