Il nuovo Quaderno della Fondazione Marco Vigorelli (FMV), curato da Guglielmo Faldetta e Alessia Gabriele, si interroga sul modo in cui la contrattazione collettiva aziendale possa sostenere e incrementare gli strumenti di conciliazione vita-lavoro già presenti a livello legislativo e a livello di contrattazione collettiva nazionale. Per rispondere a questo interrogativo il Quaderno affronta il tema da una duplice prospettiva di analisi – quella dell’organizzazione aziendale e quella del diritto del lavoro – ampliando la riflessione fino a coinvolgere le politiche legislative riguardanti le attività di cura e il sostegno ai servizi per la famiglia.
Il Quaderno si articola in due parti. La prima è dedicata ai contributi dottrinali che si pongono come obiettivo, da un lato, la descrizione e l’analisi critica dello stato dell’arte dei rispettivi settori disciplinari in materia di conciliazione vita-lavoro (rispettivamente: le questioni lavoristiche trattate da Cinzia De Marco e gli ambiti organizzativi per Rocco Palumbo e Massimiliano Pellegrini) e, dall’altro, l’identificazione dell’effettiva presenza di strumenti di conciliazione in alcuni casi di contrattazione collettiva aziendale (contributo di Deborah Gervasi e Marcella Miracolini). Nella seconda parte – di taglio più esperienziale in linea con la vocazione teorico-pratica dei Quaderni FMV – sono stati intervistati interlocutori che, per la loro posizione “privilegiata”, potessero offrire “dei punti di vista complementari, ma tutti ugualmente necessari per comporre il difficile puzzle dell’indagine sugli strumenti di conciliazione”.
I contributi del Quaderno di Fondazione Marco Vigorelli
Il contributo di Cinzia De Marco, in una prospettiva multilivello, descrive l’excursus normativo seguito dall’Unione europea che ha trasformato le misure di conciliazione da strumento per promuovere la parità di genere a strumento per supportare una più equa condivisione tra padri e madri dei compiti di cura e di accudimento della famiglia. Negli ultimi vent’anni le istituzioni europee hanno dedicato grande attenzione alla prospettiva dei congedi, e poi, più recentemente, a un riordino complessivo della disciplina, con l’emanazione della Direttiva n. 2019/1158/UE, destinata a essere attuata nel prossimo biennio. Il riferimento centrale, oltre che alle direttive, va anche al Pilastro Europeo dei Diritti Sociali proclamato nel vertice sociale per l’occupazione e la crescita di Göteborg del 17 novembre 2017, da cui ha preso avvio un nuovo corso volto a favorire più eque condizioni di vita e di lavoro, seguendo anche il cosiddetto gender mainstreaming. Tuttavia, nonostante l’impulso comunitario sia stato forte e anche in Italia il quadro regolativo sia mutato, l’autrice sottolinea come “il traguardo del work-life balance” paia nel nostra Paese “ancora lontano da raggiungere”.
Il secondo contributo, di Rocco Palumbo e Massimiliano Pellegrini, ha come oggetto il tema dello smart working e indaga in particolare gli effetti che il lavoro da remoto ha sulla conciliazione vita-lavoro. Lo studio si muove dalla sostanziale divergenza evidenziata dalle ricerche effettuate da altri studiosi sul tema, per i quali il lavoro a distanza avrebbe conseguenze sia positive sia negative sull’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro. L’esito dell’indagine empirica effettuata dagli autori su un campione di 33.549 individui evidenzia come il ricorso a forme di lavoro da remoto, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, risulti essere legato da una relazione negativa al bilanciamento vita-lavoro. Emerge così tutta la complessità del fenomeno indagato, che richiede dunque l’adozione di specifici accorgimenti negli schemi contrattuali utilizzati per lo smart working, al fine di ridurre gli effetti collaterali che il lavoro agile potrebbe generare sui lavoratori, in considerazione dell’inevitabile contaminazione tra momenti di vita e momenti di lavoro che esso determina.
Il terzo e ultimo contributo della prima parte, di Deborah Gervasi e Marcella Miracolini, si è occupato di investigare se e in che modo il livello aziendale di contrattazione sia in grado di produrre effettivi incrementi nell’insieme degli strumenti di conciliazione dei lavoratori, rispetto alle previsioni del contratto nazionale e quindi anche rispetto ai margini lasciati aperti dal legislatore. A partire da una indagine condotta su una selezione di contratti aziendali, i risultati hanno dimostrato che a fronte di una contrattazione collettiva nazionale quasi del tutto aderente al dato normativo, esistono, seppure non siano numerose, delle esperienze aziendali virtuose di contrattazione. L’esito della ricerca conferma che, nei casi in cui la contrattazione collettiva è presente in azienda, proprio nel contratto collettivo si può rinvenire lo strumento principale per consentire che “le politiche di conciliazione si inverino nell’ambito della vita personale e lavorativa delle persone”.
Best practice e esperienze nel campo della conciliazione vita-lavoro
Come abbiamo anticipato, la seconda parte del Quaderno è dedicata alle esperienze. Qui trovano posto tre interviste: a Tiziano Treu, Presidente del CNEL; a Ivana Galli, Segretaria CGIL Nazionale, con delega alla contrattazione; a Maria Elena Manzini, CSR Manager di CIRFOOD e a Cristina Rossetti, Welfare Specialist di CIRFOOD. Gli interlocutori sono stati selezionati proprio per proporre un dialogo a più voci tra il mondo delle istituzioni, quello sindacale e quello delle aziende. Dalle testimonianze raccolte si evince come, nel complesso, quello della conciliazione vita-lavoro sia un tema ancora in pieno sviluppo e che i modelli virtuosi, che pure esistono in Italia, siano ancora poco istituzionalizzati e riconducibili prevalentemente alle “buone prassi” aziendali.
Secondo Tiziano Treu, a livello di contrattazione il ruolo fondamentale è rivestito dall’àmbito territoriale (o di prossimità), perché “per le aziende, in questo campo, più che l’aspetto economico è in gioco il modello di organizzazione aziendale”. La vera sfida non si gioca a livello nazionale, sia contrattuale sia legislativo, ma – in una prospettiva di sussidiarietà orizzontale – impegna il ruolo degli attori istituzionali periferici e le parti sociali a livello territoriale. Il livello nazionale, invece, a cui compete un ruolo di regia e di inquadramento generale degli istituti (si pensi alla possibile attuazione della Direttiva 2019/1158/UE e al ruolo strategico che in futuro potrà svolgere lo smart working), ben poco può fare in termini di effettività.
La risposta delle parti sociali è rintracciabile nell’intervista a Ivana Galli. La prima considerazione che emerge è la conferma della difficoltà della contrattazione aziendale a diventare veicolo di progresso sociale nei diritti riguardanti l’area del welfare aziendale: e questo per la sua ancora scarsa diffusione e non certo “per una sua ontologica inadeguatezza”. Anzi, proprio nei casi in cui sono stati stipulati contratti collettivi, questi hanno alzato il livello della qualità del benessere delle relazioni tra lavoratori e impresa. Tuttavia, Ivana Galli segnala ancora la diffusione di prassi unilaterali da parte delle aziende che tendono a instaurare un rapporto “uno-a-uno” con i propri dipendenti, escludendo così la mediazione sindacale. Emerge quindi una generale tendenza “abbastanza conservatrice” delle relazioni industriali italiane, nonostante la presenza di “lodevoli eccezioni”, che impedisce un reale cambiamento di passo che provenga in modo spontaneo dal tessuto sociale delle aziende. Per questo l’intervista sottolinea la necessità che a livello istituzionale si pongano concretamente le condizioni per superare le barriere istituzionali e culturali che ancora sussistono e che non favoriscono una piena ed effettiva parità tra i generi.
Infine, l’intervista a CIRFOOD delinea una best practice frutto di un forte investimento aziendale in termini di progettazione e realizzazione effettiva del piano di welfare. Il modello di costruzione del welfare aziendale è stato gestito in via unilaterale dal management e tuttavia, nonostante sia confluito in un regolamento aziendale, a monte è stato “condiviso” con le organizzazioni sindacali. Sebbene non sia presente un sistema istituzionale di informazione e consultazione delle rappresentanze dei lavoratori, questi, in quanto soci, sono stati infatti coinvolti nelle diverse fasi di progettazione.
Liberare il tempo per restituirlo alle persone
I curatori del Quaderno, Guglielmo Faldetta e Alessia Gabriele, facendo sintesi delle diverse prospettive disciplinari e dei contributi individuano – nell’introduzione – l’obiettivo da raggiungere: “liberare il ‘tempo’ dai bisogni delegabili per restituirlo ai lavoratori e alle lavoratrici. Il tempo ‘liberato’ potrebbe così essere destinato alla cura, non solo materiale, delle relazioni familiari. Una cura senza la quale non si può pensare a uno sviluppo sociale delle persone e che non può prescindere pertanto da una ‘qualità elevata’ delle relazioni di lavoro”. Il nodo strategico da risolvere rimane però il modo operativo per raggiungere tale obiettivo. A questo proposito i curatori individuano nell’esperienza della Provincia Autonoma di Trento una best practice a livello istituzionale. Con il Libro Bianco “Le Politiche familiari e per la natalità. La famiglia risorsa del territorio”, approvato nel giugno 2009, il Trentino ha avviato un’iniziativa concreta di dialogo tra welfare aziendale e welfare istituzionale proprio sui temi del benessere organizzativo e della produttività aziendale. Un’esperienza esportabile anche in altri enti locali per mettere in circolo prassi virtuose in modo trasversale tra tutti i settori.
Il Quindi Quaderno FMV contribuisce insomma a tracciare un binario da percorrere per costruire strategie che in futuro facilitino la conciliazione tra vita personale e vita lavorativa a partire dall’individuazione del metodo da seguire: “un metodo che dovrebbe essere sinergico per ambiti di politiche legislative da adottare, per i livelli istituzionali di intervento, per il coinvolgimento degli attori sociali dal lato datoriale e da quello sindacale”.
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