Le pratiche, più che le strategie, di gestione del cambiamento organizzativo muovono solitamente lungo due percorsi principali, dove gli ostacoli da superare non mancano.
Il primo riguarda la riattivazione attraverso una conversazione (quasi maieutica) di un dialogo, ormai sempre più tra sordi, con gli stakeholder. Soggetti rappresentati attraverso modelli standard che rimandano a schemi e categorie novecentesche dove le eccezioni prevalgono sempre più sulla regola. Comunità locali sempre più dislocate e artificiali; lavoratori con contratti dove l’atipico è la regola, delineando una molteplicità di rapporti: dipendenza, collaborazione, comproprietà; fornitori che entrano sempre più nel sancta sanctorum del core business non limitandosi a fornire beni e servizi strumentali. E poi clienti che fanno la voce grossa, amplificata dal canale digitale, non solo sulla qualità del prodotto / servizio, ma sui suoi significati maneggiando codici simbolici e dimensioni culturali. Così per sfuggire da una mappa degli stakeholder che rischia di ridursi, come gli organigrammi, a simulacro organizzativo è necessaria di un’azione che ridefinisca categorie e finalità della cultura manageriale delle imprese, soprattutto quelle con finalità sociale, con l’intento di produrre uno sforzo non semplicemente per riposizionarsi su mercati in trasformazione, ma per rifasarsi rispetto alla società nel suo complesso che è reduce da una trasformazione epocale nella sua stratificazione sociale ed economica.
Il secondo percorso riguarda l’organizzazione e la gestione delle attività connesse alla crescita. Su questo fronte l’impressione è che molte istituzioni e imprese si trovino nel classico, e scomodo, metà guado. Hanno tagliato, spesso in modo traumatico, i ponti con il passato facendo dimagrire, a colpi di efficientamento, le tradizionali strutture di ricerca, progettazione, formazione. D’altro canto stanno ancora alla finestra rispetto a processi di generazione di conoscenza che richiedono alti investimenti a volte anche economici, ma certamente in termini di fiducia rispetto ad interlocutori interni ed esterni che, a determinate condizioni, da concorrenti possono trasformarsi in partner. Un blocco che è legato a una pluralità di cause: scarsa conoscenza delle opportunità di contesto (anche interno) e difficoltà a focalizzare il proprio saper fare non in un’ottica difensiva ma come driver di apertura e connessione. Una modalità, quest’ultima, che consentirebbe di riequilibrare il baricentro fiduciario tra condivisione dei mezzi e dei fini. Perché condividendo solo i mezzi si aprono le porte, dietro al velo di un malinteso pragmatismo, a comportamenti opportunistici “mordi e fuggi” e condividendo solo i fini, senza capacità realizzativa, si cavalca un’adesione identitaria fine a se stessa. Un feticcio che svuota progressivamente i contenuti valoriali. Costruire identità deve mettere in campo scelte che si misurano anche in termini di efficienza e non solo di principi.
Le traiettorie di questi due percorsi rischiano così di incrociarsi su un binario morto, rappresentato da una comune posizione di marginalità rispetto ai processi produttivi e alla governance. La parte hard del funzionamento organizzativo fatica a incorporare stabilmente gli apporti di un sistema variegato di portatori di interessi, aspirazioni e risorse che spesso viene letto come un elemento che ingolfa la “gestione caratteristica”. Inoltre relega la ricerca e sviluppo, qualora presente come unità organizzativa e voce di bilancio, negli spazi rappresentati da studi di fattibilità, progettazione (di massima) e valutazione. Testa e coda di un processo che poi si alimenta da sé, con buona pace del “trasferimento tecnologico”.
La tentazione di codificare questo status quo per dare il là a ristrutturazioni, incorporazioni, fusioni che nell’immediato, e forse in apparenza, risolvono i problemi, parcheggiando il dialogo con gli stakeholder nelle pratiche di Csr e la ricerca e sviluppo nel chiuso dei laboratori è forte.
Ma da questo incrocio tra capacità di dialogo allargata e produzione di conoscenza orientata allo sviluppo si può generare un meccanismo di apprendimento virtuoso se l’obiettivo è la creazione di significati il più possibile condivisi rispetto alle iniziative intraprese. Concretamente significa modificare il processo di “lettura dei bisogni” per alimentare, con esso, non solo azioni di advocacy rispetto alle risposte da dare, ma anche, e soprattutto, un crowdsourcing delle soluzioni, consapevoli del fatto che queste ultime non possono più essere strutturate in forma di servizi solo nell’alveo dei “soggetti gestori”. E’ necessaria una fase istituente capace di generare soluzioni e non solo servizi poggiando su una conoscenza che recupera la teoria riconnettendola alla pratica.
Il caso della povertà educativa è emblematico in tal senso: un problema reso evidente attraverso la raccolta e l’analisi di dati e informazioni che hanno svelato l’esistenza e le dimensioni di un “nuovo” fenomeno al quale ha fatto seguito una risposta, dopo qualche anno di sperimentazioni pionieristiche, attraverso bandi che, nella loro architettura, premiano interventi di welfare comunitario. Un processo che prevede quindi di diffondere e rendere più inclusivi gli approcci di peer production tra specialisti, facendo leva non solo su competenze codificate, ma anche su motivazioni e conoscenze tacite che non sono estraibili in forma compiuta ma elaborate e capitalizzate attraverso modelli di piattaforma analogici e digitali che agiscono come sense-maker e non come semplice “supporto tecnico”. Un contributo ben esemplificato dalla piattaforma Cimulact che staprovando a ridisegnare l’agenda europea di ricerca coinvolgendo i cittadini, oltre ad “addetti ai lavori” fin qui organizzati in “comunità scientifiche” chiuse. Il futuro, come ricorda Luca Debiase, ha bisogno di investimenti nella conoscenza che anche nel non profit cominciano a essere sfidanti. La nozione di intelligenza collettiva, per esempio, in questo contesto, appare una frontiera decisiva per le organizzazioni socialmente impegnate che fanno dell’innovazione il loro ruolo strategico: si può migliorare la modalità con la quale le persone decidono insieme investendo nel design di migliori piattaforme per lo scambio di informazioni di qualità destinato al coordinamento delle decisioni collettive?”
La risposta è positiva nella misura in cui si può disporre di modelli organizzativi fondati, come ricorda Henry Mintzberg, sulla meta capacità di “orchestrare reti” e che Yochai Benkler declina attraverso due meccanismi principali: 1) un adeguato sistema di incentivi materiali e immateriali per soddisfare motivazioni intrinseche; 2) un modello proprietario che condivide il valore creato in ottica allargata utilizzando assetti ispirati alla governance dei commons. Senza queste “capacità cooperative”, prosegue Benkler, le organizzazioni, anche di natura imprenditoriale, sono destinate a soccombere rispetto a modalità aggregative transitorie e di scopo, soprattutto quando le risorse di capitali e di conoscenza legate a innovazione sociali e tecnologiche sono molto distribuite ed accessibili. Proprio come nella fase attuale.
Questo articolo è stato pubblicato anche su Tempi Ibridi, blog curato da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, con cui Percorsi di secondo welfare ha deciso di “contaminarsi”.