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Mentre il percorso di riforma del terzo settore sembra subire rallentamenti e posticipazioni, il dibattito pubblico prosegue e trova ulteriore occasione di confronto dopo l’approvazione in Senato della proposta del Senatore Marco Del Barba sulle Benefit Corporation. Alcuni ritengono che si tratti di “altro”, qualcosa che non riguarda le vicende sull’impresa sociale e il nuovo quadro giuridico di cui essa avrebbe bisogno. Altri, però, non mancano di segnalare come questa iniziativa abbia delle ricadute importanti e forse non positive proprio sul processo di riforma in corso. Per questo motivo ci è sembrato opportuno considerare attentamente la proposta che vorrebbe portare anche nel nostro ordinamento le benefit corporation.


Una breve premessa

L’idea che il mondo delle imprese debba avviare e proseguire una riflessione circa quelli che sono i fondamenti del proprio essere è fuor di dubbio. Altrettanto chiaro è poi che quando si dice “impresa” si fa riferimento a realtà molto diverse tra loro. C’è infatti una differenza importante tra una multinazionale che impiega centinaia di migliaia di dipendenti in tutto il mondo e l’azienda a conduzione familiare che svolge la propria attività all’interno di un territorio specifico, magari con l’intenzione di valorizzarlo nel settore turistico o agro-alimentare. Altro caso ancora sono le imprese di artigiani, a volte così piccole che si parla nel gergo tecnico di micro-impresa. Il tessuto produttivo di ogni paese è in buona parte determinato dalla frequenza con cui si incontra un tipo di impresa piuttosto che un altro. E sulla base del tessuto produttivo di un paese nascono a loro volta forme nuove di fare impresa. Ciò che nasce in un campo, per quanto di estremo interesse, non necessariamente nascerà anche nel terreno lì vicino o, almeno, non necessariamente dovrà emergere negli stessi termini e secondo gli stessi stili. Questo vale anche per le “imprese a beneficio comune”, quelle che riempiono la proposta del Senatore Mauro Del Barba, per ora approvata nel grande “calderone” della legge di stabilità da uno dei due rami del parlamento.


Principi ispiratori e obiettivi del provvedimento sulle benefit corporation

Come è possibile leggere dalla relazione che accompagna lo scarno articolato (sono sei articoli in tutto), la legge ha lo scopo «di promuovere la costituzione e favorire la diffusione nel nostro ordinamento di società a duplice finalità, ossia di società che nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed ogni altro portatore di interesse». Gli estensori di tale proposta, meritevole di porre l’attenzione su una forma di impresa decisamente interessante, non sembrano considerare un fatto che è stato chiaramente ripreso e teorizzato in un ormai celebre saggio, “Strategy & Society: The Link Between Competitive Advantage and Corporate Social Responsibility” (2006) o il suo follow-up “Creating Shared Value: Redefining Capitalism and the Role of the Corporation in Society” (2011) a firma di Michael Porter e Mark Kramer, nomi che difficilmente possono risultare sconosciuti agli studiosi di economia e management aziendale. In questi lavori semplicemente (e con un po’ di approssimazione) si afferma che l’impresa è un soggetto a finalità plurime che persegue la crescita di valore condiviso. Tale valore condiviso sarebbe identificabile con la soddisfazione di alcuni stakeholder dell’impresa e – si noti bene – non appena degli shareholder, ovvero gli azionisti o i soci. Insomma, non è agevole comprendere come ciò che è proposto mediante l’introduzione delle benefit corporation si differenzi da un processo sempre più diffuso, entro il quale l’attenzione del mondo profit ad aspetti connessi alla dimensione sociale del fare impresa ha dato luogo a innumerevoli pratiche di corporate social responsibility e filantropia di impresa.

Infatti nei passaggi successivi della relazione che accompagna l’articolato è offerta una descrizione di quello che viene definito “approccio classico del fare impresa”. Con tale espressione si dovrebbe considerare il fatto che «dal punto di vista storico la disciplina delle società e il processo decisionale delle stesse sono strutturati sul modello del perseguimento, nel lungo termine, della creazione di valore per i soci». E ancora: «nella gestione ordinaria di una società tradizionale, le decisioni prese dagli amministratori sono generalmente impostate per massimizzare l’utile per i soci e dalle loro decisioni operative discendono precise responsabilità». Certamente i soci, che investono i propri capitali assumendosi il rischio di impresa, si aspettano un ritorno sulle somme investite, tuttavia non sorprenderebbe scoprire che sono interessati anche ad altri aspetti, non direttamente collegati ai rendimenti finanziari diretti del loro investimento. D’altra parte – come vi abbiamo già fatto riferimento – non si spiegherebbe il fatto per cui i soci accetterebbero un management che, in barba al principio della massimizzazione degli utili, fosse impegnato anche in consistenti pratiche di corporate social responsibility. O ancora si pensi al tema del welfare aziendale e alle condizioni degli ambienti di lavoro: non che si tratti di pura filantropia, ma nemmeno si può pensare che gli utili siano l’unico movente di ogni scelta aziendale. Anche perché oggi appare sempre più evidente che lo scopo di una impresa è rimanere sul mercato, più ancora che fare utili.

Rifacendosi ad un immaginario di impresa for profit un po’ datato, dalla relazione allegata all’articolato sulle B-Corp non emerge con chiarezza quali siano le ragioni per le quali una tale forma di fare impresa potrebbe essere di interesse nel nostro Paese. Più precisamente: non sono messi in luce gli aspetti veramente peculiari delle B-Corp e quindi il loro potenziale contributo al cambiamento del sistema. Forse questa è la ragione per la quale, in un interessante articolo, Andrea Rapaccini prova ad offrire una descrizione più precisa di cosa siano le benefit corporation. Il presidente di Make a Change approfondendo quanto segnalato nella proposta Del Barba, richiama il fatto che le B-Corp «sono aziende che vanno oltre la ricerca del mero profitto e considerano il mercato come uno strumento al servizio della collettività», tuttavia aggiunge correttamente anche che «si tratta di aziende profit che superano il tradizionale approccio CSR “a due tempi” (prima faccio i soldi e poi una parte li ritorno alla comunità sotto forma di beneficienza), ma integrano la responsabilità sociale ed ambientale nel business, non considerandola residuale».

In questi termini appare quindi chiaro in che senso le B-Corp non siano identificabili semplicemente con imprese che aggiungono al tema del profitto il tema sociale, ma che integrano i due in una unica mission. E così diventa anche agevole immaginare una possibile destinazione delle B-Corp nel nostro paese, al di là delle pur giuste affermazioni di principio: «potrà essere un modello applicabile alle grandi imprese di interesse nazionale come Poste Italiane, Ferrovie, le reti infrastrutturali dell’energia come Terna a Snam, le utility e le banche popolari che prossimamente si trasformeranno in SpA». Si tratta insomma di imprese che hanno come oggetto sociale la produzione, la gestione o la manutenzione di quei beni che – senza eccessivi tecnicismi – possono essere definiti “comuni” (in tale nozione per il vero potrebbero ricomprendersi tanto i common goods, quanto i merit goods).

Questa è senz’altro una possibile applicazione delle B-Corp, forse l’unica effettivamente percorribile nel sistema economico e imprenditoriale italiano. Pur essendo chiaro che le benefit corporation rientrano nel perimetro segnato dalle imprese for profit, occorre in ogni caso riconoscere che l’impegno per la produzione, gestione e manutenzione dei “beni comuni”, costituisce anche un elemento caratteristico dell’impresa sociale, così come segnalato in letteratura (Bellanca 2011). E’ quindi chiaro che partendo da ambiti distinti, benefit corporation e impresa sociale tendono ad incontrarsi su un terreno comune. Come si proverà ad argomentare nei passaggi che seguono, sembra che i possibili benefici derivanti dalla introduzione delle B-Corp nel nostro ordinamento siano inferiori ai costi: ciò che si vuole mettere in discussione non è in alcun modo il concetto di B-Corp, quanto piuttosto l’esistenza di una legge ad hoc nel nostro paese e in questo momento politico.


Allineare interessi economici e sociali dal basso

Dunque, al di là degli argomenti portati nei documenti ufficiali della proposta di legge, di per sé apprezzabile come tentativo di accompagnare un cambiamento di paradigma sempre più necessario, attraverso una più approfondita riflessione circa le specificità delle B-Corp, si può riconoscere che questo tipo di impresa va incontro alla necessità di rinvenire modalità efficaci per allineare interessi economici e interessi sociali. D’altra parte questa urgenza è stata più volte ripresa a proposito di molti temi che sorgono nell’ampio mondo degli investimenti ad impatto sociale. La possibilità di costruire forme di partenariato tra pubblico e privato è probabilmente la via maestra. Ma anche forme di sinergia tra soggetti del mondo profit e non profit è una possibilità tutt’altro che remota, come documenta anche il Secondo Rapporto sul Secondo Welfare in Italia che uscirà a breve. In altri e più sintetici termini, ciò che le B-Corp così come tante vicende legate allo sviluppo di partenariati tra privato for profit, non profit e settore pubblico documentano è il sempre più diffuso svilupparsi di dinamiche di ibridazione.

Se da un lato bisogna riconoscere che nelle pratiche esistono processi di ibridazione importanti e estremamente interessanti, tra cui l’avvento e la diffusione appunto delle benefit corporation, dall’altro ciò che non può essere scordato è che le B-Corp, ma soprattutto le relative leggi volte a tutelarle, nascono in un contesto di mercato del tutto diverso dal nostro e pur testimoniando un processo di ibridazione rilevante, in realtà seguono una logica differente, in un certo senso inversa, rispetto a quella auspicata da molti osservatori del mondo non profit e che si sta tentando di inserire – non senza difficoltà e resistenze – nel testo di riforma del terzo settore. Il capitalismo americano è veloce e aggressivo. I suoi capitali sono rapidi nell’acquisire imprese promettenti e altrettanto rapidi nel trarre da esse il massimo del profitto, prima di lasciarle andare per altre strade. Negli Stati Uniti l’idea di impresa è quella di un bene che può essere acquistato e ceduto. È una commodity sulla quale si esercita un diritto di proprietà. La forma delle benefit corporation nasce in questo contesto, con la ragione di sottrarsi almeno in parte, ossia proteggersi, da un mercato così mobile. Una impresa che fosse certificata come B-Corp è come se mandasse un messaggio forte e chiaro al mercato circostante: “attenzione, questa impresa non segue le logiche standard del mercato e in tale sua opzione è tutelata dalla legge, dunque non è possibile che sia acquistata e utilizzata per finalità diverse da quelle stabilite a livello statutario”. In altri termini, nel contesto statunitense, una impresa operante negli ambiti sopra segnalati, quelli dei “beni comuni”, sarebbe esposta al rischio di essere acquisita da terzi che alla fine si potrebbero rivelare semplicemente interessati alla parte dei profitti, o addirittura manifestamente contrari alla generazione di benefici sociali. Per questo motivo assumere la forma di benefit corporation, tutelata da una normativa ad hoc, consente di integrare la dimensione dell’attività sociale a livello del codice genetico dell’impresa, di fatto rendendolo immodificabile.

Non c’è bisogno di insistere sul fatto che in Italia la situazione è molto diversa e quindi anche le esigenze non coincidono con le dinamiche e le conseguenti esigenze emerse negli Stati Uniti. Il capitalismo italiano è un’altra cosa. E anche l’impresa italiana nasce in una cultura dell’economia e della società differente. L’impresa di stampo italiano, quando non è rappresentata da un unico professionista, è una realtà prevalentemente associativa, che nasce nelle relazioni personali e familiari degli imprenditori e lì si sviluppa. La dimensione territoriale di tante imprese italiane, se per certi versi è avvertita come un limite, in realtà è la risorsa più importante perché le finalità dell’impresa, qualunque esse siano, rimangano in un qualche modo fedeli a se stesse. Poi se si restringesse il campo di osservazione a quelle imprese che svolgono la propria attività intorno alla gestione e alla cura dei beni comuni, si dovrebbe riconoscere che in Italia un simile ruolo è prevalentemente svolto da soggetti appartenenti al terzo settore, dunque in un ambito distinto rispetto a quello entro cui formalmente “cadono” le benefit corporation.

Allora la proposta di legge sulle B-Corp, pur meritoria sulla base di quanto sopra già segnalato, non sembra considerare a sufficienza il contesto italiano e soprattutto non sembra valorizzare quello che già esiste nel tessuto produttivo italiano, anche in termini di società capaci di generare sia profitti che “benefici” collettivi, anche e principalmente intorno al tema dei beni comuni. La legge che introduce nel nostro ordinamento le benefit corporation appare piuttosto come un tentativo per ribadire l’urgenza di cambiamento del patto tra le diverse parti sociali. E questa urgenza di cambiamento la si comprende bene, soprattutto nelle sue frustrazioni, considerate le alterne vicende della riforma del terzo settore. Tuttavia, il modo attraverso cui tale urgenza di cambiamento si viene a manifestare, non è del tutto scevro dal rischio di una eterogenesi dei fini.


Le benefit corporation uno dei modelli per l’impresa sociale

Considerato che le differenze intercorrenti tra il capitalismo italiano e quello americano portano a sollevare alcune perplessità circa l’opportunità di una mera trasposizione delle benefit corporation nel nostro ordinamento, occorre sottolineare un ulteriore aspetto che mette in evidenza come la proposta del Senatore Del Barba rischia di incidere negativamente sul dibattito in corso a proposito dell’impresa sociale che uscirà definita dal processo di riforma del terzo settore. Le benefit corporation come modello per l’impresa for profit italiana, considerate anche alcune ipotesi principalmente legate a grandi aziende pubbliche o frutto di processi in atto di privatizzazione, si presentano più come una potenzialità che come un dato di fatto. Nel contesto di origine, ma anche ad un livello di osservazione più generale, le B-Corp sono senz’altro fenomeni di ibridazione da guardare con attenzione e interesse, perché – come non manca di segnalare Paolo Venturi – esse rappresentano «l’ennesima conferma che la “mattonella” da tempo occupata dalla cooperazione e dall’impresa sociale è oggi un modello che sta riorientando le scelte delle imprese for profit». Tuttavia, come già detto, occorre considerare anche le peculiarità del contesto economico e imprenditoriale italiano.

Diverso discorso si dovrebbe fare nel caso in cui le benefit corporation fossero assunte come modello per una evoluzione dell’impresa sociale, nel senso di una impresa innanzitutto vocata al perseguimento di finalità sociali e che attraverso la possibilità di una redistribuzione (limitata) dei propri utili disporrebbe di un ulteriore strumento utile ad attrarre capitali di investimento per la propria crescita. In questo caso la dimensione ibrida contribuisce allo sviluppo dell’impresa sociale perché gioca come presupposto affinchè il terzo settore abbia effettivamente la possibilità di rinnovarsi e crescere. Infatti si può dire che un conto è usare il modello delle B-Corp per dare una nuova forma giuridica all’impresa sociale, un altro è “importare” le B-Corp come società profit con vincoli di impatto sociale, che come già argomentato non troverebbe automaticamente un riscontro diretto e immediato. 

Infatti, ancora Andrea Rapaccini non ha mancato di segnalare come le B-Corp «potranno forse rappresentare un modo alternativo per gestire i beni di comunità che richiedono rilevanti investimenti in capitale sottraendoli e dai modelli liberisti e dai processi di privatizzazione tradizionale, ma questo potrebbe essere anche la funzione dell’impresa sociale». Esattamente su questo punto possono essere sollevate alcune obiezioni generali sulla tempistica e il “luogo” di approvazione di tale nuova disciplina, che rispetto alle esigenze di cambiamento da più parti segnalate, rischiano di risolversi in una sorta di eterogenesi dei fini. Se la proposta del Senatore Del Barba non vuole e non ha nulla a che fare con il discorso sull’impresa sociale, valgono le considerazioni sopra esposte a proposito dell’impatto solo ipotetico di una legge italiana sulle B-Corp. Se invece la proposta del Senatore Del Barba fosse orientata meritoriamente a valorizzare quella “terra di mezzo” tra profit e non profit, si dovrebbe purtroppo riconoscere come non sia l’automatismo di una legge a garantire il risultato, anzi, esso è potenzialmente dannoso alla causa. Infatti, affinchè l’introduzione delle benefit corporation potesse contribuire alla formulazione di una versione nuova dell’impresa sociale, unica finalità coerente con le specificità dell’economia italiana, sarebbe stato necessario che la proposta del Senatore Del Barba fosse integrata nell’ambito della riforma del terzo settore. Che le benefit corporation entrino nell’ordinamento giuridico a prescindere dal discorso più ampio entro cui si sta ancora definendo la riforma del terzo settore, non produce infatti lo stesso risultato.

Con l’inserimento nel nostro quadro normativo delle B-Corp, così come emerge dalla proposta approvata dal Senato, il tema legato alla possibilità che profitto e finalità sociali convivano nella medesima impresa resterà una particolare eccezione alla regola generale, esterna ad ogni disciplina inerente le imprese sociali. L’ibridazione che le B-Corp portano nel nostro ordinamento è dunque di segno inverso a quella da molti auspicata: le imprese tradizionali, secondo una logica di ibridazione, potranno teoricamente inserire tra le propria finalità anche quelle sociali; le imprese sociali (e tutti i soggetti appartenenti al terzo settore) invece non potranno seguire processi di ibridazione che le portino ad aggiungere alle loro finalità sociali anche la generazione e distribuzione di un qualche profitto.  Non è un caso che il relatore della riforma del terzo settore, il Senatore Stefano Lepri, come si evince da una sua lettera inviata a Vita, sia favorevole alla proposta di Del Barba, mentre si dimostra molto cauto e forse dubbioso sull’impostazione per la quale soggetti del terzo settore si servano di logiche ibride, quali quelle della redistribuzione parziale degli utili.

L’approvazione di una legge per le B-Corp quindi sembra involontariamente pregiudicare, indebolendo, ogni sforzo riformistico che nel disegno di legge per la riforma del terzo settore si è sino ad oggi profuso. A chi chiederà di considerare l’emergente ibridazione del terzo settore sarà risposto che per tale aspetto c’è già un’altra legge. Il timore è infatti che a poco gioverà argomentare come – posto il tema in questi termini – si tratti di ambiti differenti. Le necessità relative a logiche ibride si considereranno soddisfatte con l’importazione diretta delle benefit corporation. Per tutto il resto ci sarà una “nuova” disciplina del terzo settore molto simile a quella “vecchia”.


Conclusione

Il problema principale non è dunque approvare una forma giuridica piuttosto che l’altra. Si tratta invece di capire quale tipo di economia si vuole e iniziare a lavorare per la costruzione di un ambiente favorevole alla sua emersione. La riforma del terzo settore è stata una occasione per iniziare a farlo, pur dentro alcune incoerenze. Soprattutto le prassi quotidiane che si affermano sono però i fattori di cambiamento più solidi e duraturi. Occorre allora iniziare a pensare alla costruzione dei modelli e delle forme generali partendo dal basso. Oggi l’esperienza del terzo settore documenta che «oltre alle cooperative sociali (12mila), esiste un significativo numero di organizzazioni non lucrative che sono “market oriented” ovvero ricavano la maggior parte delle loro risorse economiche da transazioni di mercato vendendo beni e servizi» (Arduini 2015). Queste organizzazioni secondo i dati Istat sarebbero oltre 82 mila e come indicato anche dal Rapporto Iris Network, sono potenziali imprese sociali. Questo è quindi il punto di partenza per una seria iniziativa di policy, che impegni il governo a prendere posizione rispetto a ciò che eventualmente ritiene di valore. Altre strade rischiano (ma speriamo di no) di far camminare a lungo prima di riportare tutti al punto di partenza.

 

Riferimenti

Il testo del disegno di legge

Arduini (2015), Riforma Terzo settore: a Riva del Garda primo confronto tra Lepri e Bobba, Vita.it, 11 settembre 2015.

Bellanca N. (2011), Elementi di una teoria dell’impresa sociale, AICCON, Working Paper 95.

Lepri (2015), Il senatore Lepri ci scrive: ecco le ragioni dei miei emendamenti, Vita.it, 29 settembre 2015.

Porter M.E., Kramer M.R. (2006), Strategy & Society: The Link Between Competitive Advantage and Corporate Social Responsibility, Harvard Business Review.

Porter M.E., Kramer M.R. (2011), Creating Shared Value: Redefining Capitalism and the Role of the Corporation in SocietyHarvard Business Review.

Rapaccini A (2015), Privatizzazioni, quale ruolo per l’impresa sociale?, Vita.it, 23 novembre 2015.

Venturi P. (2015), B-Corp, quando è il non profit a fare da modello al profit, Vita.it, 16 settembre 2015.

Zandonai F., Venturi, P. (2014), L’Impresa Sociale in Italia Identità e sviluppo in un quadro di riforma, Iris Network.