Il 10 luglio sulle pagine di Buone Notizie, inserto settimanale del Corriere della Sera, è stata pubblicata un’inchiesta curata da Percorsi di secondo welfare sulla situazione delle periferie italiane. Di seguito vi proponiamo la riflessione della nostra Chiara Lodi Rizzini sulle energie positive che possono scaturire da queste aree, a condizione che Pubblico e privato sappiano lavorare insieme. Qui invece trovate l’articolo firmato dal giornalista Davide Illarietti e l’infografica curata dai grafici del Corriere, realizzati grazie al supporto dei nostri ricercatori.
Teatro di conflitti ma anche di sperimentazioni innovative, sin dall’inizio del Novecento le periferie urbane sono state oggetto dell’interesse di studiosi e, tra alti e bassi, di decisori pubblici. Questi territori infatti anticipano spesso tendenze e questioni sociali: è qui che si sono sentiti i primi effetti delle crisi e dei cambiamenti demografici, è qui che sono nate subculture in seguito assorbite dalla cultura di massa. Periferie che non si identificano per la distanza fisica dall’area centrale, ma per la concentrazione di fenomeni di deprivazione, degrado e carenza di servizi che, dati alla mano, fanno apparire questi territori come corpi estranei alle città di cui sono parte. Con qualche anno di ritardo rispetto all’estero, le periferie si sono imposte anche nel dibattito pubblico italiano entrando gradualmente nell’agenda politica, soprattutto locale.
Tre sono gli obiettivi su cui si concentrano principalmente gli interventi dei policy maker. Il primo è quello di migliorare benessere e opportunità degli abitanti attraverso il potenziamento del welfare, per dare risposta ai nuovi bisogni e rischi sociali. Si pensi alla casa: anni di sviluppo edilizio indifferente alla sostenibilità, e sbilanciato sulla quantità, hanno lasciato nelle periferie centinaia di immobili sfitti o incompiuti, mentre a causa della drastica riduzione delle risorse destinate all’edilizia residenziale pubblica le case popolari sono spesso abbandonate al degrado, quando non oggetto di racket e occupazione abusiva. Il secondo obiettivo è favorire le relazioni sociali: difficile creare comunità coese quando le persone hanno background socio-culturali così diversi, quando i vicini cambiano frequentemente per effetto della mobilità lavorativa, quando la diffidenza e la paura dell’altro sono diffuse. Lo sfaldamento dei legami è inoltre attribuibile alla crescente vulnerabilità delle classi media e operaia, che si sentono minacciate dai nuovi arrivati, gli immigrati, contribuendo ad alimentare logiche competitive anziché collaborative. Immigrati che sono una parte consistente degli abitanti delle periferie da cui, al contempo, la popolazione «autoctona» se ne va, favorendo lo sviluppo di quartieri-ghetto. Terzo obiettivo è quello della sicurezza e del contrasto alla criminalità.
Di recente il sindaco di Milano Beppe Sala ha paragonato le periferie ad una faglia da cui si sprigiona l’energia delle urgenze urbane. Questa energia può essere distruttiva, come dimostrano gli scontri che ciclicamente scoppiano in queste zone tra abitanti – in genere giovani marginali – e forze dell’ordine. O come dimostrano i recenti attentati terroristici, nella maggior parte dei casi commessi da soggetti provenienti da sobborghi–ghetti, polveriere che criminalità diffusa, marginalizzazione e bassa scolarità rendono particolarmente permeabili a fenomeni di radicalizzazione. Ma può essere anche un’energia costruttiva, a patto che la politica, insieme ai corpi sociali, sappia intercettare insieme i bisogni e le risorse latenti delle periferie, rammendandole – come bene suggerisce Renzo Piano – per poi ricucirle al resto della città, prestando attenzione non solo agli aspetti urbanistici e della sicurezza, a cui spesso è ridotto il dibattito, ma soprattutto a quelli sociali.