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Il 10 luglio sulle pagine di Buone Notizie, inserto settimanale del Corriere della Sera, è stata pubblicata un’inchiesta curata da Percorsi di secondo welfare sulla situazione delle periferie italiane. Di seguito vi proponiamo l’articolo firmato dal giornalista Davide Illarietti e l’infografica curata dai grafici del Corriere (disponibili anche qui), realizzati grazie al supporto dei nostri ricercatori. Qui invece trovate l’approfondimento curato dalla nostra Chiara Lodi Rizzini.

 
A Scampia, nove abitanti a metro quadro. Allo Zen, tredici. Nell’alveare di cemento di Tor Bella Monaca, addirittura trentasei. I quartieri-ghetto sono dei concentrati demografici di storie e notizie (spesso non buone). Ma la periferia italiana è molto più diffusa, s’insinua ovunque come la polvere. «Ricomincia per migliaia di volte» scriveva Pasolini, e i censimenti dell’Istat lo confermano. Anche gli interventi pubblici e privati contro il disagio cominciano, finiscono (magari a metà) per ricominciare in eterno: le risorse invece sono tutt’altro che inesauribili. A non mancare mai sono i dati.

A ottobre 2016 il Parlamento ha costituito una Commissione d’inchiesta, per indagare su «le condizioni di sicurezza e lo stato di degrado delle città e delle loro periferie». In tredici mesi, venti deputati hanno fatto 32 riunioni e 12 sopralluoghi, incontrato 82 esperti e istituzioni locali. Ne sono usciti quattordici cartogrammi di altrettanti capoluoghi italiani: da Messina a Venezia, ogni quartiere è stato esaminato e categorizzato, numerato in base a una serie di indicatori, che moltiplicano le città in un caleidoscopio di infografiche (308 in tutto). Gli esperti hanno congegnato infine un «indicatore degli indicatori»: misura la «vulnerabilità sociale» sintetizzando sette parametri «che tengono conto dell’esposizione della popolazione a situazioni di incertezza sociale ed economica», si legge nel rapporto pubblicato a gennaio.

La fotografia del problema è la premessa necessaria per un intervento congiunto di Enti pubblici, Terzo Settore e secondo welfare, scrive la Commissione nelle sue osservazioni. Prima constatazione: la maggior parte degli abitanti delle metropoli italiane (circa il 75 per cento) vive fuori dai centri urbani, in periferie o semi-periferie. Si parla di 7,2 milioni di persone. Abitano in quartieri più o meno decorosi, diversi «per conformazione fisica e condizioni sociali», ma tutti «egualmente interessati da fenomeni di degrado, marginalità, e da una minore dotazione di servizi» osserva il rapporto. Le città del Sud sono in fondo alla classifica in termini percentuali: a Napoli, Catania e Cagliari oltre due persone su cinque vivono in contesti disagiati. Ma è nella Capitale il record in termini assoluti: 887mila persone. E anche nei più ricchi capoluoghi del Centro-Nord – comprese le città d’arte: Firenze, Venezia – almeno un terzo degli abitanti vive a contatto ravvicinato con famiglie in condizioni fragili.
 

Il secondo punto che emerge, nel rapporto, è d’ordine concettuale. Periferia è la distanza da uno standard di vita, non una distanza geografia: lo schema concentrico «a banlieu» delle metropoli europee salta e si contorce nel nostro Paese dove (Milano esclusa) il disagio si frantuma disperdendosi anche nei centri storici, dai quartieri Spagnoli di Napoli a Porta Palazzo a Torino. Gli indicatori rielaborati dall’Istat – valori immobiliari, tasso di disoccupazione o d’immigrazione, indice di vecchiaia o concentrazione di persone laureate, per citarne alcuni – rispecchiano città per città una situazione «a macchia di leopardo». Che da una parte attutisce l’effetto-degrado, dall’altra complica l’intervento istituzionale. «È indispensabile coordinare le varie responsabilità per ripensare ai programmi di intervento», si legge nel Rapporto. Qualcuno è già passato all’azione.

Gli enti locali e il Terzo settore, dal 2015 al 2017 hanno beneficiato di un bando nazionale da 166 milioni «per la riqualificazione delle aree urbane degradate». Un Fondo ad hoc istituito dal governo nel 2016 ha dato un po’ di fiato (con mezzo miliardo di finanziamenti) all’azione congiunta pubblico-no profit. In 96 Comuni le convenzioni hanno spaziato dalla mobilità sostenibile (Bologna, Cagliari, Vicenza e Grosseto) agli interventi di welfare più tradizionale (Mantova, Roma, Ascoli Piceno, Andria, Salerno, Bergamo e Lecce) al recupero di infrastrutture e aree dismesse (Napoli, Oristano, Genova, Bologna).

Il grosso potenziale da sbloccare sta però nella collaborazione con il privato. «L’impegno sociale da parte delle imprese e delle fondazioni nelle periferie è cresciuto negli ultimi anni» spiega Franca Maino del laboratorio Percorsi di Secondo Welfare. Il gruppo di ricerca – promosso dall’Università Statale di Milano e dal Centro di ricerca Einaudi di Torino – sta svolgendo uno studio sulle fondazioni d’impresa indagando anche se, e in che modo, queste si stanno impegnando sul fronte periferie. «È un tema su cui i riflettori dell’opinione pubblica si sono accesi in tempi recenti», sottolinea Maino: «La percezione però è di un grande fermento». Lo si è visto, ad esempio, alla prima Conferenza nazionale sulle periferie il 20 giugno a Milano. Nei quartieri difficili dell’hinterland meneghino gli interventi pro-bono di banche e imprese (Bracco, Cariplo, Sodalitas, Bnp-Paribas, Federchimica) si sono presentati compatti e integrati con quelli del Comune e delle associazioni. Passando il testimone al collega Leoluca Orlando collegato da Palermo – che ospiterà il convegno l’anno prossimo – il sindaco Giuseppe Sala ha indicato un termine: «L’orizzonte su cui dobbiamo lavorare è il 2030». Forse per allora il giro d’Italia delle periferie sarà concluso. E strada facendo il paesaggio potrebbe cambiare in meglio, almeno un po’.