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In Germania le ore lavorate per addetto sono in media 1.413 all’anno, molto meno che in Grecia (2.032), Italia (1.750), Portogallo (1.711) e Spagna (1.690). Il prodotto per ora lavorata è tuttavia molto più alto che nei quattro Pigs, uno dei più alti dell’area Ocse. La Grande Recessione ha colpito anche la Germania, ma la ripresa è già cominciata e la disoccupazione è al 5%. Qual è il segreto di questo invidiabile successo?

La risposta è complessa, fatta di molte luci ma anche di alcune ombre. La stabilità dell’euro e il divieto di svalutazioni competitive da parte dei tradizionali concorrenti (in primis l’Italia) sono stati una vera benedizione per le imprese tedesche e le loro esportazioni. Le riforme del mercato del lavoro avviate dal governo Schröder all’inizio dello scorso decennio hanno iniettato buone dosi di flessibilità e i sindacati hanno accettato una moderazione salariale quasi unica in Europa, così come riduzioni di orario al fine di salvaguardare l’occupazione.

Anche grazie all’euro e alle riforme Hartz, gli imprenditori hanno investito, soprattutto in nuove tecnologie, così incrementando la produttività. Le piccole e medie imprese, che fanno più fatica a finanziare ricerca e sviluppo, sono state assistite da un robusto sistema pubblico di sostegno all’innovazione. Il ricambio generazionale degli addetti ha poi immesso nelle imprese giovani sembra più preparati. Se fino ai 14 anni gli studenti tedeschi trascorrono meno tempo a scuola dei loro coetanei sud-europei, dopo la scuola dell’obbligo metà di loro imboccano percorsi formativi altamente professionalizzanti e basati sull’alternanza scuola-lavoro, sviluppando competenze preziose per l’industria e (molti) servizi. Il sistema «duale» d’istruzione ha tratto vantaggio da molti interventi di manutenzione nel corso dell’ultimo decennio, che hanno allineato quasi in tempo reale offerta e domanda di competenze professionali

La medaglia tedesca ha tuttavia anche un altro lato, un po’ meno virtuoso. In molti settori (professioni, commercio, finanza e assicurazioni) i servizi sono rigidi e chiusi alla concorrenza, dunque poco produttivi. Le riforme Hartz hanno poi fortemente accentuato la segmentazione occupazionale: la disoccupazione è diminuita, ma sono proliferati i posti di lavoro precari e i cosiddetti mini-jobs, che pagano intorno ai 500 euro al mese.

Nel comparto delle costruzioni, dei servizi alla persona, dei call center e così via la Germania sta diventando sempre più come i paesi anglo-sassoni: un esercito di working poor che entrano ed escono dal mercato, hanno basse qualifiche e poche prospettive di avanzamento professionale e mobilità sociale. L’unica differenza fra Germania e Pigs è che i precari tedeschi beneficiano di una rete di sicurezza (irrobustita negli anni duemila): sussidi statali universali abbastanza decorosi, che possono anche aggiungersi ai magri compensi dei mini-jobs. Il percorso tedesco ha sinora dato buoni frutti, sia rispetto ai Paesi periferici sia ad altri Paesi continentali come Francia, Belgio e (nell’ultimo biennio) l’Olanda.

La sostenibilità del nuovo Modell Deutschland dipende tuttavia da alcune condizioni, solo in parte dibattute in campagna elettorale. La prima è la stabilità dell’euro. All’opinione pubblica non è stato spiegato in modo sufficientemente chiaro il vantaggio enorme che la moneta unica ha portato all’economia tedesca, penalizzando quasi simmetricamente le economie più deboli. Fortunatamente i partiti l’hanno capito (tranne Alternative für Deutschland ) e nessuno vagheggia più di abbandonare i Pigs al loro destino. La crisi dell’euro non è però finita, dopo le elezioni la Germania dovrà chiarire la propria posizione strategica su tanti dossier: dall’Unione bancaria ai meccanismi di sostegno finanziario fra Paesi Membri.

Un governo di Grande Coalizione potrebbe essere il più adatto a lanciare una convinta campagna pedagogica (e di trasparenza) nei confronti dei cittadini sull’importanza dell’euro per la Germania. L’altra delicata condizione è che il dualismo del mercato del lavoro non peggiori, anzi possibilmente si attenui. Qui la sfida principale è la liberalizzazione dei servizi: solo l’apertura alla concorrenza spingerà le imprese operanti in questo settore a modernizzarsi e articolarsi, creando nuova occupazione flessibile ma «buona», dal punto di vista sia delle qualifiche sia delle retribuzioni.

Anche ulteriori riforme del welfare potrebbero giovare, soprattutto nel campo dei servizi sociali e di conciliazione. Nel bilancio pubblico tedesco vi sono margini per incrementare un po’ la spesa. Misure in questa direzione avrebbero anche il vantaggio di sostenere e stimolare una maggiore occupazione femminile. In campagna elettorale i temi del welfare sono stati molto discussi; la liberalizzazione dei servizi molto meno. Ma è proprio su questo fronte che il nuovo governo di Berlino dovrà rimboccarsi le maniche e fare, con diligenza, i suoi compiti a casa.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 19 settembre

 

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