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Come studiosa di filantropia accolgo sempre come una buona notizia l’attenzione crescente a questo mondo, non solo dal punto di vista scientifico, ma dell’opinione pubblica e dei media. Nell’eccezionalità delle settimane passate, abbiamo visto mettere sotto il cappello della filantropia molte cose: se ne è parlato commentando l’aumento delle donazioni causa Covid-19, testimone della generosità italiana di sempre; se ne è parlato in queste pagine anche a proposito di proposte alternative di finanziamento del terzo settore, ad esempio tramite strumenti di tassazione; se ne è parlato quando alcune fondazioni di origine bancaria hanno – in modo straordinariamente rapido – aperto linee di finanziamento ad hoc per la risposta all’emergenza Covid-19, facendo convergere energie, risorse e competenze in un grande sforzo di riprogettazione e costruzione di nuove alleanze (un esempio il Bando Let’sGO! di Fondazione Cariplo).

Di tutto questo si è parlato sotto il cappello della filantropia. Come suggerisce l’etimo, essa abbraccia molte cose, ma con un minimo comune denominatore: la filantropia è iniziativa, creatività ed energia privata che entra nella sfera pubblica. Un privato che cerca una sfera di influenza nell’interesse generale, tramite la propria lettura dei bisogni e la propria capacità di risposta agli stessi: uno degli aspetti più affascinanti e certamente anche più critici quando si parla di filantropia e quando si fa filantropia.


Evoluzioni nella filantropia: 20 anni dopo la
venture philanthropy

Di filantropia strategica si parla ormai da più di 20 anni. Le sue evoluzioni, almeno nel continente europeo, sono in linea con le evoluzioni della filantropia statunitense e più in generale Nord Americana – tanto diversa dalla nostra, eppure tanto copiata o nel migliore dei casi emulata (si pensi al modello delle fondazioni di comunità). Difficile parlare qui di una evoluzione storica in un tema che è millenario. Di filantropia strategica però si parla dall’avvento della venture philanthropy alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Molte indicazioni sono state accolte più o meno tiepidamente – una maggiore focalizzazione del rapporto obiettivi-indicatori, l’uso di strumenti più sofisticati di allineamento di strategie e operatività come la Teoria del Cambiamento, la valutazione dell’impatto e altro ancora. Ciò che di più rivoluzionario si diceva, tuttavia, è stato più lento e difficile da cogliere: i paradigmi della venture philanthropy invitavano le fondazioni, e quindi la filantropia istituzionale, a comportarsi come venture capitalists, cioè da investitori, anche e soprattutto in ambiti rischiosi.

Due indicazioni più di altre sono ancora oggi terreno di riflessione e confronto tra le fondazioni. La prima è il ruolo delle fondazioni nella capacità degli enti nei quali si investe (il capacity building). Un investitore che crede in un progetto è disposto a fare di tutto perché il suo investimento funzioni, non solo a finanziarlo direttamente. Le fondazioni sono investitori che per natura guardano alla risposta a dei bisogni – sociali, culturali, ambientali – e quindi a qualcosa che è de facto di lungo periodo. Di conseguenza, hanno svariati asset sui quali investire: si pensi all’advice, all’accompagnamento, alla facilitazione, alla formazione stessa, alle reti, o meglio ancora alla capacità delle fondazioni di costruire e rafforzare reti, di mettere soggetti diversi attorno a un tavolo (convening power), parte integrante del loro vantaggio competitivo. Tutte questo e molto altro è il capitale della filantropia, un concetto di capitale che va ben oltre l’erogazione.

La seconda indicazione riguarda la exit strategy, cioè l’immaginazione e progettazione di scenari di uscita dall’investimento. Per la filantropia istituzionale, in particolare erogativa, questo significa in termini molto concreti porsi il tema della sostenibilità. Alcune proposte innovative ci sono state nel corso degli ultimi decenni, si pensi ad esempio agli spend-down trust (tradotti malamente con “fondazioni a termine”). Nel nostro paese come in altri paesi dell’Europa continentale tutto ciò è ben lontano dall’appartenere al passato.

Rivoluzioni nella filantropia: perchè Noè ha costruito l’Arca prima del diluvio

Se è vero che la filantropia globale sta mostrando evoluzioni nei numeri (cresce), nella sofisticazione degli strumenti (cambia), nella vivacità di soluzioni di gestione e valutazione dell’impatto (impact management and evaluation), ciò che rimane irrisolto è una riflessione sul portato rivoluzionario della filantropia, una potenzialità trasformativa che oggi ha una straordinaria occasione. Filantropia rivoluzionaria: può sembrare un paradosso per una gran parte della cultura filantropica, mondo spesso profondamente conservatore. Eppure, elevatissima è la potenzialità rivoluzionaria della filantropia nella capacità di sperimentare, che poi è poi la funzione più nobile che viene attribuita alla filantropia istituzionale: nell’accezione delle fondazioni come "imprenditori di policy" (institutional entrepreneurs) c’è dentro un po’ tutto il senso del rivoluzionario.

Le sperimentazioni nella filantropia avvengono, in vari modi e vari mondi. Due esempi su tutti. Uno è quello della finanza di impatto, un mondo che sta attivamente utilizzando le fondazioni come sperimentatori di soluzioni ibride, non sempre in modo gradito. Se è vero che l’offerta di strumenti di finanza ad impatto è sempre più elevata e diversificata, è vero anche che lo scollamento con la domanda resta alto: c’è ancora una grande fetta del terzo settore che non può accedere a determinati strumenti. Le fondazioni spesso si trovano in una posizione intermedia tra domanda e offerta, ma cosa ancor più importante, conoscono il linguaggio di entrambe le parti. Un secondo esempio è quello delle valutazioni (anche solo di outcome, senza dover scomodare l’impatto). Progettazioni che lavorino sulla cultura del dato, sull’etica del dato, sulla natura, la raccolta, l’interpretazione e infine l’utilizzo del dato e sulla potenzialità di apprendimento, sono svariate a livello internazionale o globale.

Ciò che è rivoluzionario per definizione non può essere una novità eccezionale ma transitoria, ciò che è rivoluzionario è trasformativo. Infatti, la filantropia – spesso si legge – agisce o dovrebbe agire per il cambiamento dei sistemi, cosa che peraltro è assolutamente in linea con l’ethos filantropico: nessuno agisce nel mondo della filantropia per fare qualcosa di transitorio, vogliono tutti cambiare il mondo e questo fa parte della narrazione filantropica da sempre. E allora più che mai bisogna programmare, progettare e dare benzina operativamente a soluzioni trasformative.

Sperimentare nuovi modelli di azione consente alle fondazioni di essere sia coerenti con la propria mission, sia stimolati a consegnare i risultati di tali sperimentazioni al “sistema”, un termine che può sembrare generico, ma che non lo è per nulla. È il sistema delle alleanze: alleanze professionali, dunque di visione, molto più che tematiche o settoriali. Alleanze tra soggetti filantropici coinvolti in collaborazioni innovative (collective philanthropy) o alleanze tra soggetti di varia natura, che convergono su obiettivi comuni: alleanze dove il sistema produttivo non può mancare proprio per la sua capacità di influenzare i comportamenti e le culture aziendali (in un momento storico dove così elevata è l’attenzione al tema dell’impatto, anche nel mondo produttivo), e il sistema pubblico non può mancare proprio per la sua capacità di adottare l’adozione dell’innovazione, sfruttando il doppio vantaggio della contaminazione di pratiche e della massa critica di risorse. Un sistema di alleanze più forte aiuta a ridefinire i meccanismi relazionali all’interno dei territori e le sfere di potere, rendendo più forti le comunità tutte. In questo senso si agisce sulla resilienza delle comunità, dalla quale non si torna indietro: quando arriverà il prossimo diluvio, dovremo comunque lavorare incessantemente giorno e notte per sfamare e accudire tutte le creature viventi, ma almeno avremo l’Arca.

Tre riflessioni rivoluzionarie nella loro banalità

Come può la filantropia fare tesoro della sua potenzialità trasformativa e quindi rivoluzionaria? Qualche suggerimento molto concreto. Primo: seguendo il mantra del “borrowing is the true innovation” (prendere a prestito è la vera innovazione), studiare ciò che avviene fuori dai nostri confini – siano essi settoriali, valoriali o geografici. Da due anni ormai, osservando le modalità e le strategie di impact management e impact evaluation degli investitori sociali in Europa sappiamo che il potenziale di apprendimento per il nostro paese è vastissimo. Questo non solo fa parte del ruolo delle fondazioni come sperimentatori, è il punto di partenza: la ricerca di benchmark e il networking finalizzato al confronto e alla conoscenza.

Secondo: riflettere sul concetto di impatto che più si addice alla propria azione filantropica e sulla capacità di risposta ai bisogni. Le nuove generazioni di filantropi sono molto diverse da quanto visto finora. Sono fedeli alle soluzioni, non alle istituzioni. Scelgono una causa, definiscono un obiettivo di impatto e la fondazione è solo un veicolo giuridico per raggiungere l’obiettivo. Se non funziona cambiano veicolo. Da questa logica sono nate nei primi anni Duemila le prime fondazioni a termine. Un parallelo che si può facilmente fare con gli strumenti filantropici di fondazioni più tradizionali: uscire dalla logica del bando tradizionale e disegnare soluzioni diverse basate sull’analisi dei bisogni, per differenti cause. Strumenti a termine, insomma: nati per rispondere ai bisogni, valutati nella loro bontà, abbandonati laddove non efficaci. Ma come valutarli, se non investendoci tutte le energie possibili? Da cui lo stimolo a convergere su soluzioni collettive: se qualche milione di euro sembra molto in qualche specifico contesto, la filantropia sa bene che è sempre poco rispetto ai bisogni ai quali rispondere.

Terzo: sviluppare la cultura del dato in ottica di apprendimento organizzativo. Per quanto poco possa valere il dato cumulativo, nel nostro paese esistono 6.220 fondazioni con un aumento di oltre il 154% negli ultimi 20 anni. Il patrimonio totale supera i 90 miliardi di €, di cui almeno la metà solo dalle fondazioni di origine bancaria, che si spendono a tratti sul tema della valutazione. Le erogazioni superano i 10 miliardi di € (dati tratti da ISTAT e European Foundation Center, 2019). Si contano una manciata di fondazioni di impresa (poco più di un centinaio stando a recenti dati), di cui circa il 70% dichiara di valutare l’impatto, ma di questo si sa poco o nulla. Per le fondazioni di famiglia, a parte qualche rara eccezione, questo silenzio è ancor più acuito. Possiamo essere abbastanza coraggiosi da immaginarci alleanze che dialoghino sulle dimensioni dei bisogni, sulle capacità di analisi e progettazione della risposta, sulle visioni di impatto, prima ancora che sui dettagli metodologici di misurazione? Tutto questo nell’auspicio che le fondazioni accolgano appieno la funzione di “imprenditori di policy”, facendo diventare la capacità di risposta ai bisogni il vero oggetto di lavoro sul tavolo dei policy-maker.

Tali temi saranno trattati nel corso della Impact Masterclass Live! dedicata al tema "Philanthropy & Impact investing" e organizzata da Cottino Social Impact Campus. Nel corso della Masterclass interverranno Elisa Ricciuti, Urszula Swierczynska e Sertac Yeltekin. Qui sono disponibili maggiori informazioni.