Come avviene oggi la rieducazione dei detenuti nelle carceri italiane? I dati ufficiali sulla recidiva dicono che il 68,5% degli ex-detenuti commettono reati dopo essere usciti di prigione, numeri più realistici parlano dell’80% e oltre. I detenuti che durante il periodo in carcere hanno la possibilità di lavorare hanno invece una percentuale di recidiva molto più bassa della media, inferiore al 10%. Con il lavoro si aprono importanti opportunità di socializzazione e reinserimento, ma si apre anche un percorso individuale della scoperta di sé, della propria identità, e della relazione con l’altro.
Il problema si pone però guardando i numeri di coloro che lavorano oggi nelle carceri italiane .I detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione carceraria sono circa 12 mila ma non hanno grandi possibilità di professionalizzazione e imparare un mestiere. Su una popolazione carceraria di 53.623 persone, solo 2.324 hanno una opportunità di conoscere il lavoro "vero" (poco più del 4%). Negare il diritto al lavoro equivale a privare i detenuti di uno degli aspetti salienti della vita: la relazione con le persone e con la realtà. Per questo il lavoro da prospettare ai detenuti deve essere un lavoro vero, non occasioni fittizie e di dubbia qualità. Sennò non ci sarà nessuna rieducazione.
Sul tema Percorsi di secondo welfare, insieme al CESEN e al Fetzer Institute, nel 2015 ha pubblicato un working paper (disponibile in italiano e in inglese) dedicato alle attività della Cooperativa Giotto, che a partire dagli anni Novanta ha offerto opportunità di inserimento lavorativo a centinaia di detenuti del carcere Due Palazzi di Padova.
Il carcere rieduca se il lavoro è vero
Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi, Avvenire, 30 dicembre 2015