Piccole, truffaldine, anacronistiche, beneficiarie di immeritate agevolazioni fiscali, inefficienti, sottocapitalizzate, luogo di lavoro precario. Molte sono le convinzioni diffuse sul mondo cooperativo, che un gruppo di ricerca di Euricse ha sottoposto alla prova dei fatti sulla base dei numeri esistenti. In questo articolo, uscito all’interno del numero 1/2019 di Welfare Oggi, vi presentiamo i principali risultati emersi da questa indagine sui "pregiudizi" che molti hanno sulle cooperative italiane.
La si potrebbe definire una discrasia. Convinzioni e consuetudini, da una parte. Dati e fatti, dall’altra. Per il movimento cooperativo italiano è una battaglia quotidiana per affrancarsi da una reputazione poco generosa nel riconoscerne il reale contributo all’economia del Paese. L’esito è un turbinio di stereotipi che corrono e ricorrono. Piccole, incapaci di competere con le performance di Spa e Srl, spesso truffaldine, portatrici di un modello anacronistico, privilegiate per via di un regime fiscale – si dice – agevolato. Ancora: sottocapitalizzate, bisognose di finanza, organizzazioni precarie e che precarizzano il lavoro.
L’elenco potrebbe proseguire a lungo, ma alla certezza degli slogan manca la solidità dell’argomento empirico. Ed è per questo che, sin dalla sua nascita, Euricse ha sovvertito la prospettiva. L’ha fatto anteponendo ai cliché le evidenze scientifiche. Per i suoi primi dieci anni di vita, Euricse, l’Istituto europeo di ricerca sull’impresa cooperativa e sociale, ha sintetizzato alcuni dei suoi principali studi. Il risultato è un manuale che smentisce gli stereotipi diffusi e che, al tempo stesso, formula un corollario di proposte futuribili per il movimento cooperativo. Il libro “Cooperative da riscoprire. Dieci tesi controcorrente” (Donzelli), curato da Carlo Borzaga e scritto dai ricercatori di Euricse, decostruisce con argomentazioni scientifiche le retoriche dominanti, svelando così il vero apporto delle cooperative all’economia e al welfare del Paese.
Un modello d’impresa minore?
È con simili premesse che il volume “Cooperative da riscoprire” procede confrontandosi con i preconcetti più diffusi con l’obiettivo di verificarne la sostenibilità sulla base dei dati disponibili. La prima idea, frutto di una superficiale comprensione dell’accezione mutualistica, che viene sottoposta a questo esame è che il modello cooperativo sarebbe condannato a creare imprese destinate a restare nane e legate a specifici contesti locali. Per accertare la correttezza di tali generalizzazioni, si sono riletti i risultati della ricerca che da sette anni a questa parte Euricse conduce con (e per) l’Alleanza internazionale delle Cooperative (ICA). Si tratta del “World Cooperative Monitor”, un ranking sulle organizzazioni cooperative più grandi al mondo in termini di fatturato, soci, dipendenti e utenti serviti. Quanto emerge da questo lavoro di ricerca mette in luce che negli ambiti in cui il modello cooperativo è più diffuso, la taglia che le imprese possono raggiungere non è affatto inferiore a quella delle imprese di capitali. Anzi, in diversi casi l’impresa cooperativa è leader del proprio settore e compete senza complessi di inferiorità con le aziende di capitali.
Qualche numero rende l’idea: nel Rapporto 2017, che presenta i dati del 2015, il volume di affari complessivo delle trecento cooperative più grandi al mondo ammonta a 2,1 trilioni di dollari. Dalla stessa analisi risulta che più di 1400 cooperative tra quelle censite nel Monitor superano la soglia dei 100. L’edizione 2018 del Monitor, da poco pubblicata, conferma la vivacità del movimento cooperativo globale: le 300 mutue e cooperative più grandi al mondo, nel complesso arrivano a un volume d’affari che supera i 2.000 miliardi di dollari. Tutt’altro che nane e marginali. La dimensione, seppur robusta e diffusa su scala globale, non è per definizione in contraddizione con lo spirito cooperativo. Anzi. Nell’ultima edizione del Worls Cooperative Monitor sono state analizzate le reazioni delle grandi cooperative rispetto alle istanze dell’Agenda 2030 e, in particolare, l’adeguamento ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals) e la progressione nella rendicontazione seguendo gli standard GRI (Global Reporting Initiative) e le Communication on Progress del Global Compact. Il risultato è che settantacinque delle 300 organizzazioni classificate nel ranking rendicontano la propria attività nel rispetto degli SDGs, quindi favorendo l’occupazione femminile, combattendo le iniquità salariali ed educative, favorendo un processo di riduzione delle disuguaglianze, ecc..
Bisognose di finanza e incapaci di investire?
Chiarita la questione sulle dimensioni, c’è un’altra percezione ricorrente: le cooperative, si dice, sono meno capitalizzate delle altre imprese, in particolare rispetto a quelle di capitali e sono quindi anche meno capaci di attrarre risorse finanziarie aggiuntive, specie in caso si presentino opportunità di crescita. Ma questa convinzione regge alla prova dei numeri? I dati dicono il contrario: se si utilizzano indicatori che tengono conto delle peculiarità cooperative per individuarne la solidità finanziaria, ad esempio analizzando il livello del capitale proprio rispetto a quello degli impieghi di lungo periodo o delle immobilizzazioni, il confronto con le società di capitali non segnala molte delle criticità addebitate dai detrattori.
Anzi, a livello generale, risulta particolarmente singolare rilevare come, accanto alla condizione di diffuso equilibrio, le cooperative si siano dimostrate capaci di incrementare il livello del capitale complessivamente investito (proprio e di terzi) in maniera superiore a entrambe le società di capitali proprio in un periodo di congiuntura economica negativa. I dati evidenziano, infatti, come le risorse finanziarie investite dalle cooperative siano cresciute dal 2008 al 2015 del +18,3% contro il +11,4% delle Spa e il +16,4% delle Srl.
Insomma: le cooperative hanno reperito capitali per aumentare gli investimenti, persino più delle altre forme di impresa e in un momento in cui la contrazione delle risorse era diffusa, segno che hanno trovato, o attraverso capitali propri, o attraverso il ricorso al credito, quanto necessario per seguire i propri piani di sviluppo in misura anche superiore ad altre imprese; e in questo caso si tratta di una dinamica che non è riducibile ad alcuni casi di “gigantismo cooperativo”, ma è diffusa anche in settori come quelli del welfare in cui operano le cooperative sociali; si tratta di imprese di dimensioni più contenute, ma che comunque negli anni della crisi sono state in grado di raccogliere i capitali necessari ad una dinamica di investimento molto significativa.
Con riferimento a 10.159 cooperative sociali esaminate da Euricse, il capitale investito ammontava nel 2015 a quasi 10 miliardi di euro (9,8), con un apporto di mezzi propri, riconducibili essenzialmente alle riserve, di 2,5 miliardi di euro e un valore della produzione nel medesimo anno intorno ai 12 miliardi di euro (11,9).
Privilegiate perché non pagano imposte?
Il percorso a tappe lungo lo scivoloso crinale degli stereotipi, porta poi ad affrontare uno degli slogan maggiormente diffusi: che le cooperative siano privilegiate perché godono di un regime fiscale vantaggioso. Tuttavia, ad una prova dei fatti emerge come il dibattito sui privilegi delle cooperative in materia fiscale si sia sempre basato su analisi parziali e prive di riscontri empirici. Analizzando il contributo delle cooperative al bilancio dello Stato non solo limitatamente alla tassazione sul reddito d’impresa, ma nella sua totalità – ovvero considerando ogni altro flusso di risorse, e in particolare quelle prelevate sul costo del lavoro, dando cioè conto della pressione fiscale complessiva gravante sull’impresa – si mettono seriamente in discussione molti dei giudizi espressi in questi anni, che hanno tra l’altro ispirato taluni interventi di modifica normativa.
Considerando la tassazione sul lavoro, il gettito fiscale proveniente dalle cooperative risulta mediamente superiore ai 7 punti percentuali rispetto a quella rilevata per le S.p.A. Ancora, considerando l’effetto complessivo del prelievo fiscale e contributivo e calcolando quindi in questo modo la pressione fiscale cui ciascuna impresa è sottoposta, si evince che sono le cooperative quelle maggiormente gravate dal 2008 al 2015, con una differenza rispetto alle S.p.A. di 3 punti percentuali nel 2009, leggermente aumentata nel 2015.
Se poi si focalizza l’attenzione sugli importi complessivi (tassazione su lavoro e reddito d’impresa) versati annualmente allo Stato a partire dal 2009, risulta che il contributo delle cooperative è stato interessato da una continua crescita. Nello specifico: l’importo versato dalle cooperative nel 2015 è risultato del 21,6% più alto di quello del 2009, contro un aumento del 12,3% delle S.p.A. Dai risultati emerge in sostanza come le cooperative italiane abbiano più che compensato le agevolazioni godute sul fronte del reddito d’impresa attraverso i prelievi subiti sul costo del lavoro, trovandosi dunque a fronteggiare una pressione fiscale superiore a quella della Spa.
Poco efficienti perché democratiche?
Non sono solo questi, gli stereotipi diffusi. La governance democratica delle cooperative, recita uno dei pregiudizi frequenti, frena il ritmo della performance. Alla prova dei fatti, la convinzione che le imprese cooperative, a causa della loro governance democratica, siano meno efficienti delle altre forme di impresa, non risulta però dimostrata in modo chiaro, in quanto emergono sia ragioni teoriche sia riscontri empirici a favore che contro questa convinzione, con un esito finale di bilanciare vantaggi e svantaggi della peculiare forma di governance che caratterizza il mondo cooperativo.
Anzi, se nel definire l’efficienza si tiene conto anche della capacità delle diverse forme di governance di limitare i fallimenti del mercato, le forme democratiche risultano in diverse situazioni più efficienti di quelle basate sulla gerarchia, semplicemente in quanto in grado di ridurre i costi di tali fallimenti. Non solo. Vi sono buone ragioni economiche a favore dello sviluppo di forme di governance ancora più democratiche di quelle tradizionalmente sperimentate dalle cooperative, in quanto inclusive non solo di un gruppo, ma di una pluralità di portatori di interesse, che possono persino rivelarsi motore di crescita e innovazione. I modelli di governance multi-stakeholder – nei quali dunque coesistono nella base sociale e negli organi direttivi portatori di interessi diversi come ad esempio, nelle cooperative sociali, lavoratori, utenti e loro familiari – sembrano infatti in grado di valorizzare meglio di quelli oggi comunemente praticati le conoscenze, il potenziale creativo, motivazionale e innovativo degli stakeholder.
Lo dimostra la storia della cooperazione sociale la cui storia – soprattutto iniziale – è stata determinata dall’apporto dei volontari. Questi modelli sono meglio posizionati rispetto a soluzioni democratiche a stakeholder singolo, soprattutto per superare nuovi fallimenti di mercato e dare risposte a bisogni non considerati o irrisolti. Per quale ragione? Le cooperative multistakeholder tendono a servire utenti non paganti (o parzialmente paganti) più delle monostakeholder, operando una sorta di predistribuzione del reddito. Quindi la forma partecipata non rappresenta un ostacolo, ma può avere riflessi benefici sull’organizzazione e sulle sue performance. Esattamente il contrario delle convinzioni diffuse.
Lavoro precario e sotto-retribuito?
Tra le critiche maggiormente ricorrenti ce n’è poi un’altra: le cooperative, si dice, creano soprattutto posti di lavoro precari e ciò avviene in misura maggiore rispetto alle altre imprese o alle pubbliche amministrazioni. Ma anche in questo caso, alla prova dei fatti, emerge una situazione diversa.
Il tema è oltremodo rilevante se si considera che l’economia cooperativa ha un peso notevole nell’occupazione del Paese. Nel 2015, le cooperative hanno occupato, in termini di posizioni medie annue, poco meno di 1,2 milioni di lavoratori con un aumento di oltre 169.000 posizioni rispetto al 2007. È dunque importante comprendere se la crescita della cooperazione significhi al tempo stesso crescita del precariato o meno. A questo proposito i dati Istat evidenziano che le cooperative creano lavoro stabile nella stessa misura, se non più, delle altre imprese: nel 2015, oltre nove lavoratori delle cooperative su dieci erano occupati come dipendenti e più di otto su dieci (83,4%) aveva un contratto a tempo indeterminato; la situazione non è molto diversa da quella rilevata nelle società per azioni (dove il 95,5% dei lavoratori era dipendente) e migliore di quella delle società a responsabilità limitata (84,6% di dipendenti).
Va inoltre considerato che tra il 2007 e il 2015 l’occupazione dipendente nelle cooperative è aumentata del 17,7%, mentre nelle altre forme di impresa è diminuita del 6,3%; quindi, in sostanza, caratteristiche di stabilità occupazionale simili a quelle del resto dell’economia italiane sono state ottenute in condizioni di crescita di gran lunga superiori e in cui quindi non sarebbe inverosimile attendersi il ricorso, almeno iniziale, a forme di occupazione meno stabili. Inoltre, da approfondimenti effettuati sugli stessi dati è risultato che nel corso della crisi – cioè in un periodo di crescente precarizzazione del lavoro – le cooperative italiane hanno progressivamente stabilizzato le posizioni lavorative: gli occupati a tempo indeterminato sono infatti cresciuti a un tasso superiore a quello degli occupati totali. Il processo di stabilizzazione risulta evidente soprattutto con riferimento alla variazione positiva delle posizioni relative a dipendenti a tempo indeterminato a fine anno: tra il 2008 e il 2013 il numero di posizioni lavorative è cresciuto di 76.197 unità e la quota di dipendenti a tempo indeterminato è cresciuta dell’8,6%. Un processo controtendenza e contro il sentire comune.
Il ruolo nella gestione dei servizi
Il lungo elenco di j’accuse fin qui composto è sufficientemente robusto per dare contezza del rumore di fondo che inficia l’ascolto del reale contributo del sistema cooperativo all’economia italiana. Ma non è solo questione di bonificare il campo dagli stereotipi disseminati lungo la via, ma anche di comprendere le prospettive per il settore. A tale proposito, ciò che spesso si dimentica, e il volume di Euricse cerca di far riemergere, è infatti il ruolo delle cooperative nella produzione di servizi destinati alla comunità, rispondendo a bisogni emergenti e ponendosi come congiunzione con l’ente pubblico. Una parte significativa delle cooperative italiane, infatti, in particolare di lavoro e sociali, gestisce servizi di interesse pubblico o di interesse generale su delega o comunque attraverso rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni, soprattutto locali. Si tratta di un fenomeno che è andato crescendo a partire dalla fine del secolo scorso, sia per far fronte al blocco delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, sia per garantire un’offerta minima di servizi di interesse generale, in particolare socio-assistenziali ed educativi.
Si tratta di una parabola ascendente avviata negli anni Novanta con lo sviluppo delle cooperative sociali nate in seguito a una domanda emergente di servizi sociali, educativi e di inserimento lavorativo. L’esito di tale sviluppo dei rapporti con gli enti pubblici, seppur dimenticato, ha contribuito negli ultimi vent’anni alla crescita dimensionale delle cooperative sociali, alla loro stabilizzazione in quanto produttrici di servizi di welfare e all’aumento dell’offerta. Lo dimostrano i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica, secondo i quali il numero delle cooperative sociali è passato da meno di 2000 nel 1991 a 5.674 nel 2001, 7.363 nel 2005, 11.264 nel 2011 fino a 16.125 nel 2015 (ISTAT, 2011; ISTAT, 2017).
Con lo stesso ritmo è cresciuto il numero di operatori e di utenti. Il primo sfiora oggi il mezzo milione di persone e il secondo supera largamente i sette milioni, con ben 30.000 lavoratori svantaggiati pienamente inseriti in attività remunerate. Ciononostante, le cooperative sociali raramente sono descritte per quello che sono, vale a dire soggetti giuridici privati a finalità sociale, costituti da gruppi di cittadini imprenditori per gestire – in autonomia o in collaborazione con altri soggetti incluse le pubbliche amministrazioni – la produzione di servizi a beneficio di un’intera comunità o di gruppi di soggetti fragili, prevalendo invece altre letture che ricercano nelle loro attività (si pensi all’accoglienza migranti) valenze opportunistiche o malevole desunte da generalizzazioni giornalistiche di casi di cronaca isolati.
Di più. A dispetto di ogni previsione, le cooperative sociali si sono comportate in modo decisamente anticiclico, continuando a crescere nei numeri e nel fatturato e ad aumentare più che proporzionalmente l’occupazione (quindi i servizi offerti per euro di fatturato che nel caso dei servizi sociali è la vera misura della produttività). E il volume di Euricse, nonché le ricerche condotte negli ultimi anni, ne ripercorrono i numeri. Nei peggiori anni della crisi, tra il 2008 e il 2013/14, i tassi di crescita della cooperazione sociale hanno toccato picchi notevoli. Il valore della produzione è passato dai 6,8 miliardi di euro nel 2008 ai 9 miliardi nel 2013 (+31,5%). In particolare, sanità e assistenza sociale, dove maggiori sono le risorse di provenienza pubblica, hanno registrato i più elevati incrementi in termini assoluti: +1,5 miliardi di euro (+31,6%). Al contempo, i redditi da lavoro dipendente sono aumentati del 37,1% e anche gli investimenti hanno registrato, nel periodo considerato, una crescita significativa: nel 2013 le cooperative sociali avevano in essere investimenti complessivi per 7,7 miliardi di euro, con un aumento del 44% rispetto al 2008 (Euricse, 2015).
Dinamismo e innovazione
Ma accanto alla crescita numerica, come si è detto emergono nuove prospettive, che posizionano la cooperazione tra i soggetti più dinamici e innovativi del nostro tessuto socio economico. Ad esempio, da alcuni anni ad esempio il mondo della ricerca si sta interessando ad un fenomeno emergente: le cooperative di comunità. In un periodo caratterizzato da rilevanti mutamenti economici e sociali e dalle difficoltà delle politiche pubbliche nell’offrire soluzioni adeguate ai problemi che attraversano la società italiana, sta infatti via via crescendo l’interesse per la comunità, sia come luogo in cui affrontare i problemi sia come risorsa; e il movimento cooperativo non è rimasto estraneo a questo rinnovato interesse. Al contrario, sta riservando particolare attenzione all’emergere di una nuova forma di cooperazione, incardinata sui bisogni della comunità: la cooperativa di comunità, come s’è detto.
Ma quali sono le sue origini? L’esigenza di una cooperazione maggiormente radicata nell’ambiente sociale è riaffiorata negli anni più recenti, in ambiti diversi da quelli tipici della cooperazione sociale. E, forse, con presupposti altrettanto diversi. Con le cooperative che ora si definiscono “di comunità”, i cittadini chiedono spazi d’azione e occasioni per esserci, per contribuire allo sviluppo del territorio di riferimento. Attraverso processi di trasformazione dei valori comuni e delle forme di solidarietà e mutualità, emerge così una nuova coscienza collettiva nella quale le persone scelgono di cooperare e di condividere le risorse a disposizione per migliorare il benessere della propria comunità.
Con l’affermarsi di queste nuove forme di cooperazione, l’esigenza di superare lo scopo mutualistico come finora inteso – di servizio al socio in quanto parte di un gruppo omogeneo -assume un nuovo significato: si sviluppa a partire dai bisogni concreti di tutta la popolazione locale o di una gran parte di essa. Si viene così a determinare una nuova accezione di mutualità intesa come solidarietà organizzata che necessita di nuove soluzioni capaci di estendere a tutta la comunità norme e valori generalmente praticati all’interno di compagini sociali più ristrette.
Non si tratta solo di teoria o di buoni propositi. Nell’ultimo decennio, in Italia si sono concretizzate varie iniziative riconducibili alla cooperazione di comunità. Euricse ne ha studiate una ventina, tracciando una sorta di parabola del fenomeno in atto. Accanto alle prime esperienze nate nelle aree interne per rivitalizzare territori spesso ricchi di risorse naturali, ma carenti di servizi essenziali e di opportunità lavorative, si stanno sviluppando nuove forme di cittadinanza attiva anche nelle aree urbane degradate o caratterizzate da fenomeni di marginalità sociale. L’intento è produrre beni e servizi orientati a migliorare la qualità della vita delle comunità, spesso attraverso la gestione di beni immobili e infrastrutture (pubbliche e private) sottoutilizzate, ma capaci di generare valore sociale ed economico.
Gli esempi, già tangibili e visibili, sono dislocati in tutto il Paese. Alcune cooperative di comunità fanno leva sul recupero di prodotti alimentari autoctoni (la cooperativa Terre Normanne di Calabria), altre sul patrimonio archeologico (Scherìa Comunità Cooperativa di Tiriolo, in Calabria) o storico-artistico (Paranza di Napoli). Altre ancora sull’utilizzo di immobili pubblici per promuovere iniziative di turismo sostenibile (Brigì di Mendatica, in Liguria) o di immobili abbandonati per realizzare servizi socio-sanitari destinati agli anziani (Castel del Giudice, in Molise).
Le risposte ai bisogni futuri
Ma per contribuire allo sviluppo locale è necessario ripensare, dove necessario, anche le attività già esistenti. Più in concreto, le cooperative di comunità possono essere l’occasione per rilanciare attività e settori tradizionali del movimento cooperativo. È il caso del credito, del consumo o l’agricoltura, che per lungo tempo hanno rappresentato importanti fattori di coesione sociale e di competitività economica locale. Un esempio, su tutti: la cooperazione di consumo a orientamento comunitario si può rilanciare, grazie anche alla collaborazione con gli enti pubblici, attraverso l’offerta di nuovi servizi che trasformino i tradizionali negozi in “negozi di comunità multiservizi”. Una trasformazione per scongiurare la chiusura dei negozi situati nelle aree marginali, spesso economicamente deboli e poco sostenibili. Al tempo stesso, ciò permette agli abitanti di continuare a vivere nel proprio territorio, arginando i flussi dello spopolamento, riducendo l’isolamento socio-economico e, in particolare, favorendo l’autosufficienza delle persone anziane.
In sintesi, l’esito sarebbe quindi una mutualità allargata, capace di ridisegnare la funzione della cooperazione e per assolvere al ruolo di presidio socio-economico per la comunità. Uno sguardo al futuro, dunque, e al tempo stesso un ulteriore preconcetto smorzato sul nascere: la forma cooperativa può governare le trasformazioni attuali e intercettare i bisogni futuri.