Il 6 e 7 ottobre l’Ufficio Pio, ente strumentale della Compagnia di San Paolo, ha festeggiato a Torino i primi tre anni del Progetto il Trapezio. Una due giorni di incontri per condividere i risultati raggiunti, e discutere il tema della vulnerabilità. Un fenomeno recente, che vede persone considerate “normali” cadere in una condizione di difficoltà economica che spesso, senza aiuto, si trasforma in povertà vera e propria. Un progetto innovativo, sia per le aree di intervento e che per la modalità d’azione.
L’attenzione ai nuovi bisogni
Iniziato nel 2008, il Trapezio ha sperimentato soluzioni innovative, grazie anche al coinvolgimento di una rete di partner, per aiutare i “trasparenti”. Tutti coloro che, benchè si trovino in una condizione di forte difficoltà economica, non considerano se stessi e non vengono considerati “poveri”, e dunque stentano a cercare e a trovare aiuto.
Il target del progetto sono proprio i “vulnerabili”, persone che hanno sempre vissuto una condizione di “normalità” e sono cadute in difficoltà a causa di un avvenimento destabilizzante, tra cui sempre più spesso figura la grave crisi economica che vive il Paese. Cittadini che, se aiutati a ricominciare, hanno ancora risorse, umane e professionali, per risollevarsi e rendersi indipendenti. La novità dell’iniziativa sta proprio nella definizione di obiettivi nuovi: chi lavora nel sociale si è da tempo accorto dell’emergere del nuovo fenomeno della “vulnerabilità”, che stenta invece ad essere riconosciuto dal welfare tradizionale.
L’indebolirsi del ceto medio, segnalato dalle statistiche che vedono l’aumento della povertà, assoluta e relativa, degli italiani, è un fenomeno che non trova risposte da parte del pubblico, in costante arretramento e tradizionalmente squilibrato a favore della spesa pensionistica.
Ancor più preoccupante, come spiegato da Maurizio Ferrera durante i lavori, la povertà colpisce oggi più duramente i minori e le loro famiglie, diventando per i giovani una sorta di “carriera” che si porteranno dietro tutta la vita: studi non terminati, disoccupazione, lavoro precario e a basso reddito, e pensioni misere. Uno spreco di capitale umano che a sua volta danneggia lo sviluppo della società nel suo complesso.
Lo spostamento delle risorse “dai padri ai figli” è, purtroppo, un’impresa che richiede tempo e incontra forti resistenze politiche, specialmente nel contesto economico odierno. La tutela dei nuovi bisogni rimane così, troppo spesso, una richiesta inascoltata da parte delle istituzioni.
In questo contesto si inserisce il così detto “secondo welfare”, di cui il privato sociale costituisce il principale “tassello”. Le Fondazioni, con risorse proprie, progettualità interna e forte radicamento territoriale, sempre di più assumono un ruolo di leadership nell’innovazione sociale.
Il Trapezio opera in una di quelle “aree grigie” dell’assistenza, e lo fa in un’ottica di investimento sociale anziché applicare una logica assistenziale. Punta sul rilancio della persona tramite la definizione di un progetto di lungo periodo, studiato in base al caso specifico e con un forte coinvolgimento del beneficiario. La presa di coscienza e la motivazione sono punti cardine del programma, insieme con la sostenibilità economica. Lo scopo finale è quello, infatti, di riportare la persona e la sua famiglia in una condizione di indipendenza economica di lungo periodo.
Le modalità di intervento
Come spiegato da Piero Gastaldo, segretario generale della Compagnia di San Paolo, la logica con cui opera il Trapezio non è solo erogativa, ma comprende un lavoro preliminare di progettazione di un percorso individuale e presuppone il coinvolgimento attivo dei beneficiari e l’intervento di una pluralità di soggetti che lavorando insieme per realizzare e finanziare quelli che sono “progetti a rete”. L’obiettivo è quello di prevenire la povertà attraverso un processo di stabilizzazione e inversione della condizione personale, fino ad arrivare ad una situazione soddisfacente di recupero dell’indipendenza economica del soggetto.
Gli interventi possono essere sia a fondo perduto, che di finanziamento di attività. Dall’inizio del progetto le proposte avanzate da giovani sotto i 35 anni sono aumentate, fino a raggiungere oggi il 33% del totale, mentre quelle degli over 50 sono solo il 19%, probabilmente a causa della difficoltà di fronte al rischio progettuale. Interessante notare che la scolarizzazione dei beneficiari è alta, con il 55% delle persone laureate o diplomate, e nel 2010 crescono al 57% le situazioni di “reddito scarso” mentre diminuiscono al 34% quelle di “mancanza di reddito”. Questi dati sembrerebbero testimoniare il diffondersi del recente fenomeno della disoccupazione tra i giovani con più alte qualifiche, che stentano a trovare occupazioni stabili e non possono contare sull’aiuto dei servizi per il lavoro, che si occupano tradizionalmente di collocare lavoratori con qualifiche più basse.
Le fasi del progetto sono quattro. La prima, di selezione, valuta la presenza di tre requisiti: la situazione di equilibrio preesistente, la presenza di un avvenimento destabilizzante e il rischio connesso di impoverimento economico. L’accoglienza successiva prevede analisi, approfondimento e valutazione di sostenibilità del progetto. C’è poi la fase di consulenza vera e propria, con il supporto alla progettazione del percorso e il sostegno alla realizzazione. Alcuni progetti, con attivazione autonoma da parte del soggetto, si fermano a questo stadio. Lo step finale è costituito dal patto, che sancisce il coinvolgimento del destinatario, dell’Ufficio Pio e della Compagnia di San Paolo. La sottoscrizione del patto avvia le attività previste, con l’eventuale sostegno economico, il monitoraggio, e la predisposizione di un’eventuale “restituzione” dell’aiuto.
I partner che contribuiscono allo sviluppo dei progetti sono una quarantina, tra enti non profit, istituzioni pubbliche, e soggetti privati. A cui si aggiunge tutta la rete interna dell’Ufficio Pio e della Compagnia di San Paolo.
Interessante è anche il cambio di mentalità proposto dal progetto. I “vulnerabili”, proprio perché rientrano in una condizione di “normalità”, spesso rinunciano a chiedere aiuto per non essere stigmatizzati socialmente, come accade ai beneficiari di programmi di assistenza.
I “trapezisti” non si nascondono ma anzi assumono con orgoglio il proprio ruolo: oggi sono beneficiari di un aiuto, ma domani contribuiranno allo sviluppo del progetto restituendo quel che possono, in termini di contributo economico, tempo, professionalità, e soprattutto diffondendo la conoscenza dell’iniziativa nella loro comunità e individuando possibili beneficiari, come “antenne” sul territorio. Non a caso molti di loro hanno assistito ai lavori del convegno e gestito gli aspetti organizzativi, testimoniando in prima persona le potenzialità dell’iniziativa e dando agli ospiti una sensazione di forte partecipazione emotiva.
I risultati
In tre anni, l’offerta si servizi è cresciuta del 190%, e le persone coinvolte aumentate del 93%. I volontari del progetto hanno “individuato” e incontrato 419 persone. 115 i patti stipulati, del valore medio di 22.000 euro, di cui 32 già conclusi. E’ stato realizzato un book che presenta tutte le imprese economiche attivate, che oggi restituiscono, con una donazione economica, di tempo, o ti competenze, l’aiuto ricevuto.
Per approfondire il Progetto il Trapezio, si rimanda al Quaderno di appesi a un filo