Nel contesto di un’Europa alle prese con la ricalibratura dei propri welfare states, una crescente attenzione è dedicata allo sviluppo del welfare occupazionale, in particolare nel campo previdenziale. Secondo la Commissione Europea, le pensioni occupazionali e private possono favorire la sostenibilità e adeguatezza del sistema pensionistico – una visione esposta anche nel Libro Bianco: un’agenda dedicata a pensioni adeguate, sicure e sostenibili del 2012, in cui si dichiara che “l’UE può rafforzare, in seno ai sistemi generali di pensionamento degli Stati membri, il quadro grazie al quale essa sostiene i regimi pensionistici [occupazionali] e contribuisce a ridurre il costo delle pensioni”.
Tuttavia, alcuni accademici nel campo delle scienze sociali ventilano il rischio di aggravare il dualismo tra cittadini più e meno tutelati a seguito del crescente ruolo del mercato nel contesto previdenziale. Una prospettiva comparata ci è utile per gettare luce su come, a livello europeo, le pensioni occupazionali si sviluppano in diversi modelli di welfare.
Come dimostrano gli studi sviluppati nell’ambito della seconda ricerca ProWelfare, in diversi contesti si evidenzia una tendenza sostitutiva dei piani occupazionali rispetto a quelli pubblici: il secondo pilastro si sviluppa in seguito a (o in concomitanza con) riduzioni nella generosità del primo pilastro. Tuttavia, la complessiva generosità del welfare mix e la sua natura più o meno universalistica dipendono da una serie di fattori che variano da Paese a Paese.
Svezia: pensioni occupazionali universali grazie alle parti sociali
In Svezia, tipico esempio di un modello di welfare state di stampo scandinavo, le pensioni occupazionali si sono sviluppate a partire dalle riforme del sistema pensionistico attuate nel corso degli anni ’90, che hanno ridotto la generosità del pilastro pubblico favorendo così quello occupazionale e privato-individuale: se nel 1996 le pensioni pubbliche garantivano in media il 74,4% del reddito pensionistico maschile e l’80,6% di quello femminile, nel 2010 queste percentuali erano scese rispettivamente al 53,3% e 60,7%, a fronte di un incremento del reddito derivante da pensioni occupazionali da 20,3 per gli uomini e 15,6% per le donne a 31,2% per i primi e 23% per le seconde. A confermare l’accresciuta importanza del secondo pilastro, il capitale detenuto dai fondi occupazionali era nel 2013 pari al 48% del capitale previdenziale totale, una percentuale maggiore di quella, pari al 42%, rappresentata dal pilastro pubblico.
Secondo l’OCSE, nel 2059 le pensioni pubbliche svedesi garantiranno un tasso di sostituzione compreso tra il 35% per i redditi più alti e il 45% per quelli più bassi, mentre quelle occupazionali garantiranno un tasso di sostituzione positivamente correlato al reddito tra il 12% e il 30%. Nonostante la mancanza di progressività nelle prestazioni delle pensioni occupazionali, il secondo pilastro svedese può comunque essere considerato in linea con la natura universalistica del welfare nordico in virtù di un tasso di copertura dei lavoratori pari al 90%.
Questo risultato è reso possibile grazie a un sistema ben radicato e centralizzato di relazioni industriali, nel quale le parti sociali avviano ed amministrano gli schemi pensionistici attraverso accordi collettivi che coprono una vasta gamma di categorie lavorative. La forza delle parti sociali è fondamentale in questo processo: seppure in calo, il tasso di sindacalizzazione in Svezia è tra i più alti in Europa, al 67%, mentre alle organizzazioni datoriali aderiscono l’80% degli imprenditori.
Regno Unito: intervento dello Stato per favorire la diffusione delle pensioni occupazionali
Nel Regno Unito, rappresentante per antonomasia del modello anglosassone, lo sviluppo delle workplace pensions è un fenomeno di lunga data, ulteriormente favorito dalle numerose tipologie di piani privati e occupazionali create a partire dal governo Thatcher. A dimostrare l’importanza del secondo pilastro, il capitale previdenziale detenuto dai fondi occupazionali era nel 2014 pari a quasi il 100% del PIL. Tuttavia, soltanto negli ultimi anni le pensioni occupazionali si sono trasformate in uno strumento di politica sociale. Questo sviluppo si è reso necessario dopo la recente riforma del pilastro pubblico, che dal 2016 prevede una pensione forfetaria fissata a £155.65 a settimana, poco al di sopra del livello minimo per richiedere assistenza sociale. Di conseguenza, l’appartenenza ad un piano integrativo diventa condizione necessaria per ottenere tassi di sostituzione più generosi.
Al fine di favorire lo sviluppo delle pensioni occupazionali, all’interno del Pensions Act 2008 il governo britannico ha introdotto il cosiddetto principio di “automatic enrolment”, che prevede l’adesione automatica del lavoratore ad un piano pensionistico occupazionale se non altrimenti specificato. Questo nuovo regime è stato ulteriormente favorito attraverso la creazione del NEST (National Employment Savings Trust), uno schema pensionistico sottoposto ad oneri di servizio pubblico e caratterizzato da bassi costi di partecipazione, che consente a qualsiasi datore di lavoro di fornire un piano previdenziale ai propri dipendenti. All’inizio del periodo di entrata in vigore graduale della riforma, nel 2012, la copertura delle pensioni occupazionali era al di sotto del 50% e profondamente frammentata, ma aveva già raggiunto il 59% nel 2014 e si prevede raggiungerà l’85% entro il termine del phasing-in, nel 2018, livellando così la gran parte delle preesistenti differenze tra i settori.
In questo modo, una gran parte dei lavoratori britannici avrà a disposizione un piano previdenziale da affiancare alla pensione forfetaria di Stato. Tuttavia, a causa dei bassi livelli contributivi minimi richiesti dai piani occupazionali (8%), il Ministero per il Lavoro e le Pensioni (DWP) ha calcolato che almeno il 40% dei britannici non raggiungerà il tasso di sostituzione obiettivo per la propria fascia di reddito (67% per un reddito mediano).
Germania: una multi-pillarizzazione frammentaria
La multi-pillarizzazione del sistema pensionistico “continentale” tedesco vede la propria origine all’inizio degli anni 2000, con l’avvio di un percorso di riforme volto alla riduzione della generosità del primo pilastro attraverso aggiustamenti nel calcolo delle prestazioni e aumenti dell’età pensionabile. Parallelamente, l’importanza dei piani previdenziali occupazionali e privati è cresciuta, favorita anche da regole che prevedono agevolazioni fiscali per i contributi trasferiti in questi piani.
I dati più recenti indicano una copertura del secondo pilastro pensionistico pari al 56%, ma questo dato varia largamente tra pubblico e privato, tra i diversi settori produttivi, in relazione alla dimensione delle aziende e alla collocazione territoriale. Per esempio, secondo l’istituto di ricerca TNS Infratest, mentre nel settore finanziario la copertura supera l’80%, nella ristorazione è appena sopra il 25%.
La frammentazione tra settori è fortemente correlata alla copertura degli accordi collettivi. Il sistema di relazioni industriali tedesco contribuisce ulteriormente alle differenze, garantendo libertà di contrattazione e possibilità di integrare o modificare gli accordi collettivi a livello di singolo stabilimento. Lo Stato non interviene a regolamentare il processo di contrattazione, limitandosi a fornire una cornice legislativa generale. Una più omogenea distribuzione dei piani pensionistici occupazionali sarebbe auspicabile, in quanto il pilastro pubblico tedesco – oggi composto da un singolo schema retributivo e aggiustato a seconda di un “fattore di sostenibilità” basato sul numero complessivo di pensionati – prevede tassi di sostituzione al di sotto del 40%. Secondo dati OCSE, nel lungo periodo, i pensionati tedeschi dovrebbero poter contare, grazie ai piani previdenziali occupazionali, su di un tasso di sostituzione attorno al 50%.
Italia: una multi-pillarizzazione solo parziale
In Italia, esempio di modello di welfare mediterraneo, il sistema pensionistico attuale è frutto di un processo di riforma cominciato negli anni 90 con le riforme Amato e Dini e culminato con la riforma Fornero del 2011, che ha portato all’attuale sistema pubblico contributivo nozionale, con l’aggiunta di meccanismi volti ad assicurarne la sostenibilità, quali la definizione dell’età pensionabile collegata all’aspettativa di vita. Le riforme del pilastro pubblico hanno spinto il secondo pilastro pensionistico, prima marginale, ad accrescere il proprio ruolo: la riforma Amato creò le tipologie di fondi pensione aperti e chiusi; la riforma Dini introdusse sgravi contributivi per il finanziamento dei piani occupazionali; a partire dal 2005, il TFR (trattamento di fine rapporto) è automaticamente trasferito in un piano previdenziale occupazionale, se non altrimenti specificato dal beneficiario.
Sebbene tali sviluppi abbiano portato il secondo e terzo pilastro a crescere in termini di rilevanza, le pensioni pubbliche hanno mantenuto un ruolo preponderante nel sistema italiano, nonché una generosità di lungo periodo piuttosto elevata in termini comparativi: confrontando dati OCSE e del Ministero dell’Economia e delle Finanze relativi all’anno 2050, infatti, i tassi di sostituzione garantiti da una carriera lavorativa completa dovrebbero attestarsi tra il 60 e il 70% per i lavoratori dipendenti e al 50% per gli autonomi, una cifra superiore a quella degli altri Paesi presi in analisi. Questo tasso di sostituzione è nettamente più elevato di quello mediamente garantito da un piano previdenziale integrativo, che si attesta attorno al 15%. Di conseguenza, le pensioni occupazionali sono rimaste uno strumento piuttosto marginale, con un tasso di copertura dei lavoratori vicino al 16% secondo gli ultimi dati.
Le più recenti leggi finanziarie sembrano indicare un atteggiamento ambiguo nei confronti delle pensioni occupazionali. La Legge di Stabilità del 2015 prevede la possibilità di ricevere il TFR come parte del salario, fornendo così una ulteriore alternativa al trasferimento dello stesso in un fondo previdenziale. La Legge di Stabilità 2016, per contro, ha consentito ai lavoratori di versare in maniera fiscalmente agevolata alla previdenza complementare tutto o parte dell’importo del proprio premio di risultato (entro il limite di reddito di 50.000 euro annui e di importo di 2.000 euro). La Legge di Stabilità 2017, infine, consente di non applicare il tetto massimo di importo defiscalizzato previsto per la previdenza complementare all’interno dell’art. 51 del TUIR alle somme derivanti dalla conversione del premio di risultato versate alla previdenza complementare.
Riferimenti
Blank (2016), PROWELFARE 2014-2016 Country Report – Germany
Commissione Europea (2012), “LIBRO BIANCO: Un’agenda dedicata a pensioni adeguate, sicure e sostenibili”
Cribb, J. and Emmerson, C. (2016). “What happens when employers are obliged to nudge? Automatic enrolment and pension saving in the UK”
Eatock (2015), “Prospects for Occupational Pensions in the European Union”
Fondo Pegaso (2016). “Circolare 10/2016 – Legge di stabilità2017 e fondi pensione: quali novità?”
Jansson et al. (2016), PROWELFARE 2014-2016 Country Report – Sweden
Naczyk (2016), PROWELFARE 2014-2016 Country Report – United Kingdom
OECD (2015), “Pensions at a Glance 2015”
OECD (2015), Pensions at a Glance 2015 – Germany
OECD (2015), Pensions at a Glance 2015 – Italy
OECD (2015), Pensions at a Glance 2015 – Sweden
OECD (2015), Pensions at a Glance 2015 – United Kingdom
Pavolini et al. (2016), PROWELFARE 2014-2016 Country Report – Italy