Nuovi interventi a favore di pensionati e cassintegrati. Misure per l’occupazione, più risorse per la lotta alla povertà. L’elenco delle richieste che implicano maggior spesa si sta allungando rapidamente in vista della prossima Legge di Stabilità.
L’economia cresce poco, gli effetti sociali della crisi si fanno ancora sentire, le aspettative di protezione pubblica sono comprensibili e legittime. Poiché non viviamo nel mondo dei sogni, occorre tuttavia darsi delle priorità. Fermo restando l’impegno a sostenere i più bisognosi, l’obiettivo da privilegiare è il rilancio dell’occupazione giovanile. Senza lavoro e senza reddito, i giovani non possono diventare autonomi e la società italiana perde dinamismo e vitalità, anche sul piano demografico. Inoltre – e questo è il fattore decisivo – se non aumentano gli occupati avremo difficoltà crescenti a finanziare il welfare. Fare in modo che le imprese private tornino ad assumere è dunque l’urgenza numero uno.
Il Jobs Act ha dimostrato che lo strumento più efficace per avere risultati positivi e immediati è la decontribuzione. Nei Paesi che l’hanno sperimentata, la riduzione degli oneri sociali ha sempre condotto alla creazione di nuovi posti di lavoro. C’è però un problema: tagliare i contributi crea un buco di bilancio, soprattutto se (come è giusto che sia) il taglio è strutturale, ossia permanente. L’unica soluzione è quella di trasferire gli oneri dalle retribuzioni ad altre basi imponibili, anche a parità di gettito.
L’esempio più riuscito di questa strategia è quello francese. Nei primi anni Novanta (più o meno in corrispondenza con l’adozione del reddito minimo garantito), questo Paese introdusse un «contributo sociale generalizzato» su ogni tipo di reddito, dalle pensioni agli interessi sul capitale. Inizialmente pari all’1,5%, l’aliquota è stata via via innalzata e oggi è al 7,5% (quasi 100 miliardi l’anno). Nel programma di Macron è previsto un ulteriore aumento di 1,5 punti, che consentirebbe di abbassare gli attuali contributi sulle retribuzioni di 3 punti e più. È quasi superfluo precisare che la misura è volta alla creazione di nuovi posti di lavoro. Anche il Belgio ha recentemente avviato una ambiziosa strategia di riduzione degli oneri sociali. Qui i buchi di bilancio saranno colmati da un mix di misure che va dall’aumento dell’Iva su alcuni prodotti a una nuova «tassa sulle speculazioni finanziarie».
Il governo Gentiloni sta seriamente riflettendo su quale potrebbe essere la via italiana, partendo da sgravi riservati ai giovani neo-assunti. Non è ancora chiaro come sarà coperto il buco finanziario. Il rischio è che si ricorra a misure disparate all’interno del calderone fiscale, di incerta affidabilità nel medio-lungo periodo.
Perché non adottare la soluzione francese, con la stessa gradualità temporale? Il finanziamento del nostro welfare necessita da tempo di una incisiva razionalizzazione. Nella sua ultima Relazione Annuale, il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha ben spiegato che la cosiddetta separazione fra previdenza e assistenza perseguita negli ultimi anni è solo una finzione contabile. In realtà quasi tutte le pensioni previdenziali sono in parte alimentate da sussidi impliciti. L’introduzione di un contributo sociale generalizzato si giustificherebbe anche in termini di equità, oltre che sul piano degli incentivi all’occupazione.
Purtroppo il nesso fra oneri sociali e lavoro dei giovani non è oggi adeguatamente percepito e compreso dall’opinione pubblica. Eppure si tratta del principale nodo da sciogliere per spezzare il circolo vizioso «alti contributi-bassa occupazione» che mina nel profondo la sostenibilità del nostro modello sociale. C’è un modo per sollecitare la consapevolezza di questa sfida e il sostegno a misure che spalmino il finanziamento del welfare su tutti i tipi di reddito?
Provo a formulare una proposta: un cinque per mille (o anche due, per cominciare) a favore del lavoro dei giovani, da usare per la decontribuzione. Gli italiani hanno preso dimestichezza con questo strumento, hanno imparato a usarlo nelle dichiarazioni dei redditi e sanno a cosa serve. Naturalmente, nella mia proposta, il «cinquexmille giovani» dovrebbe essere oneroso, ossia a carico effettivo del contribuente. Se spiegata e comunicata in modo efficace, una simile operazione potrebbe comunque avere un qualche successo. Come minimo, aiuterebbe a far passare l’idea che senza uno sforzo collettivo di solidarietà fra generazioni e fasce di reddito, finalizzato a creare più posti di lavoro, il nostro benessere ha davvero gli anni contati.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 9 luglio e qui riprodotto previo consenso dell’autore