Oggi in Italia quasi tutte le grandi aziende prevedono forme di welfare per i propri dipendenti. Ma se si vuole parlare davvero di welfare aziendale e favorirne una diffusione capillare e che tocchi un numero crescente di organizzazioni e persone occorre concentrarsi anche e soprattutto sulle piccole e medie imprese, che contano cioè meno di 250 addetti. Le PMI, infatti, nel nostro Paese rappresentano il 99% delle aziende e occupano circa il 70% dei lavoratori dipendenti. Per questo fare welfare al loro interno significa offrire diverse opportunità a chi vi lavora, ma anche vantaggi per imprese stesse e per i territori in cui operano (ne abbiamo parlato qui e qui).
Come vi abbiamo spesso raccontato, ad esempio nel nostro Sesto Rapporto, le PMI hanno però significative difficoltà a predisporre piani di welfare complessi, che vadano oltre i buoni pasto e i fringe benefit. Secondo una recente pubblicazione di INAPP, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, curato da Ida Regalia, seppur tante piccole e medie organizzazioni abbiano introdotto forme e strumenti di flessibilità per la conciliazione vita-lavoro (circa il 57%), solo il 22% delle PMI farebbe un “ricorso elevato” al welfare.
Altri studi sembrano invece indicare un andamento parzialmente diverso. Il report nazionale 2024 di Welfare Index PMI, come spiegavamo in questo recente articolo, riporta un aumento delle organizzazioni di piccole e medie dimensioni che fanno welfare (al netto del metodo di campionamento discutibile) e mostra che le organizzazioni che lo sperimentano non tornano più indietro. Una tendenza simile sembra tuttavia rilevata anche dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro nel corso del 2024, che ha dedicato diversi approfondimenti.
Qualsiasi sia effettivamente la tendenza, una strada che a nostro avviso si potrebbe intraprendere per favorire la diffusione del welfare aziendale nelle PMI sta nella collaborazione tra organizzazioni anche attraverso lo sviluppo di reti ad hoc. Ma andiamo con ordine.
Welfare e PMI: il punto di vista dei Consulenti del Lavoro
Il primo di questi approfondimenti, dal titolo La professione di Consulente del Lavoro nello scenario di mercato che cambia, che ha coinvolto un campione di 1.495 iscritti agli Ordini dei Consulenti del Lavoro, evidenzia come – stando all’opinione dei professionisti – negli ultimi anni siano aumentate notevolmente le consulenze in materia di welfare aziendale: se nel 2021 erano il 19,2% gli iscritti che dichiaravano di fornire tale tipo di servizio, nel 2023 la percentuale sale al 39,8%. La percentuale sale poi oltre il 50% tra i consulenti che operano nelle regioni del Nord Italia.
A ciò si aggiunge il fatto che il welfare aziendale è l’ambito per cui è aumentata maggiormente la domanda di servizi professionali richiesti ai consulenti (56,1% dichiara che la domanda è in crescita). Seguono poi la consulenza economica (52,2%) e giuridica (49,2%) sui rapporti di lavoro.
Un secondo approfondimento, curato in collaborazione con il provider Pluxee (ex Sodexo), Il welfare aziendale: diffusione e prospettive nelle PMI1, mette in luce come per i consulenti le azioni legate al welfare siano sempre più ricorrenti nelle PMI (secondo il 62,8% degli intervistati), in particolare nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est.
Tra le misure più comuni e diffuse ci sono quelle riguardanti il sostegno economico e l’integrazione alla retribuzione: buoni pasto, buoni benzina, buoni spesa/shopping. Risulta invece molto inferiore il ricorso al rimborso per le utenze domestiche, introdotto dalle normative più recenti per far fronte al caro energia, all’assistenza sanitaria integrativa, alla previdenza complementare, alle spese per il trasporto, per l’infanzia e per l’assistenza familiari.
Per quanto riguarda le motivazioni che spingono le imprese ad investire nel welfare, secondo i consulenti intervistati a prevalere è la presenza di incentivi fiscali: il 64,2% del campione di intervistati afferma che questi sono determinanti. Ma anche la volontà di fornire un sostegno economico a lavoratori/trici è una motivazione rilevante: il 47,2% la reputa “determinante”, il 45,8% “abbastanza importante”.
Inoltre per il 64,2% dei rispondenti nel triennio 2024-2027 ci sarà un aumento considerevole di queste misure tra le aziende.
Fare welfare in rete: il caso dei distretti industriali
Come si può vedere, dunque, il welfare è sempre più interessante per le PMI. I progetti realizzati sono però incentrati prettamente su strumenti economici, come i fringe benefit. Ma, quindi, è possibile costruire qualcosa di più?
Una strada potrebbe essere quella delle reti. Esistono infatti tanti progetti che, grazie alla creazione di reti e collaborazioni strutturate tra imprese, si propongono di incentivare l’azione di politiche aziendali di welfare e conciliazione vita-lavoro. Vi abbiamo spesso raccontato di interventi territoriali come quello del Distretto della Bassa Romagna in provincia di Ravenna, il progetto Valoriamo nelle province di Lecco e Sondrio e Oristano Welfare in Sardegna; oppure di esperienze come quella del progetto Welfare di Marca nelle Marche o della rete WellDone di Parma.
Come fare welfare aziendale territoriale: il caso di Welfare di Marca
Opportunità interessanti possono nascere anche dai distretti industriali, cioè quelle aree territoriali, geograficamente delimitate, in cui vi è un’elevata concentrazione di piccole imprese caratterizzata da una forte specializzazione produttiva. A questo riguardo, secondo il report Economia e finanza dei distretti industriali, curato da Intesa Sanpaolo, i distretti consentono di avere più possibilità di garantire misure di welfare. In particolare, stando ad un’analisi che ha coinvolto un campione di 2.000 imprese, il fatto di far parte di un distretto industriale aumenterebbe di 2 punti percentuali la possibilità di investire nel welfare: tale divario sale addirittura a 10 punti percentuali quando si considerano le micro imprese, che nei distretti sembrano imitare i comportamenti virtuosi su questi temi delle imprese più grandi, di cui molto spesso sono partner strategici.
La capacità di fare rete sembra garantire quindi una maggiore (e migliore) diffusione del welfare tra le imprese. Grazie alle reti si facilita la diffusione di tali pratiche nelle organizzazioni che da sole – per dimensioni o per settore di appartenenza – incontrano maggiori difficoltà a investire sul welfare aziendale. Il caso dei distretti ne è un esempio concreto. Grazie alla presenza di legami e aggregazioni territoriali e produttivi, le imprese riescono a collaborare, condividere costi e rischi, far circolare le competenze e, quindi, condividere le opportunità che il welfare può generare.
Note
- Lo studio ha coinvolto 1.760 consulenti attraverso la somministrazione di un questionario a struttura chiusa via CAWI nei mesi di aprile-giugno 2024.