6 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Il panorama filantropico internazionale è attraversato da crescenti sollecitazioni che invitano fondazioni filantropiche e altri enti finanziatori a costruire relazioni più equilibrate con le organizzazioni non profit che supportano, adottando modalità di lavoro più collaborative, trasparenti, improntate alla fiducia e alla reciprocità.  Le trasformazioni verso quella che viene chiamata filantropia trust-based (basata sulla fiducia) – sulla quale Percorsi di secondo welfare ha curato un rapporto documentale di prossima pubblicazione  – presuppongono un cambiamento culturale profondo, che mette in discussione i ruoli e le prassi di tutti i soggetti coinvolti.  L’obiettivo è quello di intervenire per accrescere il capitale sociale sui territori, rafforzare le capacità degli enti del Terzo Settore e perseguire un cambiamento sistemico e di lungo periodo.

La necessità di un cambio di paradigma

Per comprendere l’urgenza di un cambio di paradigma di questa portata, è necessario osservare come alcune pratiche filantropiche tradizionali penalizzano il settore non profit: finanziare attività progettuali escludendo o riducendo al minimo la copertura dei costi di struttura, per esempio, non favorisce lo sviluppo di questi enti, né la realizzazione della loro mission. In Italia, il fenomeno è profondamente connotato anche dal punto di vista ideologico, che presuppone che il Terzo Settore debba “costare poco” e che addirittura vede in questo disinvestimento strutturale un indicatore di efficienza e di serietà (sul tema si veda ad esempio questo contributo della Segretaria Generale di Assifero Carola Carazzone).

Due miti da sfatare per evitare l'agonia per progetti del Terzo Settore

Oltre alle modalità di selezione delle organizzazioni da sostenere, alle caratteristiche del supporto (non solo finanziario) e alla sua concreta attuazione, anche la valutazione degli interventi realizzati è diventata oggetto di riflessione critica.

In questo campo, la sfida è quella di immaginare la valutazione non tanto come un modo per “dimostrare” di aver generato un (improbabile) impatto significativo su questioni sociali complesse attraverso un singolo finanziamento, quanto come una preziosa occasione di apprendimento e di crescita per fondazioni e organizzazioni1.

I limiti dell’impostazione tradizionale 

La “svolta strategica” che ha investito il mondo filantropico dagli inizi del ventunesimo secolo ha spinto le fondazioni a stabilire obiettivi chiari e a misurare i risultati ottenuti. Il processo che ne deriva è fortemente top-down: le fondazioni individuano gli outcome che intendono generare e le modalità con cui sarà verificata l’efficacia, e chiedono alle organizzazioni beneficiarie di dimostrare di aver raggiunto i risultati previsti.

In questo modo gli enti filantropici mantengono una “posizione dominante” nell’individuare i fenomeni sociali su cui concentrarsi e i cambiamenti auspicati, mentre le organizzazioni risultano monitorate per legittimare l’azione delle fondazioni che le sostengono: attraverso metriche e KPI (key performance indicators), ciascuna fondazione misura la performance dei propri beneficiari e, aggregando i risultati ottenuti da questi ultimi, deriva l’impatto generato dalla fondazione stessa.

Le fondazioni filantropiche? Adesso sostengano organizzazioni, non progetti

La misurazione della performance delle organizzazioni del Terzo Settore, inoltre, appare poco equilibrata anche sotto un altro profilo. Le modalità tradizionali con cui le fondazioni filantropiche sostengono questi enti, ovvero il sistema dei bandi per il finanziamento di progetti, secondo diversi osservatori hanno prodotto organizzazioni deboli, in concorrenza fra di loro, gravate dagli oneri di rendicontazione e di reportistica (inclusa quella relativa al monitoraggio e alla valutazione), nonché perennemente dipendenti dalle fondazioni stesse.

Date queste premesse, il potenziale di cambiamento del Terzo Settore risulta esplorato solo parzialmente, e rischia di non essere colto da pratiche valutative miopi che guardano solamente ai risultati raggiunti dai singoli progetti anziché ai più ampi processi innescati. Per questo, gli enti filantropici dovrebbero promuovere il rafforzamento strutturale del Terzo Settore attraverso un sostegno diretto alle organizzazioni e alle loro mission, flessibile e non vincolato a specifiche attività progettuali, che preveda strategie di valutazione più eque e orientate a cogliere il valore generato.

Verso una valutazione più equa e relazionale: la Equitable Evaluation Initiative

Per allineare le pratiche valutative ai valori di trasparenza, equità e redistribuzione del potere, è nata nel 2019 la Equitable Evaluation Initiative, che attraverso il lavoro di una comunità di pratiche ha elaborato l’Equitable Evaluation Framework (EEF): una guida rivolta a tutti gli attori dell’ecosistema filantropico (fondazioni, organizzazioni non profit, enti di valutazione).

La guida approfondisce aspetti interni a ciascun ente filantropico – come i principi, le attitudini e le tensioni incontrate – che rappresentano possibili punti di partenza per ripensare le proprie pratiche e abbracciare gradualmente nuove modalità di valutazione, orientate alla fiducia e all’equità (si parla di valutazione di stampo relazionale, relational evaluation).

Terzo Settore: la sfida della misurazione e valutazione dell’impatto e della sostenibilità

Julia Coffman e Chera Reid, co-direttrici esecutive del Center for Evaluation Innovation fino al 2023, hanno approfondito in un recente contributo tre dimensioni trasversali – centrali anche per altre forme di valutazione – esplorando il modo in cui la valutazione relazionale potrebbe manifestarsi e il ruolo che le fondazioni potrebbero giocare per promuovere una filantropia basata sulla fiducia:

Accountability

tipicamente, l’accountability è unidirezionale (le organizzazioni beneficiarie devono rendere conto agli enti finanziatori). L’approccio trust-based, invece, predilige una accountability basata sulla reciprocità e invita anche le fondazioni a mettersi in gioco in maniera più trasparente all’interno del rapporto con i propri partner, costruendo uno spazio relazionale sicuro in cui anche gli enti beneficiari possano esprimersi e dare dei feedback. A questo scopo sono stati elaborati strumenti specifici, come il CHAT (CHeck-in Analysis Tool) della Robert Sterling Clark Foundation2, che guida uno scambio dialogico tra lo staff della fondazione e i membri delle organizzazioni per condividere informazioni, discutere di eventuali criticità ed esigenze emergenti, riflettere e valutare l’efficacia del lavoro svolto dalla fondazione.

Apprendimento

Di fronte alla complessità dei fenomeni sociali sui quali ci si propone di intervenire, le fondazioni sono invitate non a individuare strategie proprie, ma a supportare quelle individuate dal Terzo Settore. Possono farlo mettendo a disposizione le proprie capacità (finanziarie, ma anche di leverage, comunicazione, capacity building, advocacy, match-making, etc.) e, soprattutto, gli apprendimenti acquisiti e le conoscenze maturate nel tempo. Analizzando opportunità, bisogni e dinamiche (domandandosi, per esempio: “Quali capacità il sistema ha bisogno di sviluppare per accelerare il cambiamento che auspica?”), le fondazioni possono raccogliere e condividere dati utili per supportare le comunità a perseguire il cambiamento da esse ricercato (per esempio, chiedendo alle organizzazioni di definire, all’inizio della collaborazione, ciò che per loro costituirebbe il successo dell’intervento, e impostare di conseguenza il monitoraggio e la valutazione).

Impatto

L’illusione di poter misurare l’impatto prodotto da un singolo intervento finanziato su un sistema complesso attraverso metriche stabilite a priori dal finanziatore suggerisce alle fondazioni di adottare una prospettiva più ampia, sistemica, che dia voce ai diversi stakeholder circa la definizione e la valutazione dell’efficacia dell’azione. Nel concreto, le fondazioni possono sviluppare una teoria del cambiamento community-based, considerare periodi temporali più ampi (5-10 anni) per la valutazione dei progetti, adatti a osservare trasformazioni complesse, ed evitare di attribuire il cambiamento o il mancato cambiamento a singoli finanziamenti o enti beneficiari.

Perché immaginare un nuovo approccio alla valutazione è fondamentale per la filantropia

Storicamente, le pratiche di valutazione portate avanti dalle fondazioni nascono per documentare i risultati, l’efficacia e l’efficienza (rispetto ai fondi investiti) dell’azione filantropica, e attribuiscono l’onere di tale documentazione ai beneficiari che portano avanti le attività finanziate. Tenere a mente le radici storiche e politiche della valutazione significa ricordare che essa rappresenta un modo per “determinare il merito, il valore e l’importanza delle cose”. Pertanto, è rilevante interrogarsi su chi abbia il potere di determinare i contenuti delle domande (che cosa è necessario indagare per valutare un intervento) e i criteri per valutare le risposte (quale risultato costituisce un successo e quale no): un potere per lungo tempo concentrato solo nelle mani di coloro che dispongono delle risorse per finanziare progetti e programmi di intervento.

Attualmente il recente impulso a orientare la valutazione in campo filantropico all’equità, alla diversità e all’inclusione si interroga su come la valutazione possa accogliere le prospettive multiple delle organizzazioni e delle comunità, rispondendo al tempo stesso alle esigenze strategiche e programmatiche delle fondazioni. In altre parole, l’ambizione è quella di passare dalla valutazione “su qualcosa” alla valutazione “per qualcosa”: per raccogliere informazioni significative e utili, per aiutare tutti i soggetti coinvolti a prendere decisioni, e per condividere gli apprendimenti all’esterno facendone patrimonio conoscitivo comune.

La cultura del dato nel Terzo Settore

In tal senso, la valutazione può assumere un ruolo determinante nell’assicurare che le partnership (tra fondazioni filantropiche e organizzazioni del Terzo Settore) e le comunità (cui gli interventi realizzati dal Terzo Settore sono rivolti) partecipino equamente alla produzione della conoscenza, valorizzando il punto di vista di ciascuno: l’esperienza diretta dei membri della comunità, l’expertise maturata dalle organizzazioni che da tempo lavorano in un dato settore, e lo sguardo esteso di cui godono le fondazioni.

In un contesto sociale attraversato dall’incertezza e dalla complessità, infatti, gli enti filantropici continuano a ricoprire una posizione privilegiata, in quanto detentori di vari tipi di capitale (economico, umano, relazionale, reputazionale) da cui deriva un potenziale strategico e conoscitivo unico, che consente loro di sperimentare, apprendere e avere una visione più ampia rispetto ai confini delle singole organizzazioni. Anziché considerare la valutazione come un mezzo per controllare le performance degli enti non profit, le fondazioni hanno la possibilità di sfruttarla, per sé e per gli altri attori dell’ecosistema filantropico, come un’opportunità di apprendimento e di adattamento strategico, supportando un cambiamento più incisivo e contribuendo a una pratica filantropica più equa e giusta.

Note

  1. Il tema è stato messo a fuoco all’interno di un webinar co-organizzato dal Trust-Based Philanthropy Project e dal Center for Evaluation Innovation nel 2022; un articolo dedicato è disponibile qui.
  2. La traccia della conversazione secondo il metodo CHAT è liberamente scaricabile qui.
Foto di copertina: fauxels, Pexels.com