La Fondazione Welfare Ambrosiano di Milano compie dieci anni di attività. Questo ente non profit – di cui vi parlammo in uno dei primi articoli di Secondo Welfare – promuove iniziative a favore dei lavoratori in transitoria difficoltà economica che risiedono o lavorano nella Città Metropolitana di Milano e che non godono di forme di protezione pubblica o privata. Abbiamo intervistato Romano Guerinoni, Direttore Generale della Fondazione, per riflettere sulle iniziative realizzate in questo primo decennio, sui cambiamenti in atto e sugli scenari futuri in cui opererà l’ente.
Quest’anno ricorre il decennale della Fondazione Welfare Ambrosiano. Come si è evoluto il ruolo della Fondazione nella realizzazione di strumenti di welfare territoriale?
La Fondazione nasce nel 2011, nel pieno delle conseguenze economiche e sociali della crisi finanziaria del 2008. In quella fase, i sei soci fondatori (il Comune di Milano, la Provincia di Milano, la Camera di Commercio di Milano, CGIL – Camera del Lavoro Metropolitana, la CISL Unione Sindacale Territoriale di Milano, la UIL Milano e Lombardia, ndr) decisero di lanciare la Fondazione Welfare Ambrosiano con lo scopo di dare risposte efficaci a quella fascia di popolazione tagliata fuori dagli interventi tradizionali di welfare. I soci prevedevano che un forte cambiamento sociale (ma anche economico e tecnologico) fosse in atto.
Cito qualche esempio. Nel 2011 la permanenza in uno stato di disoccupazione era perlopiù temporaneo. Nel giro di 3-4 mesi il lavoratore riusciva a rientrare nel mercato del lavoro. Tali dinamiche – la fuoriuscita e il rientro nel mercato del lavoro – si sono via via irrigidite. Questo ha comportato il dilungarsi dell’intrappolamento delle persone in processi di impoverimento e indebitamento. Per non parlare poi della contrazione delle famiglie, l’incremento del tasso dei divorzi e l’aumento di nuclei familiari monogenitoriali e delle convivenze. Nel corso degli anni lo scenario è continuato a mutare. La Fondazione ha ridisegnato le sue proposte in funzione delle nuove esigenze della popolazione e sono state anche riformulate le convenzioni. Le azioni messe in campo prediligono accompagnamenti continuativi e ragionati, con strategie volte ad alleviare le fragilità nel lungo periodo.
Nel corso di questi dieci anni, quali sono stati gli interventi più significativi messi in campo?
Le iniziative sono tante, ma cito le più significative. Nel 2011 la Fondazione Welfare Ambrosiano ha stipulato una convenzione con il sistema bancario. Questa collaborazione ha dato vita al progetto del microcredito (che ora è il Credito Solidale) e che, ad oggi, ha raggiunto oltre 600 famiglie e ha garantito l’accesso al credito per 4.145.900 euro. Lo scorso luglio, la Fondazione ha siglato una nuova convenzione con Intesa Sanpaolo, con l’obiettivo di rendere ancora più capillare ed efficace il sostegno ai cittadini, inclusi i percettori di Naspi, in difficoltà (lanciato nel 2021, il fondo del Credito Solidale 2.0 consentirà di erogare fino ad un massimo di 2.250.000 euro, ndr).
Nel 2013 siamo riusciti ad intervenire nel campo delle anticipazioni sociali, con l’anticipo della Cassa di Integrazione, e abbiamo collaborato, nel corso della pandemia da Covid-19, al progetto regionale. Sempre in riferimento alle vulnerabilità individuali e familiari, nel 2018 è partito il progetto Energia in Rete, il cui obiettivo è alleviare e contrastare le povertà sociali, intercettando persone e famiglie fragili e facilitando il reinserimento nel mercato del lavoro. Circa il 57% delle persone disoccupate che ha scelto di seguire il percorso “Sostegno e Accompagno” ha poi trovato un lavoro durante il periodo di affiancamento. Non solo lavoratori dipendenti: con il progetto PartitAttiva nel 2020 ci siamo rivolti ai lavoratori freelance, le partite IVA, i professionisti con l’utilizzo di uno strumento di sostegno immediato (lo strumento del microcredito erogato da PerMicro).
Ma non vi siete occupati solo di lavoratori…
È vero, nostri interventi si sono rivolti anche alle imprese. Tra il 2018 e il 2020, siamo partiti con un progetto volto all’accompagnamento delle piccole e piccolissime imprese nella gestione ottimale della propria salute finanziaria. Un’altra iniziativa ha riguardato l’ambito del welfare sanitario di prevenzione oncologica. L’iniziativa è stata poi sospesa, ma ha giocato d’anticipo: qualche anno più tardi la prevenzione oncologica è stata esplicitamente integrata nella maggior parte dei fondi sanitari nazionali.
E se dovesse darci qualche numero?
Per fare un bilancio complessivo delle attività, le famiglie registrate sulla nostra piattaforma sono circa 2.500 e queste beneficiano di percorsi di accompagnamento generativi e continuativi. Molte altre famiglie non sono censite e, in totale, parliamo di un numero complessivo pari a circa 5.000 famiglie intercettate.
La Fondazione rivolge i propri interventi alle “zone grigie”. Quali sono le maggiori sfide che incombono sull’attuazione di interventi in quest’area del welfare?
Soggetti e nuclei familiari che vivono in situazioni di disagio sono spesso fuori dai radar dei servizi sociali e non sono abituati a chiedere. Non sono pienamente consapevoli delle condizioni in cui vivono e, per dignità e pudore o per altro, tentano di cavarsela da soli. Utilizzano fino in fondo la rete familiare e la rete di protezione sociale. Questa è l’area di cui ci occupiamo e abbiamo lavorato a lungo sull’approccio di intercettazione, prima, e di accompagnamento, poi.
L’obiettivo è riattivare il tessuto sociale della persona. È chiaro che le strategie si allontanano dalle logiche del welfare assistenzialistico. Un approccio, il nostro, in contrapposizione a quello adottato da alcune misure nazionali di contrasto alla povertà che, in alcuni casi, intrappolano il beneficiario in una rete di protezione “passiva”.
A proposito dell’intercettazione dei potenziali beneficiari, come si sono evolute le vostre strategie in questo campo?
Siamo partiti da un approccio molto fisico. Grazie ai nostri soci sindacali – Cgil, Cisl e Uil – abbiamo attivato circa una quindicina di sportelli nelle sedi sindacali della città di Milano. Abbiamo poi attivato ulteriori accordi con i sindacati e le cooperative nel resto della provincia. In tempi più recenti, abbiamo allargato le nostre attività di comunicazione all’area digitale. Durante la pandemia ci siamo dotati di canali di comunicazione alternativi, come la newsletter del Comune di Milano. In questi mesi stiamo provando a ricostruire i rapporti di fiducia in presenza, crediamo che questi siano alla base di un’azione proattiva e capacitante.
Qual è il valore aggiunto della Fondazione Welfare Ambrosiano?
Sono tre gli elementi che contribuiscono a dare valore aggiunto alla Fondazione: la rete, la mission e la governance.
Rispetto al primo punto, la Fondazione vanta una rete di volontari molto vasta e coesa, che ha operato anche durante la pandemia, lavorando da remoto. Questo è uno dei punti di forza della Fondazione: fare rete, giocare in squadra. Oltre ad un network consolidato con i partner, la Fondazione crea continue nuove alleanze sul territorio: il Banco Alimentare, Acli Milano, Caritas, ecc.
Quanto alla governance, oltre ai soci fondatori, la Fondazione vanta una governance duale (la Fondazione vanta un Consiglio di Indirizzo, nominato dai soci e presieduto dal Sindaco di Milano. E un Consiglio di Gestione, i cui membri sono scelti da Consiglio di Indirizzo, ndr). È istituito anche un Comitato Tecnico-scientifico che raccoglie esperti provenienti dal mondo accademico e dalle istituzioni al fine di formulare proposte e valutare i progetti allo studio. Contiamo su un assetto di governance che è anche una rete relazionale. Il valore aggiunto della governance ritengo sia la sua capacità di ramificarsi nelle varie realtà, di riuscire a intercettare e accompagnare i beneficiari.
Faccio un esempio pratico. Ormai da sei anni gestiamo un’Agenzia Sociale per la Locazione, che promuove canoni di locazioni a prezzi concordati e calmierati. È stato possibile gestire il tema dell’abitazione solo grazie alla fitta rete di stakeholder pubblici e privati, incluso l’Assessorato alla Casa del Comune di Milano. Senza il loro supporto, non sarebbe stato possibile portare avanti il progetto nel lungo periodo. Questo ci ha permesso di essere resilienti, di comprendere e analizzare le evoluzioni in atto, di adattare gli strumenti agli scenari in evoluzione.
Quali sono le prospettive future?
Lo abbiamo chiamato il “welfare di transizione”. L’obiettivo a cui puntiamo nel medio-lungo termine è intervenire sui fattori ostacolanti. Cioè quei fattori che vincolano i processi di transizione da uno status all’altro nell’intero ciclo di vita. Nello specifico, le dinamiche del mercato del lavoro ci suggeriscono come i processi di transizione, ad esempio dallo stato di disoccupazione (o inattività) a quello di occupazione, sono sempre più lenti e complessi. La Fondazione – in coordinamento con Afol (l’Agenzia di Formazione e Orientamento al lavoro a livello metropolitano, ndr) – sta ragionando sugli strumenti per l’efficientamento delle attività di accompagnamento alla ricerca del lavoro. Un percorso motivazionale che tenga insieme, da un lato, la ricerca attiva del lavoro e, dall’altro, il sostegno al reddito.
Quanto al sostegno al reddito, in vista della riforma sugli ammortizzatori sociali e delle risorse che arriveranno dal PNRR, puntiamo ad intervenire in quel pezzo di welfare che non è ancora coperto dal welfare contrattuale, sia aziendale sia nazionale. Mi riferisco ad esempio all’accesso al credito rivolto a persone “non bancabili”, nella fase di perdita e ricerca del lavoro. Puntiamo a sostenere il reddito affinché tali passaggi siano alleviati dalla sensazione di stress, disperazione per la perdita della casa e l’incapacità di arrivare a fine mese. Intervenire con un welfare territoriale di transizione, quando sei fuori dall’azienda, mi sembra una scommessa che la Fondazione può giocare nel prossimo futuro.