Quanto illustrato nei precedenti contributi sviluppati a partire dall’ultimo volume di Lester Salamon – che hanno voluto inquadrare il tema e offrire poi una rapida rassegna sui nuovi attori e i nuovi strumenti dell’impact investing, oltre a tentare una sommaria spiegazione delle ragioni sottostanti il fenomeno in discorso – ha fatto emergere un ampio e positivo affresco delle potenziali conseguenze dei cambiamenti in corso alle frontiere della filantropia e nel mondo degli investimenti a finalità sociale. Per di più si è cercato di dare il giusto risalto ad alcuni dei fattori sottostanti agli sviluppi delle nuove frontiere della filantropia. Si tratterebbe di forze più o meno sotterranee che guidano i cambiamenti in atto e che danno agli stessi una certa durata nel tempo, con la conseguenza di aumentare così le possibilità di raggiungere significativi progressi per la vita di milioni di persone svantaggiate in tutto il mondo. Tuttavia non c’è chiaramente modo di svolgere una valutazione sincera di questi sviluppi senza considerare e confrontarsi con i notevoli ostacoli che il fenomeno della finanza sociale deve affrontare. Questi ostacoli si presentano in vari modi, ma sembra particolarmente importante riconoscere e, in ultima analisi, confrontarsi con alcuni di essi.
Nessuna buona azione resta impunita
In primo luogo, è importante riconoscere che lo spostamento del luogo della responsabilità decisionale per l’assegnazione di risorse a finalità sociale dalle fondazioni di beneficienza e dai funzionari dei programma di governo ai gestori di investimenti del settore privato, oltre che la nuova politica di investimenti con la sua enfasi sulle metriche, non sono dinamiche prive di conseguenze per quanto concerne la distribuzione del potere. In poche parole, ci saranno vincitori e vinti in seguito al cambiamento del locus della responsabilità decisionale e dei criteri di assegnazione delle risorse nel mondo delle attività a finalità sociale. E queste conseguenze non necessariamente si tradurranno in un miglior servizio agli obiettivi di carattere sociale perseguiti dalle nuove frontiere della filantropia.
Infatti, le metriche utilizzate per misurare le performance ad impatto sociale offrono indubbi vantaggi in relazione ad alcuni tipi di intervento, mentre rispetto ad altri risultano piuttosto inefficaci. In particolare si deve rilevare che la tipologia di interventi per i quali vi sono metriche disponibili più affidabili non sono sempre e necessariamente interventi capaci di generare quei cambiamenti profondi nell’ambiente sociale circostante. Alcuni cambiamenti richiedono infatti tempi lunghi, mentre le metriche a disposizione giocano sul breve termine e raramente si estendono oltre un anno o due. Salamon non manca quindi di segnalare giustamente che il rischio è quello di vedere sostenute ed incoraggiate, in virtù delle risultante magggiormente positive e legate all’uso delle metriche di misurazione delle performance sociali, iniziative di respiro e ambizione più corti rispetto a quelle che sarebbero necessarie.
Ancora, l’orientamento prevalente degli investimenti sociali e l’enfasi posta sulle metriche si traducono in una certa preferenza per le attività che prevedano la costruzione e l’erogazione di servizi (assistenza sanitaria, cibo, energia elettrica, ecc.). Tuttavia l’esperienza passata ha dimostrato che alcuni dei più profondi e duraturi miglioramenti nella vita delle persone svantaggiate sono il risultato non tanto della fornitura di un particolare servizio, quanto piuttosto dell’eliminazione di strutture di potere inique e degli ostacoli alle possibilità dei singoli. Questo tipo di cambiamento si sottrae alla logica delle metriche e della misurazione dell’impatto, o anche all’idea di un ritorno economico sul breve e medio termine: eppure, al pari di altre attività, ha estremo bisogno di vigorosi sforzi di advocacy. Salamon quindi si interroga sulla possibilità che il clamore e l’entusiasmo generati dal fenomeno dell’impact investing si traducano in una sempre maggiore attenzione a determinate tipologie di interventi sociali, sottraendo considerazione e risorse a quelle iniziative di advocacy che sono ancora oggi necessarie e forse più di altre urgenti. La serietà delle osservazioni mosse da Salamon è riscontrabile se si pensa che senza affrontare questo dilemma, il movimento dell’impact investing potrebbe facilmente scoprirsi in conflitto con i reali impulsi al cambiamento sociale cui vorrebbe invece contribuire.
L’enigma della misurazione dell’impatto sociale
Un modo per gestire e proteggersi dai rischi inevitabilmente presenti nel perseguimento di obiettivi sociali attraverso logiche di mercato è quello di costruire standard di misurazione per le prestazioni a finalità sociale che siano altrettanto rigorosi di quelli generalmente adottati per le performances finanziarie. A loro credito si deve sottolineare che i promotori del nuovo movimento dell’impact investing hanno riconosciuto sin da subito la necessità di tali “social-purpose performance standard” e hanno datto corso ad una serie di tentativi volti al loro sviluppo. Tuttavia, come segnalato da un importante studioso che è punto di riferimento in questo campo, gli sforzi sino ad ora compiuti rimangono ancora “una vaga ricerca” (Trelstad 2014). Nonostante la logica stringente del concetto di “blended value”, che postula non solo un ritorno economico per gli investitori, ma anche (e soprattutto) un impatto di tipo sociale (ed ambientale), tale concetto – spiega Salamon – sembrerebbe rimanere solo una potente e suggestiva metafora dal momento che non esiste ancora alcuno strumento per misurare in modo affidabile il ritorno sugli investimenti filantropici in termini, appunto, di “blended value”, e a maggior ragione non sembrano esistere strumenti di misurazione che siano in grado di comparare i diversi “blended returns” generati da distinti interventi. Gran parte del lavoro svolto sino ad oggi ha riguardato la formulazione di una tassonomia comune dei potenziali indicatori sociali, ambientali, e finanziari. Mentre si deve ammettere che questi sviluppi appaiono senz’altro promettenti, la maggior parte degli osservatori considerano la formulazione di un sistema di misurazione dell’impatto sociale affidabile, nella migliore delle ipotesi, come un work in progress (O’Donohue et al. 2010).
Peraltro, come osserva lo stesso Salamon nella fase conclusiva della sua riflessione, occorre sottolineare che l’individuazione di metriche utili a misurare l’impatto sociale possono avere conseguenze potenzialmente controproducenti in base al punto di osservazione che si assume e alle modalità con le quali tali metriche vengono utilizzate. In particolare, metriche incentrate esclusivamente sull’interesse dell’investitore, dunque fortemente determinate dalla necessità di risultati oggettivamente misurabili, riguardando l’attività di imprese sociali che possono agire per le più svariate ragioni, spesso anche di natura ideale e caritatevole, potrebbero andare ad incentivare comportamenti che non sono in linea con la natura del soggetto che l’operazione finanziaria intende sostenere. In altri termini, determinate metriche assunte come strumento di misura delle performances raggiunte nel perseguimento di un certo obiettivo sociale potrebbero non essere allineate con lo “spirito” delle imprese sociali, dunque finire per incentivare più le conseguenze che le motivazioni alla base dell’impegno, con il rischio di ottenere effetti insoddisfacienti quando non controproducenti.
A parte la sfida che deve affrontare per dimostrare la propria buona fede ai più scettici, il movimento dell’impact investing non è ancora riuscito a conquistare del tutto il proprio principale pubblico, ossia gli investitori istituzionali di primo rilievo, quali i fondi pensione, le compagnie di assicurazione, i fondi sovrani e le grandi aziende. Come affermato in molti importanti reports, questa limitata penetrazione degli investimenti ad impatto sociale nel principale mercato di capitali minaccia di contrassegnare il movimento dell’impact investing come poco più che “una trovata pubblicitaria” o una moda passeggera. Secondo Salamon le ragioni di questo lento sviluppo non sono difficili da individuare e sono state riconosciute sin dall’inizio. Tra i fattori ben osservati e approfonditi in letteratura si possono quindi segnalare la relativa immaturità di molte imprese sociali, la limitata esperienza di numerosi soggetti che operano tra le fila del loro management, la novità di alcuni dei veicoli di investimento disponibili e le enormi incertezze che circondano la liquidità di tali investimenti. A questo si aggiungano gli inevitabili fattori di rischio legati al paese, quelli inerenti i tassi di cambio, gli alti costi di transazione e la mancanza di dati chiari sui rendimenti degli investimenti: è facile capire perché la finanza sociale resta ancora oggi un un business di nicchia o, come è stato definito eloquentemente, un “boutique business”.
Il fastidioso problema del flusso di affari
Un altro fattore che ha inibito la crescita del mercato degli investimenti ad impatto sociale, riguarda il versante della domanda e, in particolare, l’assenza di potenziali soggetti su cui investire. In termini generali un simile apparente paradosso potrebbe trovare diverse linee interpretative. Senz’altro si devono considerare le inefficienze dei mercati di capitali sociali, storicamente frammentati, sconnessi tra loro e relativmente piccoli, dunque caratterizzati da significative distanze, non solo geografiche. Una altra possibile spiegazione riguarda il deficit di competenze che caratterizzerebbero i soggetti su cui potenzialmente investire. I soggetti coinvolti nelle attività a finalità sociale sarebbero caratterizzati da scarse conoscenze dei principi fondamentali della finanza; molti mancano di una chiara comprensione circa la differenza tra capitale operativo e di investimento, non sono in grado di identificare con precisione i propri bisogni finanziari; sono praticamente analfabeti per quanto concerne i diversi strumenti finanziari cui potrebbero ricorrere e non hanno alcuna consapevolezza su come assemblare risorse diverse in pacchetti di finanziamento gestibili. Le distanze tra i soggetti operanti nell’ambito delle attività a finalità sociale e questa mancanza di alfabetizzazione finanziaria di base consentirebbe un divario crescente tra le persone in cerca di capitali, che tendono a immaginare e costruire nella migliore delle ipotesi piccole operazioni, e i potenziali fornitori di risorse, che sono invece abituati ad operare su scale di grandezza decisamente diverse. Si tratta peraltro di un divario che gli addetti ai lavori per la costruzione dell’industria dell’impact investing avrebbero curiosamente trascurato di affrontare in modo coerente, a causa del loro zelo nel portare per primi i nuovi investitori al tavolo delle trattative.
Secondo Salamon, la spiegazione più convincente è che il mercato “alla base della piramide”, pur con tutte le sue promesse, è un mercato estremamente difficile in cui operare e, in particolare, con profitto nel rispetto di significativi obiettivi sociali (Prahalad 2004). Considerato quindi l’alto livello di difficoltà, appare più comprensibile il fatto che gli investitori ad impatto sociale abbiano cercato di evitare di essere i primi ad entrare a sostegno di promettenti business “alla base della piramide”. D’altra parte questo è il classico problema del free rider. Questo si verifica quando un individuo, che non ha pagato per ottenere una o più informazioni, sfrutta quelle di altri operatori, che le hanno ottenute sostenendo il relativo costo. Con altre parole si può dire che, in questa fase iniziale, nessun investitore sembra avere sufficienti ragioni per farsi carico dei costi e dei rischi relativi all’ingresso nel mercato alla base della piramide, perché una volta che la bontà dell’operazione sarà dimostrata e soprattutto saranno disponibili le informazioni necessarie a ponderare i rischi e i ritorni dell’investimento, numerosi competitors entreranno a loro volta nel mercato per trarre profitti senza aver tuttavia dovuto condividerne gli iniziali costi (e rischi). Il risultato è il c.d. “pioneer gap”, ossia l’assenza di finanziamenti utili per sostenere la fase critica di start-up delle imprese sociali promettenti e la conseguente mancanza di operazioni di investimento sufficienti per assorbire l’offerta repressa di capitali sociali.
Possibili soluzioni a questo genere di market failure sono evidentemente da ricercarsi all’esterno del mercato. In questo caso un intervento pubblico potrebbe svolgere un ruolo fondamentale. Tuttavia, considerati i rischi politici connessi alla scelta di tecnologie o modelli di business vincenti, la responsabilità di superare questa imperfezione del mercato potrebbe più propriamente appartenere a quelle istituzioni che in altra sede sono state identificate come “foundations as philanthropic banks”, ossia quelle fondazioni determinate a sfruttare i propri patrimoni e le proprie capacità erogative come leva finanziaria per la raccolta di ulteriori risorse, al fine di ottenere il massimo impatto possibile sulle cause che hanno scelto di sostenere (filantropia imprenditoriale). Tale sostegno potrebbe nel caso di specie assumere la forma di sovvenzioni, esattamente come potrebbe configurarsi quale prestito a basso o nullo tasso di interesse o, anche eventualmente, quale investimento di quasi-equity.
Andar oltre confortevoli assunti
Ciò che la discussione sin qui svolta suggerisce è che i promotori o gli operatori delle nuove frontiere della filantropia e dell’impact investing dovrebbero optare per un momento di autentica sincerità. Infatti, molti degli sviluppi più sopra illustrati sono stati presentati con grande clamore e altrettanta speranza. Sembrava che le tensioni di vecchia data tra il “doing good” (il bene comune) e il “doing well” (il profitto) si fossero miracolosamente sciolte; erano divenuti disponibili investimenti a favore di attività volte al raggiungimento del progresso sociale e ambientale con tassi di rendimento in linea con quelli dei mercati tradizionali; i mercati per gli investimenti privati sembravano pronti e disponibili a sostituire i governi (la spesa pubblica) e la beneficenza dei privati, assumendo il ruolo di principali fonti per la crescita di capitali a finalità sociale; e una nuova era di finanza sociale era proprio dietro l’angolo. Queste affermazioni sono state duramente smentite. In effetti, gli sviluppi delineati mantengono un notevole slancio e costituiscono una immensa promessa. Tuttavia, il mondo delle nuove frontiere della filantropia e dell’impact investing sembra aver raggiunto la maturità sufficiente per riconoscere il duro lavoro che resta ancora da fare. In particolare, tre confortanti assunti che hanno contribuito ad alimentare il clamore intorno al tema degli investimenti ad impatto sociale sono stati da qualche tempo messi alla prova, se non del tutto smentiti. Le realtà generate dagli sviluppi sino ad ora avvenuti nell’ambito della finanza sociale, devono essere osservate e studiate con attenzione posto che l’intero scenario sembra entrare in una nuova fase del proprio sviluppo.
1. Un rapporto rischi-ritorni classico?
In primo luogo, molte delle aspettative inerenti i rendimenti previsti dalla prima letteratura sugli investimenti ad impatto sociale sembrano essere eccessivamente ottimistiche e non supportate dall’esperienza reale dei pionieri che hanno iniziato ad operare nel settore. Per il vero, ci sono potenti esempi di business “alla base della piramide” che producono significativi benefici sociali, generando al tempo stesso rendimenti affatto trascurabili. Ma questi casi sono costituiti da imprese sociali che sono passate per anni di faticosa incubazione prima di emergere come realtà capaci di raggiungere i rendimenti per i quali sono oggi celebrate nella letteratura di settore. Secondo Salamon questa incubazione lunga e costosa è troppo spesso data per scontato, quando non del tutto ignorata, così come risulterebbero ignorate le decine di altri promettenti social business che non sono sopravvissuti alle prime fasi. La soluzione qui non può chiaramente essere quella di rinunciare alle promesse dell’impact investing e alla mobilitazione di capitali di investimento privati per scopi sociali e ambientali. Piuttosto, occorre riconoscere la necessità di pacchetti finanziari più complessi, al fine di conciliare le esigenze di ritorno finanziario degli investitori privati, senza tuttavia trascurare gli eccezionali profili di rischio che affrontano la maggior parte delle imprese in fase di start-up e che intendono orientarsi verso la “fortuna alla base della piramide”.
2. Un sostituto ai governi?
Quanto detto ci porta ad un secondo confortante assunto che si è insinuato nel dibattito inerente le nuove frontiere della filantropia e in particolare a proposito di una certa mentalità ivi affiorata. Si tratterebbe dell’idea per la quale la mobilitazione di capitali di investimento privati per scopi sociali e ambientali avrebbe potuto sostituire gradualmente le scarse risorse e il tardivo coinvolgimento dei governi. A dire il vero, una visione un po’ ideologica delle “privatizzazioni” ha una lunga tradizione nella storia del pensiero politico americano, e in modo particolare, negli ambienti filantropici. Non stupisce quindi ritrovare nel programma politico rappresentato con l’espressione “philanthropicapitalism” il suggerimento che, proprio come il settore privato “funziona meglio del settore pubblico” nella gestione delle imprese e nel generare profitti, così anche dovrebbe avvenire nel perseguimento di obiettivi sociali e ambientali (Bishop e Green 2008). In altri termini, il governo non sarebbe necessario, o per lo meno, non così necessario. Tuttavia, anche questo assunto sembrerebbe trovare scarsa consistenza alla prova dei fatti. Salamon sostiene che se ci vuole un villaggio per crescere un bambino, è allora necessario un insieme di dipartimenti governativi per generare anche un solo piccolo rivolo di capitali per investimenti privati in attività a finalità sociale o ambientale. Il finanziamento e altre forme di assistenza da parte del settore pubblico, erogati direttamente o attraverso le banche multinazionali per lo sviluppo, sono stati in effetti decisivi per spingere gli investitori privati a coinvolgersi nel perseguimento di obiettivi sociali. Sbloccare capitali per attività a finalità sociali sembra richiedere quel tipo di forza e risorse che i governi di per sè avrebbero. In breve, se nessuno può dubitare del ruolo cruciale che il capitale privato è in grado di giocare, non è realistico immaginare che il settore privato si faccia carico da solo delle sfide poste dal contesto globale.
3. Addio alla filantropia tradizionale?
Infine, dovrebbe essere chiaro come le previsioni che hanno accompagnato l’ascesa del fenomeno dell’impact investing in alcuni ambienti e che immaginavano l’imminente fine della filantropia tradizionale si sono rivelate essere esagerate come quelle che ne annunciavano la prematura morte. Come ha chiarito la discussione circa il “<” e la necessità di più complessi pacchetti di finanziamenti, il nuovo mondo degli investimenti ad impatto sociale ha bisogno del vecchio mondo della filantropia tradizionale per avere successo. Salamon è convinto che l’uno non possa facilmente funzionare senza l’altro. Questo non starebbe a signifcare che la filantropia tradizionale non è anch’essa coinvolta in un processo generale di ripensamento e cambiamento. Piuttosto, la filantropia tradizionale dovrà ridiscutere e ridefinire il proprio ruolo e il proprio funzionamento se vuole rimanere pienamente rilevante nel nuovo mondo della finanza ad impatto sociale. Essa dovrà funzionare sempre più da catalizzatore per complessi consorzi finanziari. Dovrà collaborare con altri tipi di istituti di finanziamento, siano essi pubblici o privati. E soprattutto, sarà necessario imparare a combinare il suo strumento tradizionale delle sovvenzioni e delle erogazioni con altre risorse, proprie e di altre istituzioni, con l’obiettivo di ottenere la leva finanziaria necessaria per acquisire una sempre maggiore incidenza sui gravi problemi che il mondo è chiamato ad affrontare.
La via da seguire
Per quanto sino ad ora riportato, dovrebbe apparire chiaro che le nuove frontiere della filantropia costituiscono una significativa promessa per il raggiungimento di importanti contributi ad una ampia gamma di problemi sociali, economici e ambientali. Invero occorre segnalare come le soluzioni offerte da molti dei nuovi sviluppi che sono in corso sulle nuove frontiere della filantropia e dell’impact investing potrebbero non essere le più appropriate per ogni problema e in ogni luogo. Secondo Salamon esisterebbero alcune condizioni chiave perché l’impact investing possa funzionare effettivamente: (1) la questione o il problema da affrontare deve porsi su una scala di grandezza tale da rendere improbabile che il settore pubblico o quello della filantropia abbiano autonomamente sufficienti risorse per affrontarlo; (2) deve essere disponibile una soluzione basata sul mercato che sia praticabile o, in prospettiva, almeno ragionevole; (3) gli investitori privati tradizionali non dovrebbero essere già fortemente impegnati in quell’ambito o su quel problema; e (4) soluzioni basate sul mercato devono essere considerate moralmente accettabili in relazione ai beni e ai servizi in gioco. Chiaramente, non tutte le sfide del globo, e forse neppure le più gravi tra loro, soddisfano questi criteri.
Peraltro si deve osservare che molte delle nuove tecniche e dei nuovi strumenti di impact investing non sono privi di limiti: la loro complessità scoraggia molti potenziali partecipanti, standard validi e attendibili per la verifica del raggiungimento di specifici outcome sociali non sono stati ancora completamente sviluppati e l’avvento di investitori dotati della pazienza necessaria per attendere i riscontri dei vari proof-of-concept potrebbe non essere così imminente. Eppure, nonostante questi evidenti limiti, gli osservatori hanno individuato e tuttora continuano a scoprire una serie di aree in cui i nuovi attori e i nuovi strumenti avrebbero un notevole potenziale. In breve, al di là degli ostacoli e dei limiti, quanto si sta affermando sulle nuove frontiere della filantropia e dell’impact investing sembra contenere una promessa sufficiente a giustificare ulteriori incoraggiamenti. È dunque utile segnalare qualche direzione che gli ulteriori incoraggiamenti dovrebbero prendere.
Secondo Salamon rimane innanzitutto una forte esigenza di abilitare sempre più persone a “visualizzare” e comprendere i drammatici cambiamenti che sono in corso nell’ambito di quello che si è sino ad ora identificato con le nuove frontiere della filantropia e dell’impact investing. Occorrerebbe offrire una cornice ampia e in grado di ricomprendere concettualmente gli sviluppi in atto, così da trovare una loro rappresentazione coerente. Questo è ritenuto il primo essenziale passo per consentire ai vari stakeholders di apprezzare la decisività dei cambiamenti e iniziare a porsi in un atteggiamento di relazione più intensa con essi.
Se la visualizzazione è ovviamente il primo passaggio utile per incrementare e diffondere la consapevolezza necessaria al fine di portare il messaggio dell’impact investing ai vari gruppi di stakeholders, il loro coinvolgimento sarà decisvo per il mantenimento della sua promessa. Per questo secondo Salamon è necessario un più robusto sforzo per l’educazione e l’allargamento del campo d’azione. Infatti, la conoscenza degli sviluppi qui descritti rimane piuttosto casuale, anche tra i soggetti direttamente interessati (fondazioni, gestori di investimenti, fondi pensione, società di fondi comuni di investimento e organizzazioni non-profit operanti in una vasta gamma di settori). L’impact investing necessita in particolare di una comunicazione più ampia e una adeguata sensibilizzazione del pubblico. Nonostante il consistente investimento di tempo e di risorse, questo campo rimane un subcontinente lontano, ben fuori dai sentieri battuti dalla filantropia più importante e da molti investimenti privati, oltre che praticamente sconosciuto alla maggior parte se non a tutti i più intrepidi esploratori del mondo non-profit. Per ovviare a questo problema sarà necessario portare le informazioni disponibili sulle nuove frontiere della filantropia ad un pubblico sempre maggiore, con lo scopo di portare i nuovi strumenti e dei nuovi attori dai margini al centro della scena.
Un ulteriore e importante incoraggiamento di cui c’è bisogno consiste nell’introduzione di incentivi chiari e palesi. Una conclusione fondamentale del recente lavoro di valutazione della storia di alcune delle nuove forme di filantropia e di investimento sociale è la imperitura importanza di idonei sistemi di rafforzamento del credito, di specifici requisiti normativi, di agevolazioni fiscali e altre forme di incentivi affinchè questi nuovi strumenti possano effettivamente mantenere la promessa di fornire significative conquiste sociali, economiche e ambientali per le popolazioni e le regioni svantaggiate, attirando quindi l’interesse di investitori privati. In un certo senso, la retorica dell’investimento ad impatto sociale sembra essere ritornata al punto da cui era partita nemmeno un quinquennio fa. Inizialmente, i nuovi strumenti di investimento sociale market-based erano stati promossi come un modo per far fronte ai ritardi del governo e alla debolezza del sostegno offerto dalla filantropia tradizionale. Tuttavia i fautori di simile prospettiva hanno recentemente realizzato che il governo e la filantropia istituzionale classica in realtà non solo sono importanti, ma risultano decisivi per il successo degli approcci al sociale basati sul mercato. Sempre più necessari sono poi sistemi di finanziamento complessi che combinino sovvenzioni, prestiti non garantiti e varie forme di garanzie, sussidi e, occasionalmente, specifiche regolamentazioni, offerti da governi e da fondazioni di beneficenza al fine di liberare il flusso di investimenti di capitali privati e rendere così possibili complesse operazioni. Perché ciò sia possibile è tuttavia vero che tanto i governi che le fondazioni dovranno – almeno in parte – modificare il loro attuale modus operandi. Salamon ritiene che per avere presto ed effettivamente disponibili i menzionati incentivi sono necessari ulteriori progressi nello sviluppo di standard per la valutazione delle performance che possano legittimare pienamente il supporto a nuove forme di investimento sociale di governi e fondazioni. Considerato che l’idea fondante dell’impact investing risiede nell’utilizzo di strumenti di mercato a fini sociali ed ambientali, generando rendimenti in linea con i tassi correnti per almeno alcuni degli investitori, occorre che il mondo della finanza sociale sia ancora più vigile rispetto ai tradizionali schemi filantropici affinchè si mantenga la fiducia del pubblico. Si tratterebbe in altri termini di stabilire metodi efficaci per un accrescimento in termini di accountability dell’intero sistema. Infatti, poter dimostrare la propria buona fede rispetto la finalità sociale perseguita sarà una perenne e sempre crescente sfida per questo genere di iniziative, in particolare quando gli sperati tassi di ritorno cominceranno a materializzarsi. Se il mondo dell’impact investing è serio rispetto ai propri indicatori di performance non finanziaria, dovrà ampliare il suo approccio: invece di concentrare la propria ricerca su indicatori che Salamon e altri definiscono “investor-centered”, sarà necessario guardare ad indicatori che possano risultare persuasivi per altri tipi di soggetti che debbono essere coinvolti al fine di un efficace funzionamento degli strumenti di impact investing: si tratta dei soggetti che possono offrire quegli incentivi che più sopra sono stati indicati come necessari, ossia i governi e la filantropia privata.
Un altro passo che Salamon reputa necessario perchè la promessa inscritta nelle nuove frontiere della filantropia sia mantenuta è quello di affrontare la questione critica del limitato flusso di affari. È sul punto necessaria una formazione seria per costruire la c.d. “investment readiness” di attuali o potenziali imprenditori sociali. Molti tra coloro che, all’interno delle imprese sociali, rivestono incarichi in grado di metterli in contatto con le nuove risorse potenzialmente disponibili grazie alle nuove frontiere della filantropia e dell’impact investing, mancano della conoscenza finanziaria minima per approfittarne in modo efficace. È quindi necessario un importante impegno per quanto concerne la formazione indispensabile per preparare le organizzazioni e i professionisti alla strutturazione di operazioni che soddisfino i requisiti richiesti dal mercato degli investimenti ad impatto sociale. Infine, ciò che è senz’altro necessario è che si continui a svolgere l’arduo compito di realizzare operazioni, fare attività di scouting sul terreno delle innovazioni sociali più promettenti, decidere quali potrebbero mantenere la promessa di diventare commercialmente valide generando vantaggi sociali e ambientali significativi, valutare realisticamente le loro esigenze in termini sia di capitale e che di competenze manageriali, raccogliere la combinazione necessaria di assistenza finanziaria e tecnica, oltre che portare i modelli funzionanti su scala generale.
Chiaramente i costi di transazione di questo insieme di attività sono enormi. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che una recente relazione sullo stato della nascente industria degli investimenti ad impatto sociale abbia identificato l’immissione e la gestione del capitale, come una delle maggiori sfide che il campo dell’impact investing si trova ad affrontare. Questa sfida probabilmente non sarà vinta da investitori sociali che lavorano per conto proprio. Richiederà la creazione di consorzi di investitori, che si mettano insieme per condividere la conoscenza dei dati, identificare opzioni di investimento promettenti, raccogliere le risorse, distribuire i rischi, migliorare le pratiche e, dunque, ridurre i costi di transazione.
Conclusioni
La comunità globale in questo momento si trova dinnanzi ad enormi sfide. Stati in default, terrorismo internazionale, riscaldamento globale, povertà persistente, deforestazione, scarsità d’acqua, problemi di salute, scarsità di cibo e disoccupazione giovanile sono solo alcuni dei dei temi da affrontare. I nuovi strumenti e i nuovi attori, esaminati in questo percorso che abbiamo da qualche tempo intrapreso, non sono una panacea in grado di risolvere tutti questi problemi. Eppure è difficile non vedere le nuove frontiere della filantropia, e in particolare il fenomeno dell’impact investing, come uno degli sviluppi maggiormente promettenti in uno scenario caratterizzato da risorse sempre più scarse e difficoltà sempre più pressanti. Gli sviluppi di cui si discorre promettono di portare nuove e significative risorse a favore di rinnovati sforzi per risolvere problemi globali relativi alla povertà, alla salute e al degrado dell’ambiente; promettono di dar vigore a nuove energie e nuove fonti di ingegno per la soluzione a problemi sociali e ambientali; promettono anche di democraticizzare le soluzioni ai dilemmi inerenti la filantropia e le opere sociali; promettono infine di sfruttare in modo costruttivo le nuove tecnologie e i nuovi atteggiamenti di responsabilità sociale. Salamon quindi conclude richiamando le preoccupazioni e le riflessioni contenute in una lettera enciclica dedicata alla “carità”. In tale documento si può leggere che «la distinzione tradizionalmente valida tra società basate sulla ricerca del profitto e organizzazioni non-profit non rende più adeguatamente giustizia alla realtà dei fatti o non è comunque in grado di offrire una pratica direzione per il futuro». Le nuove frontiere della filantropia sino a qui illustrate trovano in effetti un potente sostegno e incoraggiamento dall’osservazione ora richiamata. La nuova e composita realtà che sta emergendo, mentre non esclude il profitto, sembra volersi assicurare che il profitto sia utilizzato come «uno strumento per il raggiungimento di fini umani e sociali» (Benedetto XVI 2009).
Riferimenti
Trelstad B. (2014), The Elusive Quest for Impact: The Evolving Practice of Social Impact Measurement, in Salamon L., New Frontiers of Philanthropy. A Guide to the New Tools and New Actors that Are Reshaping Global Philanthropy and Social Investing, Oxford University Press, 2014
O’Donohue N., C. Leijonhufvud, Y. Saltuk, A. Bugg-Levine, and M. Brandenburg (2010), Impact Investments: An Emerging Asset Class, J.P. Morgan
Prahald C.K. (2004), The Fortune at The Bottom of The Pyramid. Eradicating Poverty Through Profits, Wharton School Publishing (ed. it. La fortuna alla base della piramide. Sconfiggere la povertà e realizzare profitti, Il Mulino, 2007)
Bishop M. and Green M. (2008), Philanthrocapitalism: How the Rich Can Save the World, Bloomsbury Publishing
Benedetto XVI (2009), Caritas in Veritate, Libreria Editrice vaticana
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