Questo articolo è stato pubblicato sul numero 3/2018 di Solidea, pubblicazione curata dall’omonima Società di Mutuo Soccorso. |
Da più di un decennio in diversi settori – dall’economia al welfare – si stanno diffondendo pratiche collaborative finalizzate in particolare a due obiettivi: il primo è quello di produrre beni e servizi che non sono reperibili né attraverso il mercato né tramite il soggetto pubblico, o lo sono ma con modalità e caratteristiche differenti da quelle desiderate; il secondo è quello di favorire la coesione sociale.
Circoscrivendo l’analisi al welfare, diversi approcci sono stati teorizzati al fine discutere e ridisegnare i rapporti tra i corpi sociali, tra cui welfare societario (Donati 1993), welfare mix (Ascoli e Ranci, 2003), secondo welfare (Ferrera e Maino, 2012), welfare plurale radicale (Pesenti e Lodigiani 2013) e welfare generativo (Fondazione Zancan, 2013). Approcci che, pur basati su presupposti teorici, obiettivi finali, e forme di relazione/gerarchia tra gli attori sociali differenti tra loro, sono accomunati da uno stesso presupposto: l’apertura del welfare a soggetti esterni al perimetro pubblico e provenienti dalla sfera del mercato, delle associazioni intermedie e della famiglia (reti familiari e amicali). Nei tempi più recenti, a questi soggetti si sono aggiunti i cittadini, in forme istituzionalizzate o in forme “liquide”, flessibili e spontanee.
Un cambiamento profondo
Quali sono le motivazioni alla base di questo cambiamento? Da un lato ci sono ragioni pratiche: collettivamente riusciamo a procurare beni e servizi che da soli non saremmo in grado di permetterci, o ci costerebbero di più. È il caso, ad esempio, dei gruppi di acquisto popolare e solidale, in cui gruppi di persone effettuano una spesa collettiva al fine di risparmiare sui costi di acquisto ma anche di promuovere modelli alternativi di produzione e consumo. O delle nuove forme mutualistiche, o di alcuni servizi di welfare aziendale, in cui i singoli individui, aggregandosi, ottengono una migliore protezione verso rischi e bisogni. In altri casi si tratta di beni e servizi che il welfare statale non riesce più a offrirci a causa dei tagli alla spesa pubblica, o non è mai riuscito ad offrirci, imbrigliato dalle logiche del voto
Il vantaggio del welfare “dal basso” è infatti di essere prossimo agli individui e quindi meglio adattabile alle loro esigenze e preferenze rispetto a sistemi caratterizzati da una forte centralizzazione e standardizzazione. Tuttavia, è importante sottolineare che non si tratta soltanto di motivazioni di ordine pratico.
Verso il “welfare di comunità”
Le esperienze di welfare di comunità sono molto eterogenee e oscillano dalla semplice aggregazione della domanda a vere e proprie forme di mutuo aiuto, fino a forme di collaborazione attiva. L’idea sottostante questo approccio è che facendo leva sulle risorse (economiche, di tempo, di cura, di competenza) delle famiglie e delle comunità e mettendole in dialogo tra loro, si produca qualcosa più della somma dei singoli addendi (Pasquinelli 2018). Questo perché i beni e i servizi scambiati sono beni relazionali, cioè hanno un valore che consiste nell’essere in grado di modificare la relazione tra i soggetti convolti, attivando nuove forme di fiducia, di reciprocità, di responsabilità condivisa.
Inoltre, le pratiche di welfare di comunità determinano un cambiamento nel rapporto tra destinatari delle politiche sociali, decisori politici e fornitori di servizi. La crescente domanda di processi democratici nella costruzione di un nuovo welfare inclusivo che nasca “dal basso” si traduce infatti nella necessità di avviare un processo di co-produzione attraverso la partecipazione dei cittadini nella costruzione di servizi di pubblica utilità. Da cui si sviluppa l’idea di beni di comunità, quindi beni in grado di recuperare il senso comunitario della protezione sociale, essendo la logica del welfare definita proprio nell’offrire supporto a condizioni di fragilità individuale attraverso una mediazione collettiva (Gherardi e Magatti 2014).
Limiti e prospettive future
Insieme a nuove opportunità, il welfare di comunità porta anche molte sfide. Innanzitutto occorre che vengano individuati confini chiari per definire quelle che sono realmente esperienze di welfare comunitario, “etichetta” che viene utilizzata per classificare le esperienze più disparate, spesso in modo inappropriato. In secondo luogo, occorre migliorarne il monitoraggio: al momento gli studi sul welfare di comunità sono perlopiù descrittivi, raccontano genesi e principali caratteristiche delle sperimentazioni avviate, ma risultano ancora carenti sul piano quantitativo: di quanti progetti stiamo parlando, quante risorse muovono e quanti sono i destinatari coinvolti? Ad esempio, solo recentemente è stato pubblicato uno studio – realizzato da Housing Lab – che cerca di quantificare i casi di cohousing in Italia.
Lo stesso discorso vale per la valutazione degli effetti. Si tratta di un problema di facile comprensione, ma di difficile soluzione: quando i servizi sono erogati in modo standardizzato è relativamente semplice identificarli e valutarli. Più complesso diventa invece quando sono offerti da più soggetti, in modo informale oppure prevedendo obiettivi di carattere relazionale.
Ridisegnare il rapporto cittadino-istituzioni
L’applicazione di concetti quali condivisione e comunità nel campo dei servizi, inoltre, è una tendenza destinata a ridisegnare profondamente il rapporto cittadino-istituzioni e il modello di Stato sociale al quale siamo abituati. Il welfare comunitario prevede una sorta di ri-equilibrio nel rapporto diritti-doveri e, come si diceva sopra, sia parte dell’opinione pubblica che le recenti scelte politiche sembrano preferire il ritorno a strumenti “tradizionali”.
Da segnalare il rischio dell’insorgere di nuove ineguaglianze tra territori, sia tra città e provincia, ma soprattutto tra Nord e Sud. Pensiamo ad esempio alle esperienze di cohousing, di fatto assenti nell’Italia Centro-Meridionale (Fondazione Housing Sociale 2018), o al caso degli empori solidali, che nel Meridione sono numericamente inferiori, ma anche molto meno maturi dal punto di vista delle reti costruite e delle azioni intraprese (Maino, Lodi Rizzini e Bandera 2016). Infine, affinché il welfare di comunità possa risultare di successo è necessario che sia promosso anche tra cittadini con capitale economico e culturale modesto, soprattutto quando le pratiche collaborative si basano sull’utilizzo di piattaforme e nuove tecnologie.
Per approfondire
- Ascoli U., Ranci C. (2003), Il welfare mix in Europa, Carocci.
- Donati, P. (1993), La cittadinanza societaria, Bari-Roma, Laterza.
- Ferrera M. e Maino F. (2012), Quali prospettive per il secondo welfare? La crisi del welfare state tra sfide e nuove soluzioni, in Bray M. e
- Granata M., a cura di, L’economia sociale: una risposta alla crisi, Solaris, Roma.
- Fondazione Zancan (2013), Verso un welfare generative, da costo a investimento, Fondazione Zancan.
- Gherardi L. e Magatti M. (2014), Una nuova prosperità, Feltrinelli Editore.
- Housing Lab (2018), Cohousing. L’arte di vivere insieme, Altreconomia.
- Lodigiani R. e Pesenti L. (2013), Un welfare plurale “radicale” come via di innovazione socio-istituzionale oltre la crisi, in “Politiche sociali servizi”, n.1, Milano, Vita e Pensiero.
- Maino F., Lodi Rizzini C., Bandera L. (2016), Povertà alimentare in Italia: le risposte del secondo welfare, Il Mulino, Bologna.
- Orlandini, M., Rago, S., & Venturi, P. (2014), Coproduzione. Ridisegnare i servizi di welfare.
- Pasquilnelli S. (2017), Il Welfare collaborative. Ricerche e pratiche di aiuto condiviso, Irs, Milano.