La nostra ultima inchiesta per Corriere Buone Notizie si incentra sui contenuti del Quarto Rapporto sul secondo welfare, presentato il 25 novembre a Milano. In questo articolo Paolo Riva propone alcuni esempi utili a capire l’evoluzione seguita in questi anni dal secondo welfare; qui invece potete leggere l’analisi di Lorenzo Bandera sulla crescita del fenomeno e consultare l’infografica curata dai grafici del Corriere della Sera.
In Italia, i minori in povertà assoluta sono 1,2 milioni. E molti di loro soffrono anche la povertà educativa, vedendosi di fatto negati gli strumenti per migliorare la loro condizione. È un circolo vizioso che il sistema di welfare tradizionale fatica a spezzare. Nel 2016, però, le Fondazioni di origine bancaria hanno lanciato il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, creato d’intesa con il Governo Renzi e favorito da alcune agevolazioni fiscali. Tre anni dopo, centinaia di progetti, sostenuti da 281 milioni di euro e implementati spesso dal terzo settore, hanno coinvolto oltre 480mila bambini in difficoltà. E il fondo è stato confermato dal primo esecutivo Conte fino al 2021.
Per Franca Maino, direttrice del laboratorio Percorsi di secondo welfare, è un’ottima notizia. “Il Fondo è una grande alleanza: molti e diversi attori, tra cui le istituzioni, lavorano in sinergia con obiettivi di ampio respiro e interventi anche nelle aree più svantaggiate”. Secondo la ricercatrice, è un perfetto esempio di integrazione tra primo e secondo welfare. L’etichetta "secondo welfare" identifica tutte quelle forme di protezione e investimento sociale realizzate da soggetti privati, parti sociali ed enti del terzo settore che provano a rispondere ai bisogni sociali emergenti mobilitando risorse non pubbliche.
Come spiega il Quarto Rapporto di Percorsi di secondo welfare, intitolato "Nuove alleanze per un welfare che cambia", le Fondazioni di origine bancaria, che lo scorso anno hanno erogato oltre un miliardo di euro, sono solo uno degli attori in scena. Per stare nel campo della filantropia, ci sono anche le fondazioni d’impresa oppure quelle di comunità mentre, passando al terzo settore, troviamo gli enti non profit, le cooperative e le società di mutuo soccorso, che garantiscono prestazioni gratuite a quasi un milione di persone. Infine, c’è il welfare occupazionale che coinvolge imprese, sindacati e provider di servizi. L’ambito, grazie a una serie di misure nazionali approvate negli ultimi anni, è in espansione e oggi i contratti collettivi nazionali di lavoro che prevedono forme di welfare aziendale oscillano tra il 27 e il 32 per cento.
Grazie al contributo di tutti questi soggetti, si legge nella pubblicazione presentata il 25 novembre, il secondo welfare vive una fase di “crescita e consolidamento”, in cui assume “articolazioni diverse, ma interconnesse”. Ad accomunarle è la volontà di generare ricadute positive sui territori, di raggiungere più cittadini possibile e di arrivare anche ai più bisognosi. Certo, il fenomeno ha anche limiti e rischi. Per Roberto Benaglia, segretario nazionale della Fai Cisl ed esperto di contrattazione, per esempio, “il welfare aziendale non deve diventare una rete di protezione solo per i dipendenti stabili. Bisogna capire in fretta come allargarne i benefici anche ai lavoratori non standard”. Non è l’unica questione da affrontare. Lo sviluppo di queste nuove forme di protezione sociale potrebbe acuire, involontariamente, le differenze tra aree più e meno sviluppate del Paese. Va evitato, tenendo ben presente che l’obiettivo del secondo welfare non è sostituire il welfare pubblico e statale, ma affiancarlo e aiutarlo a cambiare.
“Il modello del futuro dovrà essere una combinazione virtuosa fra primo welfare (pubblico e inclusivo, adeguatamente finanziato e opportunamente ricalibrato) e secondo welfare”, scrive Maurizio Ferrera nel rapporto di Percorsi di secondo welfare. Il professore, che del laboratorio è ideatore e supervisore scientifico, non vede questi due ambiti come dei compartimenti stagni, ma come due sfere che sfumano l’una dell’altra, rispondendo a bisogni diversi. Poniamo il caso degli anziani. Lo stato garantisce le pensioni e le prestazioni sanitarie principali, ma fatica a rispondere alle esigenze di chi si prende cura, spesso per molti anni, dei genitori non autosufficienti. Non è un esempio causale. L’Italia è un paese vecchio in cui nascono pochi bambini e, quindi, quello degli anziani non autosufficienti cronici, la cosiddetta long-term care, è oggi un problema grave e urgente.
“Il nostro Paese è di fronte a un bivio”, sostiene Maino. “O affrontiamo sfide come la long-term care dando al secondo welfare un ruolo integrativo rispetto al pubblico oppure finiamo in un vicolo cieco”. Per evitarlo, servirebbe un sostegno politico a livello nazionale. Per alcuni anni, c’è stato. Provvedimenti come le leggi sul Dopo di noi e sul Lavoro flessibile, la Riforma del terzo settore, il Reddito di inclusione (REI) e gli incentivi per il welfare aziendale hanno sostenuto delle trasformazioni che erano partite dal basso. Poi, dopo elezioni politiche del 2018, tutto si è fermato.
A livello nazionale, il mondo politico sembra oggi meno attento a questi temi. E così, a livello locale, dove la vivacità del secondo welfare è maggiore, si scontano incertezza e fatica. Per Maino, però, non si tratta di una resa. “Aver avuto un sostegno da parte del governo è stato importante, ma credo che stia crescendo tra gli amministratori locali la consapevolezza che il nostro sistema di welfare così com’è non regge e che sia urgente intervenire realizzando interventi davvero innovativi”.
Questo articolo, pubblicato su Buone Notizie del 26 novembre 2019, è stato realizzato nell’ambito della collaborazione tra Percorsi di secondo welfare e il settimanale del Corriere della Sera.