L’economia europea registra timidi segnali di ripresa e, secondo l’Istat, ciò vale anche per l’Italia. Ripartiranno anche le assunzioni? Tutti ce lo auguriamo, ma non è scontato che sia così. Negli anni Novanta, l’Europa soffrì a lungo di una brutta malattia, la cosiddetta jobless growth: crescita senza occupazione. Dobbiamo evitare che succeda di nuovo, soprattutto nel nostro Paese, anello debole della zona euro.
Le categorie più a rischio sono note: giovani, donne, lavoratori più anziani. Per le prime due, sinora si è fatto poco, come attestano gli altissimi tassi di disoccupazione e di inattività. L’emergenza più acuta è l’esercito (più di due milioni) di ragazzi e ragazze che non fanno nulla: non vanno più a scuola e non cercano lavoro. Per quanto riguarda i più anziani, lo strumento principale è stata finora la cassa integrazione (in deroga), che però si limita a prolungare un limbo di inattività sussidiata, spesso senza prospettive.
Il Parlamento ha appena approvato il «decreto lavoro», rivolto principalmente ai giovani. Il piatto forte sono gli sgravi contributivi alle imprese che assumono disoccupati sotto i 29 anni, senza diploma. Sembra che molte imprese siano interessate e le stime parlano di 100 mila nuovi posti di lavoro. Sarebbe un (piccolo) successo, ma forse il governo è troppo ottimista: l’efficacia netta di questo tipo di incentivi è dubbia. L’esperienza degli altri Paesi segnala inoltre che la via maestra per aiutare i giovani senza esperienza né qualifiche passa per le politiche di formazione e i servizi per l’impiego. Il premier Letta e il ministro Giovannini lo sanno bene. Per questo è importante sfruttare al meglio il programma «garanzia per i giovani», cofinanziato dalla Ue a partire dal 2014 e incentrato proprio sulla transizione scuola-lavoro. In autunno sarà senz’altro necessaria una più ambiziosa e incisiva «fase due», che affronti anche la sfida del lavoro femminile (incentivi specifici e servizi) e della disoccupazione fra gli anziani (politiche di invecchiamento «attivo», con la collaborazione delle imprese).
Per far sì che la ripresa porti nuovo lavoro occorrono anche politiche capaci di rianimare i comparti occupazionali che sono stati più colpiti dalla crisi: non solo l’industria delle piccole e medie imprese, ma anche i servizi. In altri Paesi il settore terziario ha «tenuto» più che in Italia. Per fare solo un esempio, in Spagna l’occupazione giovanile in attività turistiche, socio-sanitarie e culturali è oggi più alta di tre punti percentuali rispetto all’Italia: fatti i conti, significa circa 400 mila posti in più. Il mercato del lavoro spagnolo è messo peggio del nostro; quanto a turismo e cultura, l’Italia non dovrebbe avere rivali al mondo. Quali sono i colli di bottiglia che ci impediscono di sviluppare i servizi e il loro potenziale di occupazione, soprattutto al Sud? Bisogna approfondire questo tema, senza illudersi che la (auspicabilissima) ripresa dell’industria possa da sola risolvere l’emergenza lavoro.
Il governo ha promesso che non andrà in vacanza. Il primo appuntamento utile per rilanciare il binomio crescita-lavoro è la legge di stabilità, prevista per settembre. Sarà quello il momento per definire obiettivi e risorse. Sempre che nel frattempo non sia stata minata, irreversibilmente, la stabilità del governo, con gli esiti economici che ben si possono immaginare.
Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 10 agosto