Hanno forti legami con la comunità e il territorio, propensione all’imprenditorialità, tendono a coinvolgere i migranti nelle esperienze di impresa, investendo sul lavoro di rete e sulla cultura dell’accoglienza a livello locale. A partire da tre casi di studio, Giulia Galera sul numero 3/2016 di WelfareOggi propone l’identikit dei protagonisti della buona accoglienza dei migranti.
Non tutte le esperienze di accoglienza sono uguali
La crisi migratoria ha innescato un cortocircuito di idee, progetti e iniziative che hanno creato profonde divisioni nella popolazione e hanno spinto molte organizzazioni del terzo settore a espandere il proprio raggio di azione nel settore dell’accoglienza di rifugiati e richiedenti protezione internazionale. Numerose associazioni e cooperative sociali si sono attivate per sperimentare, in collaborazione con le comunità ospitanti, percorsi innovativi di accoglienza e inclusione attenti alle ricadute sulla comunità.
D’altra parte, anche per effetto dei meccanismi di selezione degli enti affidatari che in logica emergenziale generalmente non dedicano attenzione al modo in cui il servizio viene svolto, in questo ambito operano anche cooperative sociali e altre forme di impresa attratte dai profitti che le attività di accoglienza possono generare; profitti che si generano soprattutto quando le attività sono realizzate senza dedicare risorse a tutti gli aspetti che garantiscono un’accoglienza di qualità (Piazza 2016).
In generale, il grado di predisposizione delle comunità locali e la prevalenza o meno di una logica emergenziale sono alcuni degli aspetti di criticità che hanno fino a oggi condizionato le politiche e i modelli di gestione dell’accoglienza. Di fronte alla crisi migratoria le comunità locali si trovano spesso impreparate e profondamente lacerate al loro interno tra favore- voli e contrari all’accoglienza. Ne deriva uno spaccato del paese, e spesso di singoli territori, a macchia di leopardo con tracce di solidarietà spontanea e manifestazioni di profonda ostilità disseminate in maniera disomogenea. Complice la paura alimentata dalla disinformazione, paradossalmente la stessa forza propulsiva che in alcuni casi sostiene interventi di accoglienza diffusa e integrata, è in altri casi strumentalizzata per affermare l’esclusivismo comunitario e la sua presunta incorruttibilità identitaria.
Responsabile del rifiuto di molte comunità di ospitare richiedenti protezione internazionale non è tuttavia solo la “fabbrica dell’odio” messa in campo dai media e dai discorsi di alcuni leader politici, ma anche i numerosi esempi di cattiva gestione dell’accoglienza, in qualche misura giustificati dal presunto stato di emergenza in cui ci troviamo e che spesso si traduce nel seguire la strada delle economie di scala con la creazione dal nulla di centri popolati da un numero diffi- cilmente gestibile di ospiti e modelli di accoglienza low cost, incapaci di contrastare i rischi di esclusione e devianza sociale. Questi esempi di mala accoglienza hanno purtroppo finito per mettere in ombra le innumerevoli iniziative virtuose di solidarietà, caratterizzate dalla partecipazione di una pluralità di attori in rappresentanza delle diverse espressioni della società civile – associazioni, par- rocchie, gruppi di volontari, cooperative sociali – e dell’ente locale, che congiuntamente si adoperano per individuare soluzioni non solo abitative ma capaci di elaborare anche percorsi d’integrazione in ambito educativo, sociale e lavorativo.
E sarà proprio sul rapporto tra accoglienza, inclusione sociale e autonomia attraverso la co-progettazione di percorsi di inclusione sociale e lavorativa insieme alle comunità ospitanti che ci si soffermerà, anche facendo riferimento a alcuni esempi virtuosi in cui il soggetto responsabile dell’accoglienza opera per trasformare la sfida migratoria in opportunità di sviluppo per l’intera comunità. L’aspetto d’integrazione lavorativa, in particolare, è essenziale per l’autonomia delle persone accolte e non a caso molte cooperative sociali si sono attrezzate per facilitare l’inserimento al lavoro attivando percorsi di formazione professionale e in alcuni casi anche iniziative imprenditoriali in cui alcuni migranti hanno trovato occupazione e che comunque hanno avuto l’esito di collocare accoglienza entro una visione volta allo sviluppo del territorio.
La cooperativa sociale Cadore (Veneto)
Un esempio virtuoso è offerto dalla cooperativa sociale Cadore che, occupandosi di manutenzione ambientale e “turismo di comunità” nell’ambito del circuito Le Mat, da anni si adopera per inventare una nuova economia in un territorio storicamente marginale e soggetto a un processo di deindustrializzazione con effetti drammatici sull’occupazione locale a seguito del declino registrato dal distretto dell’occhiale bellunese.
La cooperativa nasce con l’obiettivo di offrire un’opportunità di reddito e di partecipazione attiva alla società, attraverso il lavoro, a persone che si trovano in una posizione di svantaggio sociale. Oltre all’impegno in ambito ambientale per migliorare l’attrazione turistica dell’area, questo progetto di turismo di comunità si propone quale occasione per mettere a frutto i saperi e le conoscenze, individuali e collettive, presenti nel territorio, rendere fruibili le originalità naturalistiche, ambientali, culturali e di architettura rurale presenti nel cadorino e, con questo, generare valore e valori attraverso una relazione di scambio residenti-viaggiatori.
In risposta all’arrivo di richiedenti protezione internazionale sul territorio bellunese, la cooperativa è passata dall’accoglienza di “viaggiatori” a quella di rifugiati, sperimentando un progetto di ospitalità diffusa che pone particolare attenzione alla formazione e all’inclusione sociale dei propri ospiti. Nonostante non disponga di molti mezzi, grazie alla sua capacità di fare rete con la Caritas locale, singoli volontari e il centro scolastico, la cooperativa ha inserito nell’attività di accoglienza azioni volte a facilitare l’occupazione delle persone ospitate. La cooperativa, da poco accreditata dalla Regione Veneto per i servizi al lavoro, facendo rete con altri attori locali, fornisce ai ragazzi gli strumenti necessari nella ricerca di un lavoro, facilita il loro inserimento nel tessuto locale ed elabora percorsi volti a “creare lavoro”. Tutti i ragazzi ospitati sono iscritti al centro per l’impiego di Pieve di Cadore e, quando si configurano i requisiti anagrafici, anche all’interno del programma europeo “Garanzia Giovani”.
Attualmente tre ragazzi stanno svolgendo un corso professionalizzante per addetto alla manutenzione e alla gestione del territorio presso la Scuola Edile di Sedico, finanziato dal suddetto programma. Questa esperienza consente ai beneficiari di acquisire conoscenze tecniche, ottenere un piccolo compenso economico e soprattutto un attestato riconosciuto su tutto il territorio nazionale e rappresenta un’opportunità concreta di integrazione nel tessuto locale.
A tutti i ragazzi è inoltre garantita la partecipazione a corsi di lingua italiana presso il CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione Adulti), che oltre a garantire l’apprendimento delle basi della lingua italiana promuove anche una conoscenza degli usi e costumi italiani e locali.
La cooperativa ha attualmente in carico 35 richiedenti protezione internazionale nelle comunità in cui opera (Pieve, Perarolo, Domegge, Valle di Cadore e Vallesina) di cui il nucleo più folto è ospitato nell’ex Convento del Santuario del Cristo, messo a disposizione della cooperativa dalla diocesi dove, nonostante il numero tutt’altro che esiguo di ospiti, non si è mai verificato alcun incidente. Nell’ultimo anno si è registr to un inserimento lavorativo per il periodo di una stagione turistica di un ragazzo richiedente protezione internazionale all’interno di una struttura alberghiera e sono in fase di start up alcune iniziative volte a favorire l’insegnamento di professionalità specifiche in ambito agricolo.
La cooperativa sociale K-pax (Lombardia)
Anche la cooperativa sociale K- pax di Breno in Val Camonica è riuscita nell’intento di realizzare un sistema di accoglienza diffusa in un contesto poco favorevole, qual è quello camuno, contraddistinto da una storia recente di chiusura e forte riconoscimento identitario della popolazione locale. Da un punto di vista ambientale e paesaggistico il territorio ha inoltre subito pesanti speculazioni edilizie e gli effetti devastanti di un inquinamento da industrie pesanti, che a partire dal 1945 hanno portato al graduale abbandono di molte attività agricole e pastorizie.
Grazie al sostegno di alcuni sindaci illuminati e numerose associazioni locali, negli ultimi dieci anni si è assistito a un graduale cambio di rotta a favore di una gestione delle risorse locali maggiormente solidale e attenta alla sostenibilità economica e ambientale del territorio. Ciò si è tradotto nel recupero di colture tradizionali, attività vitivinicole e di allevamento e in un impegno diretto degli enti locali nella gestione di un numero significativo di richiedenti asilo inviati in valle a seguito dell’emergenza nord-Africa.
A creare le premesse per la sperimentazione di un sistema di accoglienza alternativo è stata l’ospitalità fallimentare di 116 richiedenti asilo da parte di una struttura alberghiera a Montecampione nel 2011. L’isolamento, la mancata designazione da parte della Regione Lombardia di un ente affidatario per i servizi d’accoglienza integrata e la stessa mala gestione da parte del residence incaricato, creano le premesse per la sperimentazione di un sistema di micro-accoglienza diffusa all’interno delle singole comunità della valle, che vede coinvolti gli enti locali e un gruppo di operatori e volontari appartenenti al gruppo K-pax (questa esperienza è ben descritta in Erba P., Pennacchio E. & Turelli S., La Valle Accogliente, EMI 2015).
Come nel caso del Cadore, il sistema operativo proposto da Kpax si contrappone a quello dominante, volto a concentrare molte persone in un solo luogo, e propone un’integrazione graduale al di fuori di un sistema emergenziale. La cooperativa, che da due anni opera anche nell’ambito del circuito SPRAR di Brescia applicandovi la logica della micro-accoglienza nei quartieri, attualmente ospita 124 persone. Attraverso questo modello i nuovi ospiti riescono a relazionarsi con maggiore facilità con gli abitanti locali, che a loro volta si sentono meno minacciati. La cooperativa K-pax non si è fermata però alla sola accoglienza. Nel 2013 ha rilevato la gestione dell’Hotel Giardino, l’unico albergo in funzione a Breno, che si trovava in stato di decadenza. Il processo di riqualificazione e valorizzazione della struttura alberghiera ha consentito di garantire un’occupazione stabile a quattro migranti precedentemente accolti dalla cooperativa, riconosciuti come titolari di diversi gradi di protezione; aspetto da non trascurare è che due di loro appartengono alla categoria di estrema vulnerabilità psicologica o psichiatrica.
Ma questa iniziativa è significativa anche per l’impatto dell’hotel sull’economia di tutto il territorio camuno, connesso all’aumento di presenze turistiche che garantisce e alla conseguente valorizzazione delle attività artigianali e artistiche delle imprese locali. Grazie alla particolare attenzione posta all’impatto ecologico-ambientale attraverso la ricca offerta di prodotti biologici a km zero, l’hotel ha altresì ottenuto la certificazione Certiquality rilasciata dalla piattaforma EcoWorldHotel.
11eleven scenario pubblico (Sicilia)
È utile richiamare un altro progetto imprenditoriale, in cui la cucina è la chiave per l’integrazione sociale e interculturale, il ristorante 11eleven at Scenario Pubblico. Si tratta di un’iniziativa nata all’interno del Centro Produzione Danza di via Teatro Massimo a Catania, che dall’avvio, nell’ottobre 2014, ha sviluppato diverse linee di attività nel settore food anche attraverso un lavoro di rete su base locale e internazionale.
Il progetto nasce dall’esigenza di integrare rifugiati e minori stranieri che arrivano in Sicilia via mare senza genitori e che in numeri crescenti rimangono nei centri di prima accoglienza per mesi senza riuscire ad avviare dei percorsi di vita dignitosi. L’approccio prevede la formazione e l’avvio di percorsi di imprenditorialità sociale all’interno della cooperativa 11eleven per giovani stranieri e giovani italiani che vengono da situazioni di difficoltà o di disagio, affinché imparino a conoscersi, a rispettarsi e a lavorare insieme, apprendendo gli uni dagli altri e sviluppando un know how e prodotti unici sulla base dello scambio di esperienze e dei gusti in ambito culinario.
La cooperativa sociale che gestisce il ristorante caffetteria di Catania è stata fondata da cinque persone: una volontaria con alle spalle un percorso ultradecennale in programmi di lotta alla tratta di esseri umani e al traffico di migranti, due lavoratori adulti, di cui uno dotato di competenze specifiche nel settore della ristorazione e due minori stranieri non accompagnati (di cui uno è diventato socio una volta raggiunta la maggiore età) che sono stati tra gli ideatori del progetto. La cooperativa è contraddistinta da una base sociale eterogenea, che ha facilitato l’attivazione di una molteplicità di risorse umane e finanziare.
Lo start up della cooperativa è stato auto-finanziato grazie agli apporti dei soci che da tre sono passati a undici nel giro di dodici mesi. La cooperativa sociale si distingue per la sua capacità di fare rete con numerose organizzazioni del terzo settore che operano nell’ambito dell’accoglienza diffusa, dell’assistenza a soggetti deboli e della cooperazione allo sviluppo, a livello sia locale che nazionale e internazionale, tra cui OXFAM che ha recentemente co-finanziato il progetto pilota di Scuola-Laboratorio Interculturale 11eleven; CESVI, Accoglierete e L’Arcolaio, che hanno avviato insieme ad 11eleven un nuovo filone di attività produttive fondate sulla filosofia del fusion food. All’interno della cooperativa lavorano stabilmente sei soci lavoratori di cui uno inserito inizialmente quando minorenne come titolare di protezione umanitaria, un disabile, una persona affetta da disturbo dell’identità di genere, un ragazzo in recupero penale e altri profili di vulnerabilità. Sono anche attivi tre soci volontari, due soci ordinari e due soci sovventori.
La cooperativa ha inoltre avviato un programma di tirocini che offre formazione a otto ragazzi all’anno. L’impresa poggia sull’idea di creare un “ristorante del non spreco” (di qui 11: il comandamento dei nostri tempi, non sprecare) attraverso l’integrazione sociale e l’innovazione culinaria tra sapori siciliani e sapori di altre culture. Il motto è: “non sprecare cibo, talenti, opportunità, vite”. Attraverso la sperimentazione della Scuola-Laboratorio di cucina interculturale etnica e fusion, l’idea dei fondatori della cooperativa sociale che gestisce il ristorante è accompagnare i ragazzi, spesso minorenni e caratterizza ti da un profilo psicologico problematico o da vulnerabilità, in un percorso verso l’auto-imprenditorialità.
La cooperativa, che pone particolare attenzione alla formazione, sperimentando percorsi on-the-job, ha inoltre recentemente avviato un nuovo filone di lavoro all’interno del progetto Sapori Cult. Si tratta di un progetto di sperimentazione nel settore food volto anch’esso a creare ulteriori opportunità di formazione e integrazione per giovani italiani e stranieri attraverso il lavoro. Il progetto prevede lo sviluppo di due prodotti agro-alimentari di eccellenza utilizzando le tradizionali erbe degli Iblei (Sicilia) insieme a spezie e ingredienti della tradizione africana. Ideato insieme a l’Arcolaio, CESVI e Accoglierete, questo progetto propone una filiera di apprendimento e sperimentazione che inizia con la coltivazione delle erbe aromatiche e l’essicazione di frutti e verdure e prosegue attraverso l’esplorazione di accostamenti di sapori di tradizioni diverse, lo sviluppo di un brand e la commercializzazione dei prodotti su mercati locali e internazionali, e la presentazione di ricette fusion a esperti del settore e ai clienti della caffetteria ristorante 11eleven at Scenario Pubblico. Il progetto ha vinto un concorso nazionale nel 2015 ed è co-finanziato dalla Fondazione Unicredit.
Conclusioni
Da un’osservazione preliminare e dall’analisi dei tre casi studio selezionati emerge una forte divaricazione tra le imprese sociali autentiche, interessate a facilitare l’inclusione sociale e lavorativa di rifugiati e richiedenti protezione internazionale e quelle nate esclusivamente per sfruttare appieno il business dell’accoglienza.
Le prime hanno forti legami con la comunità e il territorio, sono contraddistinte da una spiccata propensione all’imprenditorialità che vede talvolta coinvolti gli stessi beneficiari nel loro percorso verso l’autonomia, fanno assegnamento sul lavoro di rete con altri soggetti del territorio, si adoperano per costruire una cultura dell’accoglienza a livello locale e sono, in generale, molto innovative. Questo grazie agli investimenti sostenuti in formazione e supervisione dei propri operatori, che garantiscono una maggiore qualità dei servizi, e alla co-progettazione di percorsi d’inclusione insieme alle comunità ospitanti che abbiano ricadute positive sull’economia locale. Le seconde non sono radicate a livello comunitario, spesso operano in aree lontane dai centri abitati per ridurre al minimo le interazioni con le comunità ospitanti, hanno un impatto discutibile sul territorio e, mandando spesso i propri operatori sul campo allo sbaraglio, offrono servizi di scarsa qualità. Ciò nonostante, queste ultime continuano a essere preferite dalle prefetture e a vincere le gare, ottenendo generosi guadagni grazie al numero significativo di persone ospitate e alla limitatezza dei servizi offerti.
Cambiare direzione è necessario e possibile, ma richiede, oltre che la maturazione nel senso sopra richiamato dei soggetti di terzo settore impegnati nell’accoglienza, anche la capacità della pubblica amministrazione di mettere in discussione le proprie procedure. A partire dalle modalità di coinvolgimento degli enti gestori, non necessariamente eliminando i confronti competitivi, ma modificando le regole che sovraintendono la decisione. Basterebbe che in sede di valutazione delle offerte si valorizzasse adeguatamente l’insieme dei servizi resi alle persone inserite e l’esperienza maturata nella gestione dell’accoglienza e dell’inserimento lavorativo di persone in difficoltà, nonché la capacità di fare rete con altri soggetti del territorio e mobilitare risorse comunitarie come i volontari.
Riferimenti