“Il Pil misura qualunque cosa, tranne ciò per cui vale la pena vivere (…)”, notissima – e sicuramente abusata – citazione tratta da un famoso discorso di Robert Kennedy che fornisce l’occasione per fare qualche ragionamento sul tanto discusso tema legato alla misurazione dell’impatto sociale, in questo periodo oggetto di grande dibattito.
Perché si parla tanto di misurazione e perché l’argomento è diventato così cruciale? Tutti vogliono misurare e c’è gran confusione sotto al sole. Diversi metodi, diverse organizzazioni ed è comprensibile che ciò crei, in questa fase, la necessità di fare ordine e chiarezza, ma anche il dibattito sulla opportunità, di per sé, di dare evidenza del risultato valoriale dell’attività di impresa, aspetto che non sembra generare un allineamento di visione fra studiosi, esperti ed operatori del mercato.
Lo ha detto molto bene Albert Einstein “Non tutto quello che conta può essere contato e non tutto ciò che si può contare conta”, dunque occorre mettere ordine.
Da argomento di nicchia, inizialmente quasi solo appannaggio degli enti non lucrativi, il tema è ormai parte integrate anche del lessico dell’impresa e della finanza mainstream. Tralasciando il dibattito globale sul “merito” degli strumenti in campo per valutare la qualità e la quantità dell’impatto, occorre prendere atto che la questione ha anche dei risvolti di carattere normativo con riferimento ad obblighi, adempimenti, sanzioni.
Guardando a questa tematica con la lente del giurista non si può non osservare come vi sia, innanzi tutto, una grande confusione anche lessicale dal momento che, nell’ambito dei provvedimenti che si occupano di questo argomento, termini come misurazione, valutazione, rendicontazione sono spesso utilizzati come sinonimi quando, invece, rappresentano e sottendono concetti ed approcci totalmente differenti, che a volte si esauriscono in semplici attività di labeling.
Non v’è dubbio che si tratti di una questione cruciale, che se da un lato può far emergere la vera dimensione sociale dell’impresa – a prescindere dalla forma giuridica adottata – dall’altro può dare evidenza di quei profili che, altrimenti, non potrebbero “essere contati”.
È del tutto evidente che la natura degli approcci e degli strumenti utilizzati non possano essere uniformati tramite interventi normativi – cosa che sarebbe addirittura controproducente – ma di certo la norma è utile a discernere il confine tra ciò che è mandatory e ciò che è voluntary. Se infatti sono numerosi i sistemi in grado di fornire una valutazione quali-quantitativa delle performance sociali e ambientali, il panorama è sicuramente molto variegato.
Volendo tuttavia analizzare la questione da un profilo puramente normativo, non sono poche le disposizioni che impongono alle imprese di dare evidenza dei risultati sociali e ambientali conseguiti. Ed è questo il perimetro dentro al quale dipanare questa breve riflessione, con l’obiettivo di avere una prima rassegna degli strumenti riferibili a questo ambito e che il nostro ordinamento già conosce.
Il Bilancio Sociale
La rendicontazione sociale è diventata un obbligo, per la prima volta, con l’approvazione del D.lgs. 115/06 che imponeva a tutte le imprese sociali ex lege di approvare il bilancio sociale; tale obbligo è stato ulteriormente valorizzato nell’ambito della Riforma del Terzo settore, in quanto esso riguarda, adesso, non solo le imprese sociali – disciplinate dal D.lgs. 112/17 -, ma anche tutti gli Enti del Terzo settore, con entrate superiori al milione di euro. Le imprese sociali e gli ETS sono quindi obbligati all’approvazione del bilancio sociale, che dovrà essere predisposto sulla base delle indicazioni contenute nel Decreto del 4 luglio 2019 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
All’interno delle menzionate linee guida è precisato che “il bilancio sociale deve essere visto non solo nella sua dimensione finale di atto, ma anche in una dimensione dinamica come processo di crescita della capacità dell’ente di rendicontare le proprie attività da un punto di vista sociale attraverso il coinvolgimento di diversi attori e interlocutori”; emerge molto chiaramente come si tratti di un obbligo di natura rendicontativa, utile a fornire anche evidenza dei risultati sociali, ambientali ed economici generati dalle attività svolte.
Occorre segnalare come ciò impatti anche sui sistemi di compliance, in quanto la rendicontazione sociale diventa, ora, parte integrante del modello organizzativo degli ETS, imponendo l’adozione di adeguati sistemi di controllo. Vale la pena ricordare come ai sensi dell’articolo 30 comma 7) del Codice del Terzo Settore l’organo di controllo dovrà esercitare “compiti di monitoraggio dell’osservanza delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale (…)”, ed attestare che il bilancio sociale sia redatto in conformità alle linee guida ministeriali.
La valutazione dell’impatto sociale
Rimanendo sempre nell’ambito della Riforma, dalla rendicontazione si passa poi alla valutazione, sulla base delle “Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo Settore” approvate con il Decreto del 23 luglio 2019.
La finalità delle linee guida è quella di “definire criteri e metodologie condivisi secondo i quali gli enti del Terzo Settore possono condurre valutazioni di impatto sociale, che consentano di valutare, sulla base di dati oggettivi e verificabili, i risultati raggiunti rispetto agli obiettivi programmati (…)”. Tuttavia, siamo di fronte ad un provvedimento che non interviene in maniera esplicita sul tema delle metriche, poiché precisa come gli ETS abbiano la possibilità di scegliere quelle più adeguate all’attività concretamente svolta.
Il Decreto si mantiene, dunque, nell’alveo della volontarietà e – al più – esso può rappresentare un punto di partenza per creare adeguati sistemi di misurazione. Forse, considerata la rilevanza e la centralità che il tema della misurazione ha assunto negli ultimi anni, il legislatore della Riforma avrebbe ben potuto prendere lo spunto di questa novità per dare maggiore impulso a questi strumenti, per supportare soluzioni dinamiche e competitive anche da parte degli ETS. Al contrario, il Decreto del 23 luglio 2019 sembra essere non più di un mezzo passo in avanti, poco consistente e non in linea con le reali e più innovative tendenze imprenditoriali e del mercato, mantenendosi, invece, in linea con molte altre scelte (e mezze scelte) di retroguardia fatte dal legislatore della Riforma.
Il Documento di descrizione di impatto sociale
Allontanandoci dal perimetro degli ETS, occorre tener conto anche dell’obbligo imposto alle start-up innovative a vocazione sociale, che al fine di ottenere e mantenere tale qualifica devono impegnarsi a dare evidenza dell’impatto sociale prodotto.
Tale impegno si sostanzia nella redazione di un “Documento di descrizione di impatto sociale”, rispetto al quale il Ministero dello Sviluppo Economico ha fornito delle indicazioni tramite la predisposizione della “Guida per startup innovative a vocazione sociale alla redazione del documento di descrizione dell’impatto sociale”.
All’interno del documento viene precisato come “Descrivere l’impatto sociale di un’organizzazione significa assegnare alle attività che questa svolge degli effetti più ampi e di lungo termine, effetti intesi come potenziali benefici o cambiamenti che l’intervento genera nella comunità in termini di conoscenze, attitudini, stato, condizioni di vita, valori. Allo stesso tempo, questi risultati devono essere tradotti in termini misurabili”.
Un obbligo, dunque, dal quale dipende il mantenimento della qualifica di SIAVS.
Lo standard di valutazione esterno
Un’altra categoria di soggetti obbligati a dar conto del proprio impatto sociale sono le società benefit, un modello imprenditoriale introdotto in Italia con la legge 208/2015. Le società benefit, infatti, sono sottoposte ad un obbligo di rendicontazione annuale concernente il perseguimento delle finalità di beneficio comune indicate nel proprio statuto sulla base delle modalità previste dallo “standard di valutazione esterno”, le cui caratteristiche sono descritte in un apposito allegato all’interno del menzionato provvedimento.
La relazione deve contenere una “descrizione degli obiettivi specifici, delle modalità e delle azioni attuati dagli amministratori per il perseguimento delle finalità di beneficio comune e delle eventuali circostanze che lo hanno impedito o rallentato”, nonché “la valutazione dell’impatto generato utilizzando lo standard di valutazione esterno” e si conclude poi con una “sezione dedicata alla descrizione dei nuovi obiettivi che la società intende perseguire nell’esercizio successivo”.
In particolare e le aree di analisi che devono essere prese in considerazione comprendono: (i) il governo dell’impresa, “per valutare il grado di trasparenza e responsabilità della società nel perseguimento del beneficio comune, con particolare attenzione allo scopo della società, al livello di coinvolgimento dei portatori d’interesse e al grado di trasparenza delle politiche e delle pratiche adottate dalla società”; (ii) le relazioni con i dipendenti e i collaboratori della società “in termini di retribuzioni e benefit, formazione e opportunità di crescita personale, qualità dell’ambiente di lavoro, comunicazione interna, flessibilità e sicurezza del lavoro”; (iii) le relazioni della società con altri portatori d’interesse, quali “i propri fornitori, il territorio, le comunità locali in cui opera, le azioni di volontariato, le donazioni, le attività culturali e sociali e ogni azione di supporto allo sviluppo locale e della propria catena di fornitura”; (iv) l’impatto dell’attività della società sull’ambiente, “con una prospettiva di ciclo di vita dei prodotti e dei servizi, in termini di utilizzo di risorse, energia, materie prime, processi produttivi, processi logistici e di distribuzione, uso e consumo e fin vita”.
Si tratta di una questione di grande rilevanza, in quanto le società benefit che non perseguono le finalità di beneficio comune indicate in statuto, sono soggette alle disposizioni del D.lgs. 2 agosto 2007, n. 145, in materia di pubblicità ingannevole ed alle disposizioni del codice del consumo.
Infine vale la pena segnalare alcune novità contenute nel Codice dei Contratti Pubblici, che prevede ora come la valutazione dell’impatto sia uno dei criteri di cui l’ANAC dovrà tener conto per il calcolo del “rating di impresa”, dando inoltre la possibilità alle pubbliche amministrazioni, nei bandi di gara, di premiare (tutte) le imprese che svolgano una valutazione dell’impatto sociale, adottando il menzionato standard di valutazione esterno.
La valutazione dell’impatto diventa quindi uno strumento trasversale in grado di valorizzare, premiare e rendere più competitive le imprese che si sottopongono a tale processo, a prescindere dal fatto che siano qualificate come società benefit.
Il non financial reporting
Anche i soggetti più strutturati sono chiamati a fare la loro parte, considerato che con l’approvazione del D.lgs. 254/16, che recepisce la Direttiva Europea 2014/95/UE, gli “enti di interesse pubblico” (es. società con strumenti finanziari quotati, le banche, le imprese di assicurazione etc.), assumono l’obbligo di predisporre annualmente una “dichiarazione di carattere non finanziario” al fine di assicurare la comprensione dell’attività dell’impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta, con riferimento alla tematiche di carattere ambientale, sociale ed attinente al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione.
La dichiarazione dovrà contenere, ad esempio, informazioni riguardanti l’utilizzo di risorse energetiche, le emissioni inquinanti in atmosfera, l’impatto sull’ambiente, la gestione del personale anche con riferimento alle azioni poste in essere per garantire la parità di genere, dando evidenza delle modalità di rendicontazione adottate.
Anche in questo caso parliamo di un obbligo rilevante, considerato che la Consob è tenuta a vigilare, ad accertare eventuali violazioni e ad irrogare le sanzioni necessarie.
Conclusioni
Come si legge nel report della Social Impact Investment Task Force, istituita nel 2015 in ambito G8, oggi Global Steering Group (GSG), “affinché l’innovazione sociale non rimanga una mera enunciazione di principi, destinati, poi, ad una rapida irrilevanza, ma possa portarci invece oltre i limiti strutturali della società dell’innovazione, è necessario un cambio di paradigma, per orientare i processi economici verso impatti misurabili e socialmente positivi”.
Il diritto può sicuramente aiutare a definirne i profili applicativi elaborando delle regole certe che siano in grado di assicurare una concreta applicazione degli obblighi di rendicontazione sociale, in modo da creare degli strumenti che diventino parte della strategia e non della “burocrazia” delle imprese.
Questo sembra già essere un punto che il mondo for profit ha metabolizzato in fretta, avendo ben compreso quanto valore abbia dare rilievo al valore sociale generato dalla propria attività di impresa, come dimostra la crescita costante dell’ecosistema delle B-Corp e delle società benefit, oppure il successo degli investimenti ESG in ambito finanziario. Al contrario, questo approccio sembra faccia fatica ad affermarsi all’interno dell’ecosistema del Terzo Settore.
Bisogna guardare ai processi di misurazione come ad un percorso che può essere in grado di fare emergere e comunicare – attraverso una valutazione qualitativa e quantitativa – l’“efficacia nella creazione di valore sociale ed economico, allineando i target operativi con le aspettative dei propri interlocutori e migliorando l’attrattività nei confronti dei finanziatori esterni”, per riprendere un passaggio del decreto del 23 luglio 2019. Iscriverli, ancora una volta, nell’elenco degli adempimenti sarebbe l’ennesima occasione persa.
Non tutto ciò che conta può essere contato, ma forse misurato sì.