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Nell’autunno del 2021 presenteremo il Quinto Rapporto sul secondo welfare in Italia (5R2W). Vista l’importanza di questo traguardo per il nostro Laboratorio e considerate le grandi sfide che la pandemia pone al nostro sistema di welfare, per rendere più ricche e approfondite le ricerche e le analisi che confluiranno nel volume abbiamo scelto di organizzare una serie di iniziative partecipate. Abbiamo quindi immaginato e costruito un percorso condiviso lungo un anno che ci metta nelle condizioni di realizzare un Rapporto all’altezza delle sfide del presente: tre Focus Group in ottobre e novembre, un evento pubblico il 15 dicembre prossimo, e alcune survey – che lanceremo in primavera – rivolte ai protagonisti del secondo welfare. 
 

 

Dopo il Focus Group sul welfare filantropico, il secondo incontro – tenutosi a porte chiuse il 9 novembre scorso – è stato dedicato alle prospettive del welfare occupazionale (aziendale e territoriale) all’epoca del Covid-19. Vi hanno preso parte autorevoli esponenti del mondo imprenditoriale, delle organizzazioni sindacali, del Terzo Settore e della Pubblica Amministrazione che hanno alimentato un dibattito ricco, estremamente utile per sviluppare riflessioni e ipotesi sul presente e sul futuro del welfare aziendale, anche declinato in chiave territoriale. Vi proponiamo di seguito alcuni degli spunti più interessanti emersi durante il confronto, definito dagli stessi partecipanti un vero e proprio momento di brainstorming e indicato come possibile punto di partenza per la costituzione di un gruppo di lavoro a sostegno della promozione culturale dei temi legati all’integrazione pubblico-privato nell’ambito del welfare.


Superare l’opposizione pubblico-privato per rispondere meglio ai (nuovi) bisogni

Al di là delle diverse sensibilità dimostrate dai singoli partecipanti al focus group, su un punto si è registrata una generale convergenza nella discussione: la crisi in corso ha reso ancora più evidente quanto sia ineludibile un ragionamento di sistema sull’integrazione tra interventi di natura pubblica e interventi di iniziativa privata nel campo della protezione sociale, a partire dal terreno del welfare occupazionale e aziendale. 

Dal mondo assicurativo, oltre alla sottolineatura che la sanità integrativa già in essere copre una platea di circa 12 milioni  di persone, è arrivato in questo senso l’invito a “lavorare insieme, fare squadra e ragionare su che cosa vuol dire oggi mettere mano ad un sistema di welfare integrato tra lo Stato, le organizzazioni sindacali, la territorialità, la contrattazione collettiva”. Secondo un rappresentante del mondo sindacale, la pandemia  – tanto più in un contesto come quello italiano, caratterizzato da un forte processo di invecchiamento della popolazione, un consistente tasso di evasione fiscale e un alto debito pubblico – dovrebbe essere colta come un’opportunità attraverso la quale comprendere che l’integrazione tra pubblico e privato è “la scommessa del futuro”.

Proprio la forte mutazione della struttura demografica cui si sta assistendo è stata indicata da molti partecipanti al focus group come uno dei fattori più rilevanti nel ridefinire l’articolazione dei bisogni sociali rispetto alla quale si misura tutta l’inadeguatezza sia dell’offerta pubblica, che riesce oggi a raggiungere solo una quota modesta delle persone che avrebbero bisogno di qualche forma di sostegno, sia dell’insieme degli interventi di welfare integrativo. Come noto, infatti, in base alla loro attuale configurazione gli schemi di sanità integrativa e previdenza complementare stentano ad esempio a coprire un rischio, strettamente collegato all’invecchiamento e sempre più diffuso, quale la non autosufficienza in età anziana. Maggiore integrazione fra i diversi schemi integrativi potrebbe aiutare a superare i limiti attuali.


“Riconoscersi” come premessa per favorire una migliore integrazione 

Un secondo elemento di convergenza fra chi ha preso parte alla discussione è consistito nell’osservazione che la premessa perché l’integrazione funzioni meglio – ovvero a vantaggio di platee più ampie di beneficiari a protezione di una gamma più articolata di rischi sociali – è che attore pubblico e attore privato procedano in un esercizio che i partecipanti al focus hanno definito di “riconoscimento” reciproco. Se da un lato il regolatore pubblico – è stato affermato durante l’incontro – riuscisse a confrontarsi con il privato legittimandone in modo più chiaro e trasparente la funzione sociale e, dall’altro, la parte privata superasse una certa autoreferenzialità riconoscendo appieno al soggetto pubblico la sua funzione di regolatore (anche attraverso la creazione di luoghi di confronto dedicati), si potrebbe provare a fare “un salto in termini di qualità e di massimizzazione delle risorse che oggi sono limitate e lo saranno ancora di più in prospettiva rispetto ad un crescere di bisogni sempre più complessi”.  

A ciò si legano strettamente le riflessioni emerse nella discussione sulla necessità di un riordino della normativa che regolamenta il welfare integrativo, riordino avvertito come urgente soprattutto nel campo sanitario, la cui centralità è emersa con tutta evidenza nel corso della crisi pandemica da Covid-19. Dal mondo sindacale e da quello della mutualità sanitaria, in particolare, è stata richiamata nel dibattito l’esigenza di una maggiore trasparenza in questo settore. 

I soggetti che vi operano, peraltro molto diversi gli uni dagli altri (assicurazioni, fondi, mutue), sono oggi sottoposti a obblighi minimi di informazione rispetto alla propria gestione. Le società di mutuo soccorso – è stato affermato nel corso dell’incontro – erogherebbero a favore dei soci circa l’80% di quanto incassano: un dato con ogni probabilità superiore a quello di altre organizzazioni che gestiscono fondi sanitari ma che, in assenza di un’autorità che assicuri la trasparenza e la confrontabilità dei dati (sulla falsariga di quanto già avviene nel campo della previdenza complementare), non è attualmente possibile conoscere. Allo stesso tempo, poco si sa delle prestazioni finanziate tramite i fondi sanitari, della loro natura rispetto a quelle erogate dal Servizio Sanitario Nazionale (integrativa o duplicativa), e degli effetti sul consumo finale di prestazioni.


Le 50 parole più pronunciate durante il Focus Group


Territorializzare per leggere i bisogni, fare rete per dare risposte…

Se la crisi del Covid-19 ha riportato all’attenzione del dibattito pubblico tutta la rilevanza delle dinamiche centro-periferia, durante il focus group del 9 novembre i partecipanti hanno generalmente identificato nel livello subnazionale la scala più adatta in cui implementare l’integrazione tra welfare pubblico e welfare aziendale.

Guardando di nuovo alla sanità, la strutturazione del SSN su base regionale è stata indicata come una delle ragioni che giustificherebbe una territorializzazione dei principali fondi sanitari occupazionali, che dovrebbero così superare l’organizzazione di tipo categoriale e nazionale che li ha caratterizzati sin qui per adottare una configurazione intercategoriale e decentrata. Ma spingersi in direzione di una maggiore valorizzazione dei territori sarebbe giustificato anche da altre considerazioni. 

È nei territori che si articolano, ad esempio, le reti del Terzo Settore che potrebbero offrire un contributo a realizzare quella che una partecipante all’incontro ha definito “un’alleanza pubblico-privato” orientata a offrire una risposta complessiva ai bisogni dei cittadini: sia di quelli più fragili (in parte già raggiunti dal welfare pubblico) sia di quelli che – pur esclusi dall’intervento pubblico diretto – dovrebbero comunque vedersi riconosciuto il diritto a trovare risposte di qualità, mentre oggi fanno perlopiù ricorso a forme di assistenza informale. In questo senso, è stato affermato da un’esperta di contrattazione presente al focus group, il futuro del welfare complessivamente inteso sta “nella capacità degli attori tutti di ri-leggere le nuove situazioni [di bisogno]” e di fare in modo che “questa rilettura poi possa portare a evitare quello che ora noi vediamo, ovvero l’aumento delle diseguaglianze”.

Ed è sempre nei territori – intesi non come “contenitori”, ma come campi di interazione fra i diversi attori che li popolano – che le relazioni non solo fra pubblico e privato, ma anche all’interno dello stesso mondo privato, andrebbero coltivate: “le aziende non si conoscono l’un l’altra – ha messo in evidenza un rappresentante del mondo industriale – Le due aziende che si trovano davanti una all’altra sanno che c’è quello lì di fronte ma non sanno chi è, non hanno mai pensato di interagire facendo una rete, trovando il modo di mettere insieme necessità e dare soluzioni”. Da parte del mondo delle imprese – sia di quelle profit sia di quelle non profit – diventa quindi centrale riconoscere l’importanza delle associazioni di categoria quali corpi intermedi che possono giocare un ruolo strategico per promuovere una cultura aziendale sensibile ad affrontare i bisogni emergenti nei territori “e spingere anche le aziende a metterci del loro”. 

Un aspetto non semplice, soprattutto quando si parla di un welfare aziendale che risulti vantaggioso per le imprese non solo dal punto di vista fiscale (grazie ai servizi resi disponibili sulle piattaforme già esistenti), ma anche dello sviluppo che può innescare nel proprio territorio: un welfare aziendale non di semplice introduzione perché “l’impresa ha bisogno di dati, ha bisogno della dimostrazione del fatto che convenga, ha bisogno di certezze. La soluzione in questo momento è creare reti non solo tra imprese ma anche tra fornitori”. Si tratta peraltro di un aspetto cui presterebbe crescente attenzione anche il mondo dei provider che – secondo una loro rappresentante presente al focus group – sempre più affiancano quelle aziende clienti (soprattutto di grandi dimensioni) che manifestino una particolare sensibilità sociale e il desiderio di mettere in rete i servizi legati al territorio.


…e contenere le disuguaglianze 

Scegliere la scala subnazionale come terreno su cui dare realizzazione a forme più efficienti e più efficaci di integrazione tra welfare pubblico e welfare privato (in particolare aziendale) non dovrebbe tuttavia alimentare forme di localismo. Nelle parole di un partecipante, bisognerebbe muoversi verso una “implementazione territoriale” dell’integrazione, ma con una “regia nazionale”. Secondo  i rappresentanti del mondo industriale e delle organizzazioni sindacali, tra i quali si è registrata una tendenziale condivisione, tale regia dovrebbe realizzarsi tanto sul piano istituzionale quanto sul piano della contrattazione. Da un lato sarebbe indispensabile una cornice regolativa molto più chiara di quella “nebulosa” presente oggi; dall’altro, servirebbe un ripensamento del ruolo della contrattazione nazionale, che dovrebbe indirizzare gli accordi di secondo livello su questi temi, scongiurando l’aumento delle disuguaglianze fra settori forti e settori deboli oltreché fra aree territoriali a diverso livello di sviluppo economico, e incentivando l’attivazione di reti che coinvolgano anche i soggetti pubblici. Possibili meccanismi di redistribuzione territoriale – è stato infine fatto notare da una rappresentante del Terzo settore – possono essere innescati anche dalla strutturazioni di reti di offerta di servizi di welfare su base nazionale, che aiutano a svincolare l’accesso ai benefit (anche da parte dei familiari) dal luogo di residenza del lavoratore.