Secondo Welfare cura per Buone Notizie del Corriere della Sera inchieste che approfondiscono i cambiamenti in atto in Italia e le loro conseguenze sul sistema di welfare. Nel numero del 28 febbraio 2023 ci siamo occupati della rete composta dai centri antiviolenza e dalle case rifugio. Di seguiti Paolo Riva ci aiuta a inquadrare il tema, mentre qui Giulia Greppi segnala i problemi legati alla raccolta dei dati.
La violenza maschile contro le donne, in Italia, continua a essere un grave problema. Ma i luoghi più importanti per combatterla non sono ancora sostenuti abbastanza. Stiamo parlando dei centri antiviolenza (Cav) e delle case rifugio. “A livello territoriale – spiega la presidente di Differenza donna Elisa Ercoli – non esiste ancora una distribuzione omogenea di questi luoghi”. E ciò non garantisce a tutte le donne lo stesso diritto alla protezione.
Centri antiviolenza e case rifugio: cosa sono
I Cav sono strutture in cui figure specializzate accolgono e ascoltano le donne che hanno subito violenza e che vengono sostenute da psicologhe, avvocate, mediche e altre professioniste. «Sono il luogo dove le donne possono avere davvero informazioni sui loro diritti e organizzare un progetto individuale di uscita dalla violenza, autodeterminando il loro percorso», aggiunge Ercoli. Le case rifugio, invece, sono strutture fisiche, con indirizzi segreti, dove le donne vittime di violenza possono essere ospitate insieme a dei minori, per interrompere una violenza in atto.
Complessivamente in Italia i Cav sono 350 e le case rifugio 366, un dato insufficiente per diverse ragioni. La prima è che i numeri variano molto tra una regione e l’altra, ma anche tra città e aree rurali o montane. La seconda, che riguarda le case rifugio, è che semplicemente non sono abbastanza. “Le norme internazionali prevedono un posto in casa rifugio ogni 10.000 donne e l’Italia è ampiamente sotto questa linea”, denuncia Rossella Silvestre di ActionAid. Per i Cav, poi, ci sono anche altri ordini di problemi.
“Negli ultimi anni i Cav hanno avuto un aumento costante delle richieste di aiuto“, ragiona Mariangela Zanni, consigliera nazionale di Dire – Donne in rete contro la violenza. La crescita delle domande di sostegno ha coinciso con una maggiore attenzione alla questione della violenza. “I Cav storici e più importanti sono nati dal volontariato e dalle associazioni di donne e l’emersione del tema nel dibattito pubblico si deve anche a questo attivismo dal basso“, spiega la consigliera. Il problema però, prosegue Zanni, è che queste tendenze non sono state seguite da “un adeguamento da parte delle istituzioni né di strutture né di finanziamenti“.
I numeri della rete antiviolenza e il ruolo del secondo welfare
E infatti il cosiddetto secondo welfare svolge un ruolo cruciale nel sistema antiviolenza. Sia a livello di personale sia a livello di fondi. Secondo gli ultimi dati Istat disponibili, nelle case rifugio prestano servizio 2.421 operatrici. Nel 30% dei casi si tratta di volontarie. Nei Cav il dato è ancora più alto, praticamente la metà: le volontarie sono il 49,3% di tutte le 4.393 operatrici. Non solo.
I Cav, che possono essere strutture pubbliche o del privato sociale, nel 51,4% dei casi sono sostenuti da un misto di fondi pubblici e privati. Le realtà che vivono solo di finanziamenti pubblici sono il 39,3%. “La rete – riprende Silvestre di ActionAid – si sta ampliando perché la normativa internazionale ce lo chiede e gli enti si organizzano per sopravvivere, ma non dovrebbe essere così“. Da un lato il volontariato, da risorsa che è, può diventare un problema nei casi in cui vi si ricorre in misura o modalità eccessive.
Dall’altro, le operatrici che lavorano nel sistema antiviolenza per scelta professionale rischiano un precariato diffuso. Per evitare tutto questo, secondo Silvestre, bisogna ricordarsi che Cav e case rifugio “fanno un servizio pubblico” e “servono fondi per sostenerle“.
Il problema dei fondi
Dal 2013 la legge italiana prevede uno stanziamento annuo minimo di 10 milioni di euro per Cav e case rifugio. Nel biennio 2013-14, quello di approvazione del provvedimento, i fondi sono stati 18 milioni. Lo scorso anno, il governo Draghi ha stanziato 30 milioni, più altri 10 per tutte le attività del Piano nazionale antiviolenza. Un miglioramento, certo, ma per molte organizzazioni del settore i fondi sono ancora troppo pochi. E arrivano con ritardi inaccettabili. I contributi statali infatti vengono stanziati dal Dipartimento pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, passano alle Regioni e, infine, ai Cav e alle case rifugio. Un percorso burocratico dai tempi lunghissimi.
Secondo quanto calcolato da ActionAid, nel 2019, i tempi di erogazione medi dei fondi sono stati di 11 mesi e mezzo e, nell’ottobre 2021, le regioni avevano erogato solo il due per cento dei fondi relativi al 2020. É per questo che, per capire quanto stanzierà davvero il governo Meloni per il 2023, c’è da aspettare ancora. La legge di Bilancio ha previsto 14 milioni circa per Cav e case rifugio e altri 15 per il piano nazionale antiviolenza, ma le cifre verranno confermate (o aumentate) da un provvedimento solitamente atteso per novembre.
Nell’attesa Zanni tiene a precisare un ulteriore punto. “Non basta un numero adeguato di queste strutture, serve anche che vengano riconosciute nella loro funzione dalle altre istituzioni, come le forze dell’ordine, il sistema giudiziario, i pronto soccorso o i servizi sociosanitari“, sostiene la consigliera dell’associazione Dire. “Se i Cav non sono riconosciuti come degli enti di riferimento – conclude – è difficile che le donne ottengano un percorso che renda giustizia alla violenza che hanno subito“.
Questo articolo è stato pubblicato su Buone Notizie del 28 febbraio 2023 ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.