Quando si cominciò a pensare di misurare il «valore» della cooperazione internazionale e delle attività non profit la gran parte degli interessati si scandalizzò. Poi si comprese che la valutazione d’impatto serviva a non disperdere energie e ad aiutare in maniera più efficace chi ne aveva necessità.
Da un «buonismo» generico si pasava a progetti di ingegneria sociale: si ponevano le basi per un ripensamento del Terzo settore. La cui riforma, non a caso, ha inglobato criteri di misurazioni piuttosto generici, perché non è possibile individuare formule standard applicabili a tutti i campi di intervento. Non limitandosi all’apparenza del dibattito in corso, spesso travisato da preconcetti e semplificazioni, ci si accorge che il problema della misurazione d’impatto è la punta emergente di un iceberg in movimento foriero, per fortuna, di buone notizie.
Il Terzo settore, la Cenerentola relegata nell’angolo di un mondo affannato a massimizzare i profitti, sta così lentamente ibridando le economie di tutto il mondo. La scorsa primavera, per esempio, l’amministratore del più grande fondo d’investimenti Usa ha scritto una lettera di questo tenore: non venite da noi a chiedere soldi se non dimostrate l’impatto sociale delle vostre attività. Nella dichiarazione ci sarà pure un calcolo di marketing, ma resta il fatto che intercetta e detta un orientamento. Il professor Mario Calderini del Politecnico di Milano – direttore di Tiresia, il centro di ricerca che si occupa di tecnologia, innovazione e impatto sociale – ha spiegato a Pier Luigi Vercesi che tra profit e non profit si sta creando, a livello planetario, un’area vastissima in cui i due tipi di attività si incontrano.
La misura del bene, il Terzo settore va alla prova dei numeri
Pier Luigi Vercesi, Corriere Buone Notizie, 30 ottobre 2018