“Bruciare i tempi” è un progetto promosso dall’Azienda Speciale Offertasociale di Vimercate in collaborazione con l’Arma dei Carabinieri e con la Procura della Repubblica per i Minorenni di Milano. L’obiettivo è di promuovere una giustizia minorile celere e attenta alle vittime e alla comunità, così come alla responsabilizzazione dei ragazzi imputati. A un anno e mezzo dall’avvio del progetto, nella mattinata di mercoledì 21 settembre presso il Tribunale Ordinario di Milano si terrà il convegno “Bruciare i Tempi, Riparare i Danni”. Saranno presenti all’evento, oltre ad autorevoli rappresentanti istituzionali, anche operatori psico-sociali, ragazzi, amministratori locali e vittime di reati. Durante il convegno tutti gli “attori in gioco”, in un racconto corale fatto di dati quantitativi ed esperienze dirette, rifletteranno e discuteranno di come si siano concretamente modificate modalità e procedure dei procedimenti penali alla luce del progetto.
Perché “Bruciare i Tempi”? Le finalità del progetto
Il processo penale minorile è stato strutturato dal legislatore secondo scansioni temporali molto ravvicinate, e ciò in ragione principalmente della personalità dell’imputato minorenne, che dovrebbe restare nel circuito penale per il solo tempo strettamente necessario alla sollecita definizione della sua posizione processuale. Purtroppo tale finalità non è realizzata a fronte dei lunghi tempi giudiziari che riguardano soprattutto i ragazzi sottoposti a procedimento penale a piede libero (78% del totale in Lombardia secondo i dati del 1° Rapporto sulla devianza minorile in Italia, relativi al 2007) ovvero quelli con cui lavorano gli enti locali lombardi a fronte della legislazione regionale (Circolare 37/2007).
Il fattore tempo assume un’importanza davvero speciale in questo contesto. Infatti il “tempo” utilizzato (o, purtroppo, a volte sprecato) per la celebrazione e conclusione del processo troppo spesso non tiene in considerazione, e pertanto non intercetta, quel “tempo” che è stato nel frattempo utilizzato dal minorenne autore di reato per continuare i propri percorsi di crescita, i propri progetti di vita, per realizzare (o dissipare) le proprie potenzialità. Sono due “tempi” che corrono a velocità diverse, molto diverse, al punto da rischiare di compromettere la comprensione del significato e la portata dell’intervento penale conseguente alla commissione del reato, facendo perdere fiducia nel sistema giustizia, percepito come inutilmente oppressivo e disinteressato alle persone. Il rischio è inoltre quello di aumentare il carico di lavoro dei servizi che, a distanza di anni dalla segnalazione della Procura della Repubblica per i Minorenni, si trovano spesso a redigere una nuova valutazione per l’udienza: infatti un ragazzo quindicenne al momento della denuncia e magari diciottenne e maggiorenne al momento della celebrazione del processo, è nei fatti un persona diversa, con nuove necessità e differenti percorsi di vita.
Anche il tempo che intercorre tra la denuncia/querela e la richiesta di attivazione dei servizi sociali da parte dell’Autorità Giudiziaria rappresenta un elemento di fatica sia per i ragazzi e le famiglie, sia per i servizi che devono ricostruire emozioni, fatti, eventi, relazioni a distanza di molti mesi se non anni. Dalla ricerca descrittiva che sarà presentata al convegno del 21 settembre si evidenzia che, dal 2012 al 2014, il tempo medio di attivazione da parte dell’Autorità Giudiziaria dei Servizi Sociali era di circa 7 mesi dalla data delle denuncia. Proprio per questo motivo capita spesso che gli operatori sociali ascoltino frasi come “se avessimo avuto queste informazioni prima saremmo stati più tranquilli”, “perché nessuno ci ha informato prima di come sarebbero andate le cose?”, “non abbiamo mai avuto a che fare con la giustizia e non sapevamo cosa sarebbe successo. Per noi è un incubo”.
È da evidenziare, infatti, che la maggior parte dei ragazzi sottoposti a procedimento penale a piede libero è alla prima denuncia e vive situazioni famigliari e sociali che si potrebbero definire nella norma. Ad esempio, su 67 nuove segnalazioni pervenute nell’ambito di Vimercate e Trezzo sull’Adda nel 2015, solo 17 riguardavano ragazzi denunciati in precedenza (8) e/o conosciuti dai servizi sociali comunali (9). Inoltre, i dati provenienti sia dalla ricerca descrittiva condotta durante la prima fase del progetto “Bruciare i Tempi” sia dai report annuali relativi ai ragazzi seguiti da Offertasociale, fanno emergere come più del 50% dei reati siano contro il patrimonio, con eventi che spesso interessano l’intera comunità (ad es. danneggiamenti di beni pubblici).
Il Protocollo Operativo Bruciare i Tempi, sottoscritto tra Offertasociale, l’Arma dei Carabinieri e la Procura della Repubblica per i Minorenni di Milano nel febbraio 2015, prevede passaggi procedurali che impegnano tutte le organizzazioni coinvolte ad accelerare i tempi del procedimento penale e dell’analisi e valutazione della situazione dei ragazzi, a favore di azioni territoriali riparative immediate. Lo stesso protocollo prevede inoltre procedure rivisitate per tutte le istituzioni coinvolte, nell’ottica di far percepire al minorenne imputato e alla sua famiglia l’immediatezza della risposta giudiziaria al fine di attivare e consolidare il processo di responsabilizzazione del singolo e del suo contesto di vita. La legislazione penale minorile italiana, innovativa rispetto al resto dell’Europa, consente infatti ampi spazi di creatività di interventi e di azione al fine di rettificare un sistema che rischia di essere centrato sulle necessità delle istituzioni più che dei cittadini, sottovalutando il ruolo delle vittime nei procedimenti penali.
L’importanza della riparazione del danno e del confronto con le vittime: agire sul sistema
La scelta di intervenire sul sistema nel suo complesso è maturata sia a fronte dell’esperienza delle istituzioni coinvolte sia dei risultati delle ricerche internazionali che ben evidenziano due fattori limitanti le recidive nelle situazioni di reati tenui: da una parte tempistiche di risposta veloci tra la denuncia e l’attuazione di interventi conoscitivi e ripartivi; dall’altra il cosiddetto ‘fattore vittima’ ossia l’incontro tra vittima e imputato che favorirebbe la possibilità di dare ‘una faccia’ e comprendere il danno arrecato, soprattutto laddove i reati sono contro il patrimonio o il valore economico del danno è limitato e poco comprensibile per i ragazzi. Ascoltare l’altro direttamente, non tramite le rielaborazioni di operatori sociali o forze dell’ordine, favorisce infatti la presa di coscienza del fatto e del danno (anche simbolico) arrecato. Questo ascolto permette inoltre di attivare un confronto che vede protagonisti, pur con un supporto, vittime e ragazzi imputati. In alcuni casi anche famiglie e comunità.
Con il progetto “Bruciare i Tempi” la vittima specifica (vittima di una violenza) o aspecifica (ad esempio sindaco del Comune che ha subito danneggiamenti) ha la possibilità di portare la propria voce non in termini di colpevolizzazione, quanto piuttosto in maniera propositiva e responsabilizzante; a tal proposito è stato riscontrato che il “fattore vittima” sembra essere una delle variabili di maggiore impatto nella diminuzione delle recidive. Nonostante queste considerazioni, nel sistema penale minorile italiano le vittime non hanno mai ricevuto grande considerazione e anche attualmente il loro ruolo è del tutto marginale nel procedimento, soprattutto se si osserva la dimensione emozionale dell’offesa; all’estero esistono associazioni di vittime e i servizi sociali sono chiamati a coinvolgerle, mentre in Italia i servizi sociali si occupano della vittima solo se minorenne e se ha subito gravi reati contro la persona (es. abuso sessuale, violenza sessuale) o perché attivati, come nel caso della mediazione penale, dall’Autorità Giudiziaria.
Giustizia riparativa e conciliazione territoriale
Prerequisito essenziale è però la comprensione di cosa si intende per giustizia riparativa, ossia un paradigma che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, con lo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. La pratica riparativa intende infatti il reato come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva nei confronti delle vittime, che richiede da parte del reo l’attivazione di forme di riparazione, simboliche e/o monetarie, del danno provocato. La presa di coscienza del danno provocato non ricade solo su colui che ha commesso il reato, che rimane comunque l’attore della scena del procedimento penale, ma è immediata anche sulla sua famiglia e sulla comunità, con il risultato di un prodotto concreto anche per la vittima, ovvero la partecipazione all’elaborazione di un progetto di riparazione.
Il progetto “Bruciare i Tempi” ha inserito nel panorama italiano delle pratiche riparative, limitatamente alla sola mediazione penale in ambito minorile, la conciliazione territoriale, ovvero un “luogo” in cui vittima e imputato si possono incontrare a breve distanza dalla denuncia insieme a chi conosce entrambi (un operatore sociale e un rappresentante delle forze dell’ordine formati come conciliatori), per confrontarsi con adeguata preparazione e raccontarsi il proprio punto di vista. Si tratta di un’opportunità per definire un progetto riparativo che risponda sia alle aspettative delle vittime e delle comunità sia al rendere visibili le potenzialità positive dei ragazzi che da queste esperienza di incontro ne devono uscire responsabilizzati e non umiliati. Laddove opportunamente documentato, la conciliazione può prevedere la riparazione anche economica del danno. L’incontro tra vittime, ragazzi imputati e le loro famiglie infatti non deve ridursi a un mero “porgere scuse” né di contro deve divenire uno spazio di accusa distruttiva. La conciliazione territoriale ha proprio lo scopo di dare voce, all’interno della comunità dove il fatto è accaduto, alle persone coinvolte, grazie anche all’accompagnamento di coloro che in quella comunità territoriale hanno un ruolo istituzione di tutela dei cittadini.
Si è voluto infatti che le attività di conciliazione si svolgano direttamente laddove i fatti sono accaduti, per dare visibilità al lavoro delle istituzioni, allo sforzo delle vittime di denunciare e all’impegno dei ragazzi di riparare. La conciliazione territoriale si prefigge quindi anche lo scopo indiretto di avvicinare le istituzioni alla cittadinanza, di creare un percepito comunitario di fiducia sia nei servizi sociali sia nelle forze dell’ordine, aumentando la possibilità che le vittime si sentano tutelate nel denunciare. L’esperienza maturata in 16 anni di lavoro di Offertasociale nel penale minorile sul territorio ha infatti mostrato la misconoscenza da parte della cittadinanza, dei mezzi di comunicazione e delle agenzie di socializzazione (scuole, centri di aggregazione, oratori eccetera) di ciò che accade a fronte di una denuncia. In diverse occasioni capita di sentire insegnanti, educatori, cittadini sostenere che non hanno denunciato o che non vogliono farlo perché non desiderano “rovinare la vita del ragazzo” o “non voglio che vada in carcere”. L’informazione da sola non basta. L’attivazione e diffusione di misure vicine alle persone come la conciliazione territoriale possono modificare la cultura esistente e favorire l’emergere di lievi atti devianti prima che questi si amplifichino perché nessuno li intercetta e né offre risposte significative, in grado di attivare processi di responsabilizzazione che competono non solo ai genitori ma anche alla comunità tutta.
Cambiare il sistema per dare forma ai diritti delle persone: riflessioni conclusive
Il progetto “Bruciare i Tempi” si pone obiettivi importanti, ovvero agire all’interno del sistema utilizzando le possibilità fornite dal sistema stesso in vista di una sua modifica. La tempestività della risposta giudiziaria e sociale, la veloce messa in atto di interventi appropriati, il rispetto del diritto dei cittadini di avere risposte visibili dalle istituzioni preposte, la possibilità di dare voce alle vittime e di consentire alle comunità interessate di “vedere” cosa accade ai loro ragazzi denunciati, sono infatti le finalità dirette e indirette che hanno mosso a progettare, implementare e supportare con grande impegno nuove prassi operative.
L’innovazione del progetto non sta però tanto nei suoi obiettivi quanto nel modo in cui questi sono stati attuati e realizzati seppur al momento solo in alcuni territori sperimentali – Carate Brianza, Desio, Monza, Seregno, Pioltello, Trezzo sull’Adda e Vimercate. In questa fase del progetto non si è creato infatti nulla di nuovo: non sono state individuate nuove figure professionali, non sono stati aperti nuovi servizi, non sono state necessarie nuove infrastrutture. Ogni istituzione si è messa in gioco e ha deciso di voler modificare le proprie procedure, di accettare la proposta di cambiare le modalità di intervento fino al quel momento attivate. Il cambiamento dei sistemi quindi, senza la necessità di grandi investimenti economici. Un cambiamento per rispondere in maniera adeguata ai cittadini, per attuare concretamente una legislazione innovativa, per limitare l’oppressività delle istituzioni, per dare visibilità al lavoro svolto dalle persone che formano queste istituzioni.
Il cambiamento culturale richiede tempo e coraggio. Un tempo che va ben al di là dei 18 mesi di sperimentazione iniziale e che vede, attualmente, la necessità di diffondere oltre i 7 ambiti territoriali interessati la propria azione, al fine di creare un sistema nuovo, efficace ed efficiente ma soprattutto rispettoso. Certamente il coraggio dei 7 ambiti che si sono messi in discussione e delle istituzioni che hanno promosso il progetto è stato premiato dai risultati raggiunti, che confermano la riuscita di questa prima fase sperimentale e forniscono le indispensabili premesse per continuare e incrementare il lavoro nei territori.
Per approfondire
AA.VV. (2008), 1° Rapporto sulla devianza minorile in Italia, Gangemi.
Baratti, Giudice, Maci (2011) Sperimentare per trasformare, in Psicodramma Classico, AnnoXIII, n.1-2, Settembre.
Giudice E. (2016), Il ruolo e la funzione dell’assistente sociale in libera professione nel sostegno alle famiglue in difficoltà: esperienze e prospettive, in AAVV, “Quaderno Assistenti Sociali Liberi Professionisti, Istiss e Ordine Assistenti Sociali del Lazio”.
Giudice, E. (2014), Il lavoro sociale nei procedimenti dell’Autorità Giudiziaria, in Cascone, Ardesi, Gioncada, “Diritto di famiglia e minorile per operatori sociali e sanitari”, Cedam.
Giudice (2009), Lo sviluppo della sensibilità interculturale e lo sviluppo morale in adolescenza: uno studio esplorativo, in ‘Intercultura’ AFS Intercultura Onlus, n. 52, I° trimestre, pp. 6-24.
Giudice (2005), L’esperienza dell’équipe penale minorile di Vimercate e Trezzo: un ‘Penale’ aperto al territorio, Lavoro Sociale, Erickson, Dicembre.