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Flessibilità, incentivi, sgravi fiscali, decontribuzioni, contratti di formazione. Per contrastare la disoccupazione giovanile negli ultimi 15 anni abbiamo sperimentato un ventaglio amplissimo di misure, con ben scarsi risultati. Questo fallimento è in parte collegato al modo in cui sono stati disegnati e attuati i vari strumenti, con improvvisazioni e approssimazioni, senza seri esercizi di previsione e soprattutto di valutazione ex post. Ma il nodo di fondo è un altro: a dispetto delle mille leggi e leggine che lo imbrigliano nel suo quotidiano funzionamento, il nostro mercato occupazionale non è «governato», in particolare su quei fronti che sono cruciali per l’occupazione giovanile. Manca infatti una strategia capace di anticipare e stimolare la domanda di nuovi lavori da parte del sistema produttivo, di incentivare la formazione delle corrispondenti competenze da parte del sistema educativo e di gestire in modo efficace la transizione scuola-lavoro.

Nel prossimo decennio in Europa la nuova occupazione riguarderà essenzialmente i lavori "bianchi" (servizi sanitari e sociali, istruzione e formazione), quelli "verdi"(energie rinnovabili, ambiente) e quelli digitali (produzione e utilizzo di tecnologie della comunicazione e dell’informazione). In Italia dovrebbero continuare a crescere anche alcune tipologie di lavoro manifatturiero e neo-artigianale, mentre potrebbero espandersi in misura significativa le filiere in cui abbiamo un naturale vantaggio competitivo: cultura e turismo. Stimolare lo sviluppo e la modernizzazione di questi settori è il miglior modo per assicurare una job-rich growth e durevoli prospettive occupazionali ai giovani. Come già avviene da tempo in altri Paesi, tutte le politiche pubbliche dovrebbero concentrarsi su questo obiettivo, a livello sia nazionale sia locale. Sotto il governo Monti si è cercato di istituire qualche collegamento fra interventi per lo sviluppo economico e la coesione territoriale, da un lato, e politiche per l’occupazione giovanile dall’altro (pensiamo agli incentivi per le cosiddette start-up). È fondamentale proseguire su questa strada, evitando di regredire verso le tradizionali misure «a pioggia», non selettive e non monitorate.

La creazione di nuovi posti e tipi di lavoro richiede uno sforzo massiccio sui fronti della formazione e più in generale dell’istruzione. Nei Paesi germanici, scandinavi e anglosassoni i raccordi scuola-impresa sono strettissimi e spesso formalizzati dalla costituzione di partnership locali o settoriali. Nell’ultimo decennio sono state effettuate interessanti sperimentazioni anche in Italia, ma senza la capacità di fare sistema. La riforma Fornero ha puntato molto sull’apprendistato. Ma non illudiamoci che per farlo decollare bastino incentivi fiscali o normativi. Occorre un faticoso lavoro politico-organizzativo ad ogni livello e servono investimenti da parte di moltissimi attori (enti pubblici, imprese, fondazioni, camere di commercio e così via).

Negli anni duemila, per rilanciare l’apprendistato, il governo tedesco ha siglato tre grandi «Patti nazionali per la formazione» con vari attori del mondo produttivo; l’economia tedesca impiega ogni anno 23 miliardi di euro in questo settore. Se il governo riesce a trovare nuove risorse, sarebbe meglio investirle su questo fronte piuttosto che sulla staffetta generazionale (misura di efficacia incerta, anche sulla base delle esperienze di altri Paesi). Infine, occorre considerare i servizi per l’impiego, ossia l’insieme di strutture pubbliche e private che devono aiutare i giovani (anche se non solo loro) a inserirsi nel mercato del lavoro. Questa è la nota più dolente della situazione italiana. Su cento giovani in cerca di occupazione, solo venti in Italia si rivolgono ai servizi per l’impiego, di contro a cinquanta circa in Gran Bretagna e 77 in Germania. Fra i laureati, la percentuale italiana scende sotto il 10. La ragione è presto detta: la maggioranza di queste strutture funzionano malissimo. I funzionari sono pochi, spesso poco motivati, incapaci di fornire consulenza efficace. In giro per l’Europa vi sono diversi modelli di organizzazione dei servizi per l’impiego (l’Olanda ha recentemente deciso la loro completa privatizzazione). Ma nessun Paese può fare a meno di questi servizi, che peraltro assorbono quote di Pil (Prodotto interno lordo) tre o quattro volte superiori a quelle italiane.

Il ministro Giovannini ha annunciato ieri un pacchetto di misure contro la disoccupazione giovanile: modifiche della riforma Fornero, staffetta generazionale e passi verso quella Youth Guarantee esplicitamente raccomandata dalla Ue, ossia l’impegno a garantire a ogni giovane un’offerta di lavoro, apprendistato, tirocinio o proseguimento degli studi entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dalla scuola. L’unica misura di respiro strategico mi sembra la "garanzia giovani". È chiaro che si tratta di un impegno troppo ambizioso per il breve periodo. Ma se esso diventasse uno degli obiettivi centrali della politica del governo (con un progetto da realizzare gradualmente) disporremmo finalmente di un perno attorno al quale riorganizzare la triade «impresa-scuola-lavoro» in modo da avere più crescita, più occupazione e nuovi profili professionali da offrire ai nostri giovani.
 

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 21 maggio 2013