Considerato l’eco avuto dal nostro intervento della scorsa settimana, ci sembra utile ritornare su alcuni concetti, anche alla luce di ulteriori commenti che nel frattempo sono apparsi su importanti testate d’oltremare. Sarà poi l’occasione per offrire qualche nuovo spunto di riflessione su uno strumento che sembra capace di attirare numerose attenzioni, anche al di là dei primi e fragili risultati.
Innovazione sociale a costo zero e rischi di fallimento
Senz’ombra di dubbio vale la pena richiamare, da un lato, il tema della imposizione fiscale e, dall’altro, quello relativo alla necessità di innovazione. A proposito di quest’ultima basti segnalare come nella revisione dei sistemi di politiche sociali e dei modelli di welfare (volontariamente non si usa qui l’espressione “arretramento del welfare”, che si presta ad una serie di equivoci) nuovi bisogni vanno emergendo (e altrettanti ne emergeranno) cosicché nuove risposte debbono essere formulate. Senza necessariamente approfondire la definizione e le possibili accezioni del termine, qui risiede la ragione essenziale per la quale l’innovazione sociale è stimata come qualcosa di necessario. Alcuni addirittura – e non a torto – segnalano che l’innovazione sociale prima ancora che essere un esito, o un “effetto emergente”, costituisce una strategia che deve essere perseguita a livello collettivo, non senza un serio sostegno istituzionale (Legrenzi, 2005). Come abbiamo già segnalato qualche mese fa, il sistema politico che caratterizza le democrazie rappresentative occidentali sembra mancare di adeguati incentivi affinchè la classe politica, e in particolare chi detiene posizioni di rilievo in seno ai governi, si faccia carico del bisogno di innovazione sociale.
L’innovazione sociale, come ogni tipo di innovazione, presenta un tasso di fallimento particolarmente elevato. Dei vari tentativi di produrre innovazione, pochissimi giungono a termine e possono contemporaneamente essere considerati di successo. Questo d’altra parte è l’assunto di alcune recenti e importanti ricerche realizzate a proposito di innovazione tecnologica (Mazzucato, 2014). Ora, esattamente in quest’ottica dovrebbero intendersi i modelli di social impact bonds, i quali altro non sono che uno strumento innovativo che pretende di fare innovazione. Tale ambizione risiede in una supposta migliore allocazione dei rischi.
Tuttavia quando si parla di rischi e di social impact bond si tende a sottovalutare l’aspetto del rischio di fallimento insito nel perseguimento dell’innovazione. Si tende infatti a far coincidere i rischi relativi ad un social impact bond con quelli corsi dagli investitori, dunque rischi squisitamente finanziari. Questi sono senz’altro presenti, e con altrettanta sicurezza debbono essere attentamente gestiti e redistribuiti tra i soggetti coinvolti nella struttura di un social impact bond, tuttavia i “rischi” interni ad un simile schema sono tutto sommato abbastanza conosciuti, perché coincidono con buona approssimazione a quelli classicamente considerati in ogni operazione di project finance che si rispetti. Come ha analizzato Deborah Burand in un saggio colpevolmente quasi mai citato dalla letteratura, sia essa scientifica o più divulgativa, i rischi di esecuzione, quelli politici, i rischi finanziari e quelli reputazionali sono i rischi che possono compromettere il funzionamento di un social impact bond. Per ciascuno di questi rischi l’autrice dell’articolo, comparso quasi due anni fa sul volume n. 9 del NYU Journal of Law & Business, indica gli strumenti più adatti ad una loro gestione, così da mantenere l’esposizione al rischio di ciascun soggetto partecipante in linea con le proprie capacità e disponibilità.
Tuttavia i rischi più interessanti da considerare non sono quelli presenti all’interno di una operazione condotta attraverso lo schema del social impact bond, bensì quelli che giustificano l’adozione di un siffatto schema. In altri termini, il social impact bond consente di far fronte ad un rischio specifico, quello del fallimento insito in ogni tentativo di innovazione. Considerato che la classe politica non è o non ritiene di essere in grado di farsi carico dei rischi connessi all’innovazione sociale, che sarebbero troppo alti per chi è chiamato a raccogliere e consolidare consenso, i social impact bond sembrano presentarsi come strumenti idonei a distribuire il rischio di fallimento connesso ad un tentativo di innovazione.
Questo è il motivo per cui lo strumento in discorso trova ampio interesse e sostegno bipartisan. Senza dover ricorrere a fondi pubblici, dunque ad un aumento della spesa e relativo incremento del prelievo fiscale, è possibile procedere a sperimentazioni volte a risolvere in modo nuovo problemi sociali risalenti. Solo in questo quadro si può comprendere il paradossale entusiasmo che si è riversato sui media statunitensi nonostante i risultati negativi del social impact bond di Rikers Island. In breve il pensiero comune è: «abbiamo fatto una sperimentazione senza chiedere un singolo dollaro ai contribuenti».
Tra successi e insuccessi, un "buon fallimento"
Ad onore del vero occorre anche segnalare alcuni casi in cui i risultati sembrano essere invece positivi. Come riportato in un breve articolo eloquentemente intitolato “Triple triumph: three UK SIBs return”, si apprende che nel Regno Unito oltre al celebre caso di Peterborough, altri programmi sviluppati mediante lo schema di social impact bonds giungono al loro termine, consentendo di effettuare una qualche prima valutazione. Il “triplo trionfo” concerne tre progetti tutti orientati ad affrontare problemi inerenti i giovani. In particolare si tratta di tre social impact bonds che hanno riguardato tre diversi programmi.
Nel 2012, il Department of Work and Pensions ha stipulato dei contratti di social impact bonds per finanziare i programmi Career Connect, Teens & Toddlers e Adviza, i quali sono tutti costruiti con l’intenzione di affrontare le cause alla base del fenomeno dei giovani NEET (“not in education, employment or training”). Gli investitori sociali hanno fornito il denaro necessario per eseguire questi programmi e sono stati ora rimborsati dal Department of Work and pensions dopo che sono stati raggiunti in anticipo gli outcomes previsti, tra cui il miglioramento della frequenza scolastica e delle prospettive occupazionali. Come nello schema più classico dei social impact bonds, se non fossero stati ottenuti gli obiettivi sociali stabiliti, gli investitori sociali avrebbero perso i capitali investiti posto che in tal caso il governo non avrebbe dovuto pagare.
In ogni caso, indipendentemente da risultati provvisori e comunque ancora insufficienti per esprimersi in via definitiva sulla efficacia del modello di social impact bond, sembra interessante segnalare anche che il tema, così come sin qui inquadrato, implica una particolare attenzione alle logiche della sperimentazione di politiche sociali. Come ha recentemente osservato sulle pagine dell’edizione digitale dell’Huffington Post il professor Robert Slavin, il punto non è il fallimento, quanto piuttosto il tipo di fallimento. Secondo il direttore del Center for Research and Reform in Education della celebre Johns Hopkins University si può distinguere tra good failure e bad failure. Il discrimine tra queste due possibilità risiede nel tipo di errore commesso. La distinzione è tra “wrong” e “wrong-headed”. “Wrong”, così come è definito nel ragionamento di Slavin, significa che un certo outcome non è stato raggiunto, ma era assolutamente ragionevole ritenere che potesse essere raggiunto. All’opposto, “wrong-headed” significa non solo che l’outcome perseguito non è stato raggiunto, ma che era estremamente irrealistico pensare di poterlo ottenere. In molti casi, una componente centrale di azioni “wrong-headed” è che l’attore non conosce neppure se l’azione è stata efficace o non efficace, giusta o sbagliata, così continua col ripetere azioni identiche o simili all’infinito. Con l’espressione good failure e bad failure si vuole in altri termini significare che di fronte a risultati negativi è possibile, talvolta, ricavare preziose indicazioni circa gli sviluppi da perseguire per superare le criticità emerse.
La resistenza al cambiamento e il caso delle carceri private
Dunque una osservazione generale che è possibile formulare a proposito dei numerosi interventi offerti in relazione all’insuccesso del social impact bond di Rikers Island riguarda esattamente la natura del fallimento occorso: non è sufficiente che i costi dell’esperimento non siano gravati sui contribuenti, piuttosto risulta decisivo capire cosa si è imparato – se si è imparato – dal fallimento di Rikers Island. In altri termini, occorre comprendere quali siano stati i fattori che hanno ostacolato il raggiungimento degli outcomes prestabiliti. Non è qui possibile entrare nel merito della bontà o dei limiti inerenti il programma di rieducazione garantito dall’architettura finanziaria del social impact bond di Rikers Island. Tuttavia è utile provare a formulare – sul piano di una riflessione teorica – un possibile ostacolo. Questo, come sopra segnalato, riguarda un fattore di contesto decisivo, che potremmo qualificare come “resistenza al cambiamento”. Che altro non è se non uno dei fattori cruciali del fallimento di iniziative volte al perseguimento dell’innovazione. Studi importanti provenienti dalla sociologia politica ci documentano infatti come analisi della resistenza che si instaura rispetto a tentativi di innovazione consente di apprezzare se tale innovazione è reale o solo presunta.
In base a quanto riportato da Reynold Holding sulle pagine del New York Times di qualche giorno addietro, esisterebbero degli interessi particolarmente forti affinchè i tassi di recidiva non scendano oltre una certa soglia. Per quanto a nostra conoscenza nessuno ha ancora segnalato tale problema, che tuttavia non è da poco, soprattutto per le implicazioni che esso può avere a proposito della compatibilità dei social impact bonds con determinati modelli di protezione sociale.
In particolare si vuole qui richiamare quanto confermato anche nell’ultimo rapporto della Corrections Corporation of America (CCA). Questa è una società per azioni quotata in borsa, che gestisce prigioni private e centri di detenzione, alcuni di sua proprietà e altri in regime di concessione. La CCA è la più grande società del “settore” negli Stati Uniti e gestisce più di 67 impianti con una capacità prevista di 92.500 posti letto. Le entrate della società nel 2012 sono state di 1,7 miliardi dollari. Ora, nel rapporto di CCA del 2014 si legge che «il rilassamento degli sforzi di polizia, la clemenza nelle condanne o nelle sentenze e norme in tema di libertà vigilata» rappresentano un fattore di rischio per le attività e il successo dell’azienda. D’altra parte bisogna considerare il sistema carcerario negli Stati Uniti, dove soggetti privati possiedono e gestiscono numerosi centri di detenzione sulla base di contratti con le amministrazioni pubbliche competenti. Generalmente questi contratti prevedono che il settore pubblico garantisca a tali soggetti privati almeno l’80% dei posti disponibili. Su un piano prettamente teorico, ma non per ciò di scarso rilievo anche pratico, una seria riduzione dei tassi di recidiva costituirebbe un vulnus per il mercato delle carceri private e, nel caso in cui il settore pubblico non riuscisse più a garantire l’occupazione di certe percentuali di “posti letto” stabilite in via negoziale con le aziende del settore, potrebbe scattare il pagamento di una serie di penali, risolvendo la questione con un esborso dalle casse pubbliche.
Ora non interessa qui esprimere una valutazione sulla bontà di un simile sistema, che peraltro è molto distante da quello italiano. Ciò che importa sottolineare è che l’assunto di partenza di un social impact bond non può essere considerato in modo assiomatico e senza una analisi attenta del contesto. Infatti, nel caso dei social impact bond utilizzati al fine di ridurre i tassi di recidiva, bisogna considerare se esistano – e il caso citato dice che esistono senz’altro – interessi contrapposti a tale obiettivo. Non è senz’altro questo il motivo dell’insuccesso dell’esperimento di Rikers Island, che probabilmente risiede nelle modalità concrete con cui è stato realizzato il servizio di rieducazione, tuttavia una osservazione attenta non può evitare di sviluppare qualche riflessione anche su questo aspetto, affatto secondario. In termini più generali si può quindi dire che sistemi di protezione sociale o modelli di welfare che poggino in tutto o in parte su logiche di quasi mercati o – a maggior ragione – di piena liberalizzazione economica di servizi pubblici (privatizzazione) possono verosimilmente contenere forti motivi di “resistenza al cambiamento” perseguito attraverso i social impact bond. Lo strumento di impact investing di cui ci stiamo occupando poggia infatti sulla possibilità di ridurre fenomeni che gravano in termini di costi economici sulle casse pubbliche (cioè sulla collettività). Se i fenomeni affrontati sono invece fonte di guadagno per alcuni soggetti privati che legittimamente operano in tali ambiti e hanno come proprio cliente la pubblica amministrazione, difficilmente potranno trovare un accordo unanime circa la loro riduzione.
Conclusione
Per chiudere queste riflessioni si può innanzitutto ribadire quanto già di recente osservato: i social impact bond sono un sofisticato strumento di policy per la realizzazione di politiche sociali. Per questo motivo non si può pensare che esso sia uno strumento neutro, come d’altra parte Lascoumes e Le Galés ci ricordano a proposito di tutti gli strumenti di policy (2009). Al fondo postula una scelta circa il ruolo che lo Stato, il mercato e la società civile assumono. Da tale scelta consegue anche l’assetto di relazioni che vorrebbero disciplinare le interazioni tra le diverse istituzioni. In altri termini non si può ignorare il contesto.
Inoltre occorre più precisamente rifiutare – almeno allo stato attuale dei fatti – l’idea per la quale i social impact bonds sarebbero uno strumento volto alla privatizzazione dei servizi e dei programmi di protezione sociale. Per certi versi si potrebbe dire esattamente l’opposto: senza un settore pubblico forte e in grado di governare i processi di cambiamento che i social impact bond possono instaurare, non c’è possibilità di successo o – quantomeno – forze di resistenza permarrebbero in maniera consistente e potenzialmente dannosa per l’impiego di questi strumenti. La “resistenza” ai social impact bond deriva dal fatto che essi non sono semplice strumento che discute l’allocazione delle risorse e la distribuzione dei rischi connessi all’innovazione, ma approccio capace di mutare le strutture del sistema economico, dunque aggredire quegli interessi che giocano sugli spazi lasciati aperti da scelte di fondo circa il sistema di welfare o il modello sociale di un paese.
Infine, si segnalano alcune perplessità che andranno risolte e verificate, collegate ad un apparente paradosso. I social impact bond nascono nel solco di una visione del welfare che ha assunto diverse denominazioni, ma che può essere ricondotta a quella di una “terza via” rispetto ai classici ed antinomici modelli di welfare state e welfare neoliberista. Eppure anche rispetto al sistema alternativo dei quasi mercati (Bartlett & Le Grand 1993), dove i privati erogano i servizi e il pubblico finanzia secondo una logica “choice and competition”, l’avvento dei social impact bonds sembra configurarsi in termini di una ulteriore discontinuità.
Resta pertanto aperta la necessità di una scelta di fondo rispetto al modello di welfare per cui si intende optare, nella consapevolezza che non è qui appena sufficiente rifiutare approcci simil-keneysiani o vetero-neoliberisti, ma piuttosto ripensare i paradigmi su cui fondare un sistema di welfare che appare nuovo a tutti gli effetti.
Riferimenti
Bartlett, W. and Le Grand, J. (1993) Quasi-markets and Social Policy. Palgrave Macmillan.
Burand, D. (2013) “Globalizing Social Finance: How Social Impact Bonds and Social Impact Performance Guarantees can Scale Development”. NYU Journal Law & Business, 9: 447-502.
Lascoumes, P e Le Galés, P. (2009) Gli strumenti per governare. Bruno Mondadori.
Legrenzi, P. (2005) Creatività e innovazione. Il Mulino.
Mazzucato, M. (2014) Lo Stato innovatore. Laterza.
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