Negli ultimi mesi la coprogrammazione e la coprogettazione si stanno imponendo come banco di prova per le pubbliche amministrazioni e per il Terzo settore. Sembra essersi aperta una nuova fase, in cui tanti stanno intravedendo nella collaborazione fra pubblico e privato sociale la possibilità di inaugurare un diverso modello di disegno delle politiche.
Persino il PNRR, su cui sono stati fissati i punti fondamentali per programmare il futuro del paese dopo la pandemia, all’interno della missione 5 su “coesione e inclusione” cita la possibilità della coprogettazione fra amministrazioni pubbliche e Terzo settore, come strumento per favorire “una lettura più penetrante dei disagi e dei bisogni al fine di venire incontro alle nuove marginalità e fornire servizi più innovativi”.
La coprogrammazione e la coprogettazione, che sono al centro dell’art.55 del nuovo codice del Terzo settore e il cui significato è stato chiarito dalla sentenza della Corte costituzionale n.131 del 26 giugno 2020 (percorso su cui Secondo Welfare ha fatto il punto qui, ndr), non designano una generica possibilità di collaborazione alla realizzazione di singoli progetti o servizi. Piuttosto, tali strumenti riconfigurano a monte i rapporti tra amministrazioni pubbliche e Terzo settore: la co-programmazione, infatti, investe la stessa costruzione delle politiche, in una logica di collaborazione alla pari. Non è una semplice differenza di accento o di tonalità: si tratta, piuttosto, di una sfida radicale, che scardina le regole del gioco, allargando, di fatto, il perimetro della decisione politica.
Non è un’idea astratta o estemporanea, frutto dell’illuminazione della Corte o del legislatore. Si tratta, a ben guardare, del riconoscimento di una strategia già perseguita con tenacia da una molteplicità di attori sociali, che sono stati, negli ultimi anni, all’origine del cambiamento, configurando nuovi modelli di assistenza sociale e di sviluppo locale, generando beni comuni, innescando forme di welfare di prossimità. Tali esperienze si sono spesso dovute scontrare con l’idea atavica dello stato come sede di un potere assoluto e piramidale, impermeabile alle pulsioni della cosiddetta “società civile”, e con la convinzione della superiorità della concorrenza rispetto alla collaborazione.
Quel modello, che ha traghettato l’Europa verso la modernità, ha però negli ultimi decenni legittimato in molti casi una svalutazione della società, considerata come sede di appetiti parziali, sempre monca, incapace di assumere il punto di vista della totalità, salvo essere “informata” dal sovrano. Anche i tentativi tesi, negli scorsi anni, a rimodulare questo schema, ad esempio attraverso la sussidiarizzazione delle politiche sociali, non hanno scardinato tale rapporto di subordinazione, che ha condannato il Terzo settore a barcamenarsi tra attori in competizione e scarsità di risorse.
La pandemia ha forse ha aiutato ad abbattere qualche idolo e fantasma di troppo. Nelle attuali società complesse l’onniscienza del sovrano che da solo conduce alla redenzione è un’illusione, che sta avvantaggiando populismi e ciarlatani dell’ultim’ora. Non ci si salva dal baratro senza moltiplicare gli sforzi, estendendo gli spazi della solidarietà, allargando il perimetro delle alleanze possibili, permettendo all’intelligenza collettiva di esprimersi e di immaginare nuovi mondi, contrastando l’assolutezza di un mercato assurto a norma di verità. La piramide, qui, è capovolta: non c’è un potere che dall’alto decide, ma la potenza della collettività che si oppone all’arroganza dei singoli per allargare i confini della partecipazione e della democrazia.
Non è una sfida che inizia adesso: è questo il terreno in cui il Terzo settore, in Italia, ha lavorato e si è battuto per anni, spesso agendo nei margini, abitando gli interstizi, aprendo delle crepe in maniera ardita e innovativa. Alla base c’è l’idea che il perseguimento dell’interesse generale non sia un affare esclusivo dello Stato, concepito come entità monolitica e astratta, ma che le persone in carne e ossa abbiano tutte le capacità per poter lavorare in questa direzione, assumendo una precisa postura e maturando, al contempo, esperienze ed abilità specifiche, costruendo nuove forme di azione e di imprenditorialità sociale.
Il Terzo settore si è costituito all’interno di questa specifica vocazione, strappando l’interesse generale all’aura sacrale della sovranità pubblica e riportandola all’iniziativa dei cittadini che, dentro le comunità, creano nuovi modelli di convivenza e di sviluppo. Del resto, la cooperazione e la condivisione non sono sinonimo di spontaneismo o di esclusivo volontarismo: cambiamenti così strutturali necessitano della maturazione di competenze e professionalità, nonché di capacità di governo dei processi. In prima linea, su questo fronte, ci sono state in particolare le imprese cooperative e sociali, che hanno perseguito finalità di interesse collettivo senza rinunciare alla propria vocazione produttiva, divenendo motore di un nuovo modello di economia sociale.
Oggi la coprogrammazione e la coprogettazione descrivono un nuovo orizzonte istituzionale in cui è riconosciuta la possibilità di un’“amministrazione condivisa” del reale, alternativa alle logiche della competizione e del profitto. È necessario, adesso, fare in modo che tale modello si concretizzi sfuggendo ai tanti rischi già in agguato. Si tratta innanzitutto di comprendere, come afferma Luca Fazzi nell’ultimo numero di “Impresa sociale”, quali sono i problemi da affrontare e gli strumenti da adoperare per favorire e rendere effettive la collaborazione e l’innovazione.
Sarebbe necessario innanzitutto connettersi con quelle esperienze che hanno già messo in campo forme virtuose di coprogettazione, rompendo le logiche della dipendenza e della subordinazione. Bisogna, inoltre, rafforzare la vocazione inclusiva delle organizzazioni, superando gli steccati, favorendo l’istaurazione di dinamiche di fiducia e reciprocità, che costituiscono il presupposto per collaborare e connettersi ai bisogni. Il cambiamento esige dinamismo e coraggio, per questo è fondamentale rifuggire l’accomodamento su logiche di standardizzazione e burocratizzazione.
C’è insomma da recuperare il carattere collettivo della decisione, vincendo gli egoismi e moltiplicando gli attori, le energie e i soggetti che contribuiscono a disegnare il futuro delle comunità, ridando nuova linfa alla democrazia.
Il presente articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2021 su Economia Civile, inserto di Avvenire, ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.