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Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Fondazione Lottomatica nell’ambito della partnership con Secondo Welfare: il nostro Laboratorio sta accompagnando la Fondazione nella definizione di un’agenda programmatica che tenga in considerazione i temi della sostenibilità, sia attraverso attività di ricerca che di disseminazione.

In un famoso articolo del 1970, Milton Friedman (premio Nobel per l’economia nel 1976) formulò una tesi da molti considerata come fondamento delle politiche neo-liberiste: l’unico contributo che le imprese sono tenute a dare alla società è quello di “far bene le imprese”, ossia massimizzare il profitto per i propri azionisti. Friedman sapeva bene e accettava il fatto che ci fosse qualche inevitabile vincolo regolativo con finalità sociali. Per l’economista di Chicago, tali vincoli dovevano però essere il più limitati possibile e, soprattutto, rimanere esterni alle imprese. I vincoli delimitavano i confini di un campo (il Mercato) dove si gioca e si vince badando al proprio tornaconto.

Dall’impresa egoista a quella responsabile. E sostenibile.

Nei decenni successivi, la tesi dell’“impresa egoista” è stata soppiantata – soprattutto in Europa – da quella dell’“impresa socialmente responsabile”, tenuta a considerare anche gli interessi dei propri stakeholder (dipendenti, consumatori, fornitori, le comunità sociali più direttamente coinvolte). Robert Shiller (premio Nobel per l’economia nel 2013) si spinse a sostenere che le imprese devono operare al servizio di una società “buona” (the Good Society). O, quantomeno, che possono “far bene” a sé stesse – cioè ottenere profitti – facendo anche del bene alla collettività (doing well by doing good). In altre parole, non solo rispetto dei vincoli fissati dall’esterno, ma anche iniziative proprie con finalità sociali. Le quali possono non essere immediatamente profittevoli per gli azionisti, ma creano valore per quel contesto più generale che genera opportunità e alimenta nel tempo il successo delle imprese stesse.

La sfida ambientale e climatica sta oggi cambiando il quadro di riferimento. La nozione di impresa responsabile non basta più, è sempre meno adeguata rispetto agli imperativi della sostenibilità. Non si tratta più di regole sociali da rispettare e neppure di libere iniziative genericamente filantropiche. La prospettiva di un collasso climatico su scala globale ci rende tutti vulnerabili e tutti stakeholder rispetto a un meta-obiettivo prioritario: assicurare la capacità di “resilienza” dell’intero eco-sistema planetario.

Sostenibilità e Responsabilità Sociale d’Impresa: l’importanza di creare sinergie

In questo nuovo contesto, l’impresa deve diventare anch’essa sostenibile, sia al proprio interno sia nei suoi rapporti con l’esterno. Ciò non significa sacrificare e men che meno abdicare alla logica del profitto. Significa però farsi carico di una nuova missione, assumere una nuova responsabilità: non fare danni al proprio ambiente (come minimo) e, anzi, contribuire a “bonificarlo” e coltivarlo, in modo che esso possa riprodursi nel tempo. In un certo senso, il doing good (promuovere la sostenibilità) diventa una condizione necessaria per il doing well (la performance d’impresa).

Ma cosa vuol dire “sostenibilità”?

Una quota crescente d’imprese (almeno in Europa) ha ormai fatto propria l’agenda della sostenibilità: non solo quella generale dell’ONU – i Sustainable Development Goals (SDG) – ma anche quella più specifica degli indicatori ESG, che misurano la performance sotto il profilo ambientale (E), sociale (S) e della governance (G). Per quanto riguarda la dimensione ambientale esiste ormai una metrica consolidata, recentemente formalizzata dall’Unione Europea nella cosiddetta “tassonomia verde”.

La situazione resta più fluida per quanto riguarda gli aspetti sociali. I problemi sono noti. Per limitarci all’Europa, sappiamo che sulla scia delle ripetute crisi economiche (ma anche del mutamento demografico e, più recentemente, della pandemia) sono rapidamente cresciuti i bisogni socio-sanitari, abitativi ed educativi della popolazione.

Le PMI e la sfida della sostenibilità

Non sono invece aumentati in misura adeguata gli investimenti in questi settori, anzi in alcuni Paesi le risorse sono addirittura diminuite. Il rischio povertà minorile – dopo essere sceso per decenni –oggi riguarda il 25% dei bambini, la quota di persone in condizioni abitative critiche supera il 5% e i giovani che non studiano e non lavorano arrivano in alcuni Paesi (tra cui l’Italia) al 20%. Inoltre, la quota di anziani passerà da 1/5 a quasi 1/3 della popolazione entro il 2060.

Una tassonomia europea per la sostenibilità

Senza una drastica inversione di rotta, la sostenibilità economica e sociale del modello Europeo corre un serio pericolo. Il programma Next Generation Eu ha dato un segnale molto importante. Ma potrebbe non essere sufficiente senza un più attivo coinvolgimento – non solo finanziario – degli attori privati, fra cui appunto le imprese. Come definire concretamente gli obiettivi da perseguire, dando loro un minimo ordine di priorità come è avvenuto per la transizione verde?

La UE sta elaborando una vera e propria “tassonomia sociale”, che guidi le imprese nella scelta di interventi volti all’inclusione e alla coesione. Resta e resterà però l’esigenza di calare obiettivi e criteri generali nei contesti settoriali e territoriali pertinenti. Rispetto alla transizione verde, la responsabilità nei confronti della transizione sociale lascerà maggiori margini di scelta alle imprese, ma creerà anche l’esigenza di nuove capacità per l’analisi dei bisogni, la progettazione degli interventi, il monitoraggio e la valutazione. Altrimenti, gli sforzi delle imprese rischiano di essere dispersivi e/o inefficaci: poco good per la società, con pochi ritorni in termini di well .

Il ruolo delle Fondazioni d’impresa

Al fine di sviluppare queste nuove capacità e ottimizzare l’impatto degli interventi, un numero crescente di imprese si è dotato di uno strumento dedicato: la Fondazione d’impresa. Nella maggior parte dei Paesi UE le fondazioni senza fini di lucro sono diventate un attore di primo piano nella cosiddetta economia sociale. In Francia le Fondazioni d’impresa costituiscono ormai il 15% sul totale delle fondazioni, in Spagna il 16%.

Anche in Italia il fenomeno è in crescita, ma la percentuale è ancora bassa: intorno al 2% (più di 100 in valore assoluto). Una recente ricerca realizzata da Percorsi di secondo welfare conferma che questo tipo di fondazione è stato creato per contribuire al bene comune (potremmo dire, con Fisher, alla Good Society) in modo più efficace ma anche coerente con la cultura aziendale. E’ stato anche rilevato un grande interesse per il modello della filantropia strategica, che nel contesto attuale significa allinearsi all’agenda della sostenibilità in modo proattivo e collaborativo.

Quale ruolo per le Fondazioni di impresa italiane nell’era del Covid-19

Il 17° obiettivo dell’agenda ONU indica proprio la mobilitazione e la cooperazione fra settori e attori come strada obbligata per rispondere all’imperativo della sostenibilità. All hands on deck: tutte le mani sul tavolo, anche quelle delle imprese. L’ appello è particolarmente urgente per il nostro Paese. Che non solo si porta dietro il carico tradizionale di ritardi e divari territoriali, ma che è stato segnato dell’ultimo quindicennio da una crisi economica e sociale particolarmente acuta. Tale crisi ha colpito soprattutto i giovani, nelle loro prospettive di autonomia lavorativa e personale. Un dato molto preoccupante, perché saranno proprio i giovani di oggi a dover sopportare e rimediare ai danni eco-sociali provocati dalle generazioni che li hanno preceduti.

 

Foto di copertina: krakenimages, Unsplash