Il “Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza” ha pubblicato le sue proposte operative per riformare il settore della non autosufficienza in Italia. Il Secondo Pilastro Integrativo (di cui vi abbiamo parlato qui) è uno dei modelli di finanziamento previsti. Questo svolge una funzione complementare e integrativa rispetto alle prestazioni assicurate dai livelli essenziali, secondo logiche solidaristiche e mutualistiche, per intervenire sulla Long Term Care (LTC).
Il Secondo Pilastro (di cui recentemente abbiamo discusso anche con Anna Maria Trovò della CISL) agisce, infatti, in integrazione al Primo Pilastro – quello pubblico – e adotta una prospettiva complementare, facendo ricorso a risorse di tipo privato. L’obiettivo è costruire un modello che garantisca i principi di equità e solidarietà nell’accesso all’assistenza facendo ricorso a risorse di tipo privato raccolte secondo logiche mutualistiche.
Ne abbiamo parlato con Massimo Piermattei, Presidente del Consorzio MuSa, Consorzio Mutue Sanitarie che raggruppa nove Società di muto soccorso aderenti a FIMIV, Federazione Italiana Mutualità Integrativa Volontaria.
Dottor Piermattei, perché secondo lei la predisposizione di un Secondo Pilastro è ormai divenuta rilevante nel settore della Long Term Care?
La prima considerazione è che il Primo Pilastro, quello pubblico, mostra dei limiti espliciti sia dal punto di vista della garanzia di accesso universale all’erogazione delle prestazioni sanitarie sia, soprattutto, nel razionamento delle prestazioni sociosanitarie e assistenziali. Durante la pandemia, il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) ha dovuto concentrare i propri sforzi sul contrasto al diffondersi del virus, trascurando buona parte delle altre prestazioni sanitarie: questi aspetti di disparità nell’accesso alle cure sono ancora più evidenti rispetto a quelli di carattere sociale.
La seconda considerazione è che l’attuale composizione familiare vede sempre più famiglie monoparentali, in povertà relazionale, senza possibilità di essere assistiti da caregiver familiari (figli o altri parenti) durante la fase della vecchiaia e della non autosufficienza. Questo rende sempre più chiaro il ruolo della programmazione di un Secondo Pilastro Integrativo, specie in un momento in cui la pressione fiscale ha raggiunto livelli che non sono più espandibili.
Le soluzioni di Secondo Pilastro riuscirebbero a raggiungere l’obiettivo dell’universalismo delle cure, in particolar modo per le prestazioni destinate alla non autosufficienza e in considerazione della curva demografica che attanaglia l’Europa e l’Italia.
Quali sono le logiche a cui il Secondo Pilastro Integrativo si dovrà attenere?
Il secondo Pilastro si pone l’obiettivo di reperire delle risorse economiche aggiuntive e che non provengono dalla fiscalità generale (ne abbiamo parlato anche con Anna Maria Trovò, qui). Tali risorse potranno giungere dalla contrattazione collettiva o di secondo livello (il welfare aziendale) ma anche dalla contribuzione di tipo volontaria. Dal nostro punto di vista, questo modello deve in ogni caso rispettare i principi di equità e solidarietà nell’accesso alle cure.
I soggetti del Secondo Pilastro, come i Fondi e le Mutue, rispettano proprio queste finalità appena richiamate, che sono per loro esistenziali. Questi soggetti vantano una governance fondata sulla partecipazione democratica e una gestione basata sulla trasparenza, la rendicontazione e il contenimento dei costi. Il Secondo Pilastro rispetta dunque questa circolarità e svolge un ruolo equo e solidaristico a favore di tutte le fasce sociali.
Il quid delle Mutue sanitarie è la possibilità di far accedere ai nostri servizi anche i lavoratori autonomi, quelli che non hanno un contratto di lavoro dipendente, i pensionati, le casalinghe
Il quid in più che noi Mutue sanitarie riusciamo a realizzare – anche attraverso adesioni di tipo volontario – è la possibilità di far accedere ai nostri servizi anche i lavoratori autonomi, quelli che non hanno un contratto di lavoro dipendente, i pensionati, le casalinghe. Si tratta dunque di realizzare una solidarietà intercategoriale, oltre che intergenerazionale.
Quali sono i punti di connessione che il Secondo Pilastro dovrà stabilire con il Pilastro Pubblico?
Questa è la parte più critica. Il Servizio Sanitario Nazionale non intende abdicare alla propria funzione di soggetto responsabile della tutela e della sanità e del benessere della popolazione. Il rischio in questo quadro è che il Secondo Pilastro venga considerato come una sorta di “tappabuchi” delle inefficienze del SSN. Non sarà poi così facile realizzare un’integrazione programmata e perfetta nell’erogazione dei servizi socioassistenziali e sanitari.
Il rischio è che il Secondo Pilastro venga considerato come una sorta di “tappabuchi” delle inefficienze del SSN.
Questo perché tutti gli interventi del Secondo Pilastro, anche sul versante sanitario (vediamo, ad esempio, l’esperienza dei Fondi Sanitari), sono molto diversificati. Tali esperienze hanno due variabili: la composizione della platea degli assistiti e l’entità delle risorse conferite. Ad esempio, ci sono attualmente oltre 300 Fondi Sanitari e parto da questi perché potrebbero essere proprio loro i soggetti su cui incardinare il tema della Long Term Care, com’è avvenuto in qualche esperienza già precedentemente realizzata. Tuttavia, quali sono stati sinora i contratti che hanno previsto la Long Term Care? Di certo quelli economicamente più tutelanti. Per assicurare un universalismo della copertura delle prestazioni sanitarie e socioassistenziali, sarà necessario prevedere degli interventi differenziati.
Quello che per noi è importante è che il Secondo Pilastro non venga confinato alle sole attività che non sono ricomprese nel Primo Pilastro. Questa è stata la pietra tombale dei Fondi Sanitari aperti. Al contrario, riteniamo che sia necessario adottare una visione più laica: se gli standard sono definiti dal Primo Pilastro, il Secondo può offrire una gamma di servizi che può essere anche molto ampia. In tal senso, il Secondo Pilastro può fornire prestazioni anche aggiuntive rispetto a quelle già previste dai LEA e dai LEPS, non solo in termini di prestazioni diverse ma, ad esempio, anche di un maggior numero di ore di assistenza o di maggiori contributi economici. Anche perché i bisogni socioassistenziali, come noto, non sono facilmente esauribili e non possono essere soddisfatti con un numero di ore standard di assistenza o una quota predefinita di sussidio economico. Si dovrà giungere a delle forme di interlocuzione tra pubblico e privato che siano flessibili.
Qual è il contributo del Consorzio MUSA al dibattito?
Le Mutue dispongono del principio della “porta aperta”, garantiscono assistenza per tutta la vita ai propri soci e hanno già al proprio interno un numero significativo di persone con un’età superiore ai 70-75 anni: è evidente che vantano una sensibilità rilevante verso il tema.
Noi abbiamo già fatto delle sperimentazioni in tal proposito. Sono diverse le mutue del nostro Consorzio che hanno già avviato forme di garanzia di tipo collettivo riuscendo, quindi, a far pesare la nostra capacità negoziale. In qualche caso abbiamo autogestito le modalità per fornire prestazioni di vario tipo, rimborsuale o indennitario. Negli ultimi tempi, grazie al convenzionamento che abbiamo con gli erogatori delle prestazioni sociosanitarie, siamo in grado di gestire direttamente i servizi nei confronti dei nostri assistiti. Quello che siamo riusciti a negoziare, avvalendoci anche di un sostegno esterno come una compagnia assicurativa privata, è la garanzia per i nostri soci che la copertura sanitaria e socioassistenziale duri per tutta la vita.
Infine, la Mutua può essere capace di svolgere un ruolo di fronting relazionale. Noi spesso abbiamo degli anziani che sono soli o con una rete parentale molto allentata. Il nostro socio può delegare la Mutua nel prendersi carico degli aspetti relazionali nei confronti dei caregiver. Le Mutue pertanto sono in grado di farsi carico non solo degli aspetti legati all’indennità economica, ma anche alla gestione, il monitoraggio e la programmazione delle prestazioni socioassistenziali.
Quali sono le best practice di cui tener conto?
A nostro avviso, le best practice corrispondono alla capacità di prevedere l’accantonamento delle risorse per la non autosufficienza anche nelle coperture offerte ai lavoratori attivi. Quelle che adesso fanno parte di alcuni Piani Sanitari, in misura eventuale o residuale, e che scadono quando poi il lavoratore va in pensione.
Quello che noi vorremmo riuscire a far capire è che se il Fondo Sanitario è gestito dalla Mutua, questa ha la capacità di programmare che una quota delle risorse che vengono versate possano poi essere utilizzate per l’accantonamento per i bisogni socioassistenziali. Mentre dal punto di vista sanitario le Mutue lavorano a regime di ripartizione, sul fronte delle prestazioni socioassistenziali dobbiamo prevedere una forma di capitalizzazione. Il vantaggio per un lavoratore dipendente iscritto ad un Fondo mutualistico è che non perde la possibilità di realizzare questo accantonamento. Noi riusciamo a conservare queste risorse, valorizzandole quando ancora il lavoratore è in età attiva, realizzando un vero budget legato a questo tipo di spese, in modo da facilitare l’accesso a prestazioni socio assistenziali anche di lungo termine quando esce dal mondo del lavoro.
La logica mutualistica garantisce l’assistenza durante tutte le diverse fasi della vita e, possibilmente, a tutta la platea dei nostri assistiti.
Le best practice riguardano quindi la logica mutualistica, che garantisce l’assistenza durante tutte le diverse fasi della vita e, possibilmente, a tutta la platea dei nostri assistiti. La sfida è sempre la standardizzazione dei servizi: offriamo pacchetti diversi a seconda delle necessità (la disponibilità economica, il livello di non autosufficienza, la condizione familiare). Siamo in conclusione in grado di dare un contributo concreto al tema della tutela della non autosufficienza e della LTC.