Sono lontani i tempi in cui, sulle note di We are the world, veniva lanciata la prima campagna mondiale che accendeva i riflettori sulla fame nel mondo, dove per mondo tuttavia si identificavano terre lontane, nel caso specifico del continente africano. Poi l’avvento della globalizzazione ha portato il problema della fame più vicino, ma sempre come un problema in qualche modo estraneo, tipico di persone provenienti da paesi difficili, afflitti da guerre, conflitti sociali e povertà. Poi è arrivata la crisi e anche i paesi europei si sono scoperti “affamati”, costretti a rimettere in discussione l’efficacia del proprio modello di welfare ma anche di lavoro, visto che tra gli “affamati” sono sempre più numerosi i working poor.
Il quadro europeo
La povertà alimentare in Italia è in forte aumento. Si tratta, tuttavia, di un fenomeno che non riguarda solo il nostro Paese – uno dei più colpiti dalla crisi economica – ma che sembra diffondersi in tutta Europa, anche nelle economie più solide. Il Rapporto sulla crisi economica in Europa pubblicato il 10 ottobre dalla Federazione internazionale della Croce Rossa riporta infatti che nel nostro continente 43 milioni di cittadini non dispongono di sufficienti risorse alimentari, tanto che il numero di coloro che ricevono aiuto dai Comitati locali dell’organizzazione è aumentato del 75% dal 2008 al 2012, a causa non solo della disoccupazione, ma anche dell’aumento dei working poor.
In Germania, il “colosso” dell’Unione monetaria, negli ultimi cinque anni il numero delle persone che si sono rivolte alle banche alimentari e alle mense per i poveri è raddoppiato fino a raggiungere la cifra di 1,5 milioni di persone.
Secondo i dati presentati il 19 dicembre dall’organizzazione Paritätischen Gesamtverbandes durante la Conferenza nazionale sulla povertà, dal 2006 ad oggi le persone che vivono sotto la soglia di povertà (848 euro al mese per un single, 1.278 euro per le coppie) sono aumentate dal 14 al 15,2 percento. Contemporaneamente il ceto medio si sta contraendo, passando dal 65 al 58 percento, il che significa che ha perso cinque milioni di persone in meno in 15 anni. In particolare, sempre più studenti – che hanno, in media, un reddito mensile di 864 euro, che, in base ai criteri dell’Ufficio federale di statistica, fa sì che vengano considerati “a rischio povertà – si rivolgono alle banche alimentari. Se a questi numeri aggiungiamo l’attesa ondata migratoria proveniente dall’est Europa, è comprensibile perchè le organizzazioni di carità fatichino a dar da mangiare a tutti, tanto che alcune di esse, per sopravvivere, hanno iniziato a fare pagare un piccolo contributo agli utenti.
Molte sono le cause, al di là dell’aumento degli utenti, che complicano le loro attività: le donazioni pubbliche e private non sono più sufficienti a mantenere in vita il sistema, a pagare cioè il cibo, gli affitti dei locali, il trasporto delle merci. Al contempo, le grandi catene di supermercati, come i piccoli negozi, hanno migliorato la pianificazione delle scorte facendo diminuire le eccedenze alimentari (pane di giornata, frutta ammaccata e prodotti dalle confezioni rovinate o in scadenza) che vengono girate alle organizzazioni, le quali ricevono quindi sempre meno prodotti dall’esterno.
Non va meglio in Francia dove, secondo l’Institut national de la recherche agronomique (INRA), il 12,2% degli adulti – circa 6 milioni di persone – si trovano in condizioni di insicurezza alimentare per ragioni finanziarie. Un numero che sarebbe di molto superiore a quello di coloro che effettivamente ricorrono ai banchi alimentari, indice di quanto ancora questo tipo di aiuto sia accompagnato da un forte timore di essere “stigmatizzati”. D’altronde il 6% dei Francesi a rischio alimentare vive però al di sopra della soglia di povertà, ed è quindi ricompreso nei nuovi poveri, meno avvezzi a richiedere assistenza. La componente maggiore, in particolare, è composta da donne single più giovani della media della popolazione. L’alimentazione è divenuta una variabile d’aggiustamento del budget familiare, con ripercussioni negative sulla qualità dell’alimentazione e quindi della salute. Un’inchiesta di Insee condotta nel 2011 ha dmostrato che il 16%, +5% rispetto al 2005, in caso di aumento del reddito lo destinerebbe all’alimentazione.
Per enfatizzare l’attenzione sul problema, lo scorso novembre si è svolta la 29 campagna dei Restos du Cœur, rete di associazioni alimentari nata nel 1985 su impulso dell’attore Coluche – che oltre a distribuire pasti aiuta nella ricerca di una casa, di un impiego, ecc. Anche in Francia, infatti, l’aumento degli utenti avviene in parallelo al calo degli aiuti: – 8% dei donatori, prevalentemente operai e impiegati che donavano 50, 100 euro l’anno. Per comprendere le ragioni di questo calo, l’associazione ha avviato un’indagine ed ha scoperto che parte degli ex sostenitori hanno smesso di supportare l’associazione perché si trovavano essi stessi in difficoltà, a causa della perdita del lavoro o pensionamento.
La povertà alimentare cresce anche tra i working poor del Regno Unito. Cinque anni di crescita lenta, austerity e aumento dei prezzi hanno lasciato un segno: i redditi sono fermi – il salario orario medio è aumentato solo del 7% – , mentre il costo della vita è cresciuto di quasi il 20%, col risultato che almeno 500.000 persone, il triplo rispetto allo scorso anno e 20 volte in più del 2008, richiedono aiuti alimentari. Questo secondo il Trussell Trust, organizzazione religiosa che riunisce un network di più di 400 banche alimentari. Queste ultime, che nel Regno Unito distribuiscono cibo gratis o con forte sconto a persone generalmente indicate dalle agenzie governative, stanno diffondendosi anche in luoghi fino a poco fa caratterizzati da un benessere diffuso, come la zona a Sud di Londra e il quartiere londinese di Westminster.
La situazione peggiore si registra comunque più a Nord. Per farci un’idea, pensiamo che nella città di Hull, la città col maggior numero di sussidi di disoccupazione del Regno Unito – e dove più di un bambino su tre vive sotto la soglia di povertà -, il banco alimentare locale è supportato da un’associazione che fino a quattro anni fa forniva cibo esclusivamente ai paesi in via di sviluppo, mentre oggi mantiene l’80% degli aiuti in patria. Se la disoccupazione nazionale è scesa al 7,4%, sembra che la ripresa non abbia ancora toccato tutto il territorio, tanto che qui il 15% resta senza lavoro. Anche se il lavoro c’entra fino a un certo punto. A Bridlington – cittadina sulla costa dello Yorkshire che ha perso il suo splendore con l’avvento delle vacanze low cost nel Sud Europa -, ad esempio, 3 utenti su 4 lavorano, solo che non hanno stipendi sufficienti per autosostentarsi. A differenza che in passato, quindi, non parliamo più esclusivamente di un’utenza cronica: a volte il sostegno dura solo alcuni mesi, il tempo necessario per trovare un nuovo lavoro o perché gli uffici pubblici elaborino la richiesta di sussidio, altre volte la povertà è conseguenza di eventi imprevisti, come una malattia, o di poco conto, come la rottura di una tubatura.
Quali prospettive?
La povertà alimentare cresce in tutta Europa e colpisce anche economie forti, come quella inglese o tedesca. E’ evidente che il problema non può essere affrontato unicamente dalle associazioni caritatevoli che, come abbiamo visto, faticano sempre di più a evadere le richieste di aiuto, ma deve essere accompagnato da politiche che assicurino al lavoro il ruolo di “garante” dell’autonomia economica. Se è vero che l’aumento del numero di assistiti dalle organizzazioni alimentari alcuni anni fa è stato determinato dall’avvento di stranieri provenienti da paesi disagiati – prima dall’Est, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, poi dal resto del mondo – la recente “impennata” delle domande di sostegno è invece attribuibile alla crescita delle domande dei connazionali, i working poor che, un tempo identificati come “prerogativa” statunitense, stanno diventando sempre più comuni anche al di qua dell’Atlantico.
Riferimenti
Six millions d’adultes victimes d’"insécurité alimentaire", Catherine Rollot, Le Monde, 23 novembre 2013
Germania, raddoppia il numero di chi mangia grazie alle mense per i poveri, Marco Quarantelli, Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2014
As the Working Poor Become More Common in Britain, So Does Hunger, Katrin Bennhold, The New York Times, 2 gennaio 2014
Rapporto Annuale 2012-2013 di Restos du Cœur