Se è vero che il colpevole torna sempre sul luogo del delitto allora per l’impresa sociale significa rifondare il suo rapporto con il mercato. È questo tema infatti che segna un prima e un dopo nell’evoluzione del settore non profit, il suo principale scalino evolutivo degli ultimi quarant’anni e che coincide con la nascita del primo modello di impresa sociale (la cooperazione sociale). Dopo questa iniziale rottura che ha marcato le differenze rispetto alle modalità tradizionali di organizzazione sociale di tipo charity, nelle sue versioni più recenti il richiamo al mercato ha assunto una connotazione emancipatoria (e per certi versi più autentica) come antidoto alla dipendenza dalle risorse redistribuite per via pubblica (dimenticando, o non volendo vedere, che la regolazione è spesso di stampo mercatista). Ma non solo, sempre il mercato viene additato come possibile elemento traviante la missione della stessa impresa sociale che evidentemente non sembra in grado di domarlo rispetto alle proprie finalità di interesse generale. Una deriva “business like” che finirebbe per diluire gli elementi identitari di questo modello d’impresa all’interno di contesti economici popolati da attori concorrenti (che peraltro si affacciano sotto le parvenze di un nuovo terziario sociale o della responsabilità sociale).
Approcci diversi, quasi contraddittori, che non fanno altro che testimoniare la centralità della questione.
Per districarsi potrebbe essere utile guardare ai modelli di produzione del valore, cercando di estrarre elementi ricorrenti, oppure, come si tenterà di seguito, di focalizzare due macro approcci al mercato che scaturiscono da elementi di programmazione strategica e di filosofia del servizio.
Il primo approccio, quello tutt’ora dominante soprattutto tra imprese sociali che operano all’interno di alcuni importanti segmenti del welfare (socio-assistenziale, sanitario, educativo), è quello dell’incapsulamento del mercato già analizzato dal gruppo di Federico Butera quasi vent’anni fa. Consiste, in buona sostanza, nell’intervenire attivamente non solo in sede di offerta ma di costruzione dell’arena mercantile, agendo soprattutto la leva del policy making. Un approccio diffuso soprattutto su scala micro e meso territoriale che spinge molto sull’integrazione funzionale dei diversi attori coinvolti e che richiede un investimento consistente su una visione e su un know-how condiviso assegnando a tal fine centralità a soggetti che svolgono funzione di agenzia. Un modello integrativo che trova il suo cardine metodologico nei processi di co-programmazione e co-progettazione oggi tornati alla ribalta grazie alla riforma del terzo settore, ma che presenta anche elementi di sofferenza. In primo luogo perché il modello è sempre più “energivoro” in termini di risorse necessarie per il dimensionamento di modelli organizzativi non solo settoriali ma territoriale. In secondo luogo perché la routine del processo di programmazione e progettazione rischia di rafforzare legami di natura bonding col rischio di una deriva da group think cioè soggetti coesi ma esposti al rischio dell’autoreferenzialità frenando così l’allargamento e la differenziazione dell’offerta. Una prospettiva, quest ultima, che se non manutenuta attraverso azioni d’innovazione aperta, rischia di muoversi su filiere di servizi a basso valore aggiunto. Sono questioni rilevanti particolarmente in una fase in cui le risorse destinate a funzioni di coordinamento e di supporto alla costruzione di reti tendono a ridursi e si assiste a una progressiva messa in discussione delle funzioni di intermediazione con una quota crescente del welfare che sfugge, o non è considerata, parte integrante di questo modello.
Una disintermediazione quella che un certo dispregio gli addetti ai lavori chiamano “welfare fai da te” che peraltro è figlia non solo di posizioni antisistemiche e di nuovi modelli di consumo “on demand”, ma che proviene anche da componenti interne, in particolare da attori non profit insofferenti per l’eccessiva dipendenza dal percorso (path dependence) perché animati da obiettivi di innovazione più radicali. Si pensi ad esempio al crescente numero d’imprese sociali di nuova generazione o di fondazioni operating che si orienta a logiche non solo erogative ma che apre la propria governance al venture philanthropy.
Il secondo approccio, che si potrebbe definire emergente, è quello dell’annidamento (nesting) all’interno di mercati e di politiche, come argomentano Osti e colleghi. L’arte di annidarsi o meglio di “costruire un processo armonico e non simbiotico” rappresenta ben più della capacità di veicolare innovazioni di prodotto e di servizio all’interno di piattaforme e reti distributive generaliste. Rappresenta piuttosto una componente chiave di più ampi processi di innovazione sociale come dimostra, ad esempio, il welfare aziendale. Da una parte questo sistema di servizi sollecita un ridisegno profondo dell’offerta del primo welfare (frutto dei meccanismi di incapsulamento di cui sopra) ma dall’altra richiede di posizionarsi all’interno di filiere ben più differenziate ed estese come i servizi di facilitazione della vita quotidiana, della cultura, della mobilità, del turismo, ecc. Oppure, su tutt’altro fronte, le produzioni in campo agricolo, oltre a sollecitare il modello di servizio sociale legato a progetti educativi e di inclusione, sono chiamate a trovare il loro spazio e la loro sostenibilità all’interno di mercati dove km0, biologico, esperienziale ecc. sono ormai elementi qualificanti della catena di produzione del valore.
L’impresa sociale su questo fronte agisce quindi non con intenti di governance sistemica ma all’interno dei varchi aperti da nuovi modelli di consumo e di partecip-azione sociale oltre che dall’innovazione tecnologica e finanziaria. Prodotti e servizi che fanno da interfaccia non solo con altri specialisti del settore, ma soprattutto con coloro che questi stessi beni consumano e che anzi possono contribuire a co-produrre. Un approccio che comunque, nonostante l’accelerazione recente, ancora fatica ad affermarsi perché non ha ancora definito un modello di crescita capace di rendere compatibili elementi di sviluppo che seguono direzioni diverse: personalizzazione vs economie di scala; accessibilità economica vs plusvalore sociale; intensità di capitale e attivazione dal basso, ecc.
A questo punto è forte la tentazione di chiedersi quali tra questi approcci sia più efficace e utile per promuovere soluzioni d’interesse generale. Meglio continuare a incapsulare facendo leva sulla coprogettazione col settore pubblico o provare ad annidarsi magari investendo in innovazione digitale “user e human centered”?
La risposta non può essere univoca perché dipende da una molteplicità di variabili legate alla natura della produzione, alle caratteristiche del contesto, alle competenze dei soggetti in campo e alla natura dei bisogni. Ma questa complessità non impedisce di individuare il traguardo. Ora infatti che la normativa in materia di terzo settore e impresa sociale ha codificato una molteplicità di settori che definiscono cos’è di interesse generale per la nostra società, il focus dell’azione si può (e si deve) spostare sul versante della trasformazione sociale e dell’impact management, ovvero sulla capacità di individuare sfide comuni e di contribuire a rinnovare sistemi di regolazione e comportamenti sociali.
Fino a qualche anno fa, in un quadro con più ordine istituzionale, pace sociale e regolazione di mercato, l’incapsulamento era la strategia se non migliore certamente più naturale da intraprendere. Ma in un contesto come quello attuale la capacità di re-intermediare e socializzare non può esimersi dal tentativo di rigenerare la dimensione di legame sociale propria della forma di scambio che è insieme la più importante e la più compromessa in termini relazionali cioè il mercato. Una sfida tutt’altro che semplice ma che a differenza del recente passato può contare su un’attore come l’impresa sociale più maturo in termini di capacità applicativa e al tempo stesso abilitato ad operare all’interno di nuove arene mercantili che sempre più intercettano economie importanti del paese e delle sue comunità.
Questo articolo è stato pubblicato su Tempi Ibridi, blog curato da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, con cui Percorsi di secondo welfare ha deciso di “contaminarsi”.