Nel fiorire dell’interesse per un fenomeno come quello della c.d. finanza sociale, documentato da numerosi interventi sul tema, talvolta sinceri nelle intenzioni ma privi del necessario approfondimento, bisogna in ogni caso riconoscere il merito di chi ha contribuito a portare l’attenzione del dibattito pubblico su tali argomenti. La complessità del tema non facilita di certo una comprensione immediata delle dinamiche che da qualche anno a questa parte sono in atto nel contesto globale dell’impact investing. In particolare vale la pena indicare nella eccessiva semplificazione e nella parcellizzazione della visione complessiva, i principali limiti di tanta parte del discorso inerente la finanza sociale. Il dibattito vuole spesso servire due possibili platee: da un lato i policy makers, che potrebbero beneficiare di nuovi strumenti per la realizzazione di politiche pubbliche, soprattutto nell’ambito del welfare, dall’altro l’opinione pubblica, che sui primi può esercitare alcune pressioni e più in generale, può dare il via a qualche forma di sperimentazione. Ciò detto è evidente che l’assenza di una visione complessiva del fenomeno “finanza sociale”, potrebbe bruciare anche le intenzioni dei più sinceri, i quali facilmente si troverebbero dinnanzi al tipico scetticismo che emerge quando cambiamenti e innovazioni sono presentati come una “vera rivoluzione”. Per far fronte a tale situazione è utile rileggere qualcuno dei passaggi svolti recentemente da Lester Salamon, professore alla Johns Hopkins e da anni punto di riferimento per ogni serio discorso intorno a terzo settore e realtà filantropiche. Uno dei tentativi più significativi di portare un po’ di ordine nella discussione è rappresentato infatti da un corposo volume del professore, curato per la Oxford University Press e uscito lo scorso luglio. Il testo, intitolato New Frontiers of Philanthropy. A Guide to the New Tools and Actors Reshaping Global Philanthropy and Social Investing, raccoglie numerosi contributi di diversi studiosi, ciascuno dedicato ad uno specifico aspetto di quelle che Salamon non esita a definire, appunto, le “nuove frontiere della filantropia”.
Uno dei pregi principali dell’opera consiste proprio nel fatto che i diversi saggi ivi raccolti raccontano in modo esaustivo quanto sta accadendo nel mondo degli investimenti sociali, senza cedere a facili entusiasmi e – al tempo stesso – mostrando con chiarezza tutto il potenziale che nuovi attori e nuovi strumenti offrono alla filantropia tradizionale. Ancora, si deve riconoscere che il lavoro di Salamon ha il merito di delimitare un campo di studio che spesso assume contorni sfumati e forieri di equivoci. Si pensi in tal senso alla confusione che spesso viene fatta tra finanza sociale e finanza etica o finanza responsabile. Insomma, attraverso un significativo sforzo sistematico, il testo pretende di essere, come d’altra parte emerge dal sottotitolo dell’opera, una guida ai nuovi strumenti e attori che stanno ridisegnando a livello globale la filantropia e gli investimenti sociali.
Oltre alla completezza della trattazione generale, ciò che differenzia il lavoro di Salamon dai pochi altri tentativi analoghi è l’attenzione alle dinamiche evolutive che hanno portato all’emersione di nuovi soggetti operanti nel c.d. terzo settore, peraltro mostrandone un volto per certi versi nuovo e – fino a qualche tempo fa – inaspettato. Molta parte della letteratura si concentra infatti sugli strumenti, prescindendo tuttavia dagli attori che tali strumenti hanno ideato o rielaborato, traendoli da altri “mondi”. L’enfasi posta sugli strumenti piuttosto che sugli attori, implica spesso che i conseguenti suggerimenti di policy risultino tanto interessanti quanto bisognosi di significativi sforzi per la loro traduzione pratica. L’attenzione di Salamon nel “mappare” i nuovi attori della finanza sociale permette invece di apprezzare appieno il senso degli strumenti, recuperandone ratio e modalità attuative.
Peraltro anche la struttura dell’opera consente di avvicinarsi al tema con la dovuta cautela, senza eccessivi approfondimenti e tecnicismi, grazie ad un primo e lungo saggio, scritto dallo stesso Salamon, che funge da sintesi efficace per il dipanarsi del percorso successivo, questo effettivamente più approfondito e capace di scendere anche nella casistica e nei problemi tecnici tuttora aperti. L’obiettivo del percorso che Salamon ha compiuto e di cui qui è possibile solamente segnalare il punto di abbrivio, consiste nell’offrire una chiara roadmap per orientarsi nella vasta gamma degli importanti sviluppi che sono in corso alle frontiere della filantropia e del social investing. Lo scopo è quindi approfondire la consapevolezza di tali sviluppi e aumentare la loro credibilità e capacità di trazione rispetto alle sempre più pressanti esigenze che nella società emergono. Si tratta in altre parole di valorizzare quanto più possibile i benefici che essi sono in grado di generare, senza disconoscere limiti e sfide che li attendono. Il percorso necessario per ottenere una visione di insieme e coerente del fenomeno si svolge lungo alcune tappe essenziali. Dopo una utile introduzione del tema e una prima contestualizzazione, grazie anche a qualche chiarimento terminologico, Salamon dedica una certa attenzione alla descrizione dei nuovi attori e dei nuovi strumenti operanti sulle frontiere della filantropia e degli investimenti sociali. In seguito l’autore non manca di formulare una ipotesi circa le ragioni di un cambiamento in atto, nel tentativo di cogliere qualche nesso tra la proliferazione di attori e strumenti e il contesto socio-economico attuale. Il percorso di Salamon si conclude col tentativo di dare risposta ad una duplice necessità che nei passaggi precedenti sembra emergere con chiarezza: da un lato, riconoscere alcune delle sfide e dei rischi che gli sviluppi in corso nel mondo della finanza sociale pongono; dall’altro, identificare i passi che devono ancora essere compiuti per ottenere i benefici più sostanziali che le nuove frontiere della filantropia e degli investimenti sociali promettono.
Il punto di partenza. Alla ricerca della leva
L’elemento che sembra accomunare tutte le vicende che caratterizzano l’ascesa della finanza sociale può essere rappresentato da una tipologia di accordi che risponde all’idea di «mettere insieme forze in apparenza contrapposte, le quali sono in grado di dimostrare come, traendo vantaggio dalle proprie interdipendenze, possono produrre nuove forme di vita». Con tale espressione si vuole sottolineare il superamento di una serie di contrapposizioni tradizionali, come quelle tra utilitarismo e altruismo, profit e non profit, etica e business, economia reale e finanza. Per questa ragione Salamon non esita a definire quanto sta accadendo come una vera e propria rivoluzione. Le dinamiche che descrivono almeno in parte la “rivoluzione” in discorso possono essere sintetizzate attraverso quattro processi che segnano il superamento di alcuni classici elementi della filantropia tradizionale:
- oltre le sovvenzioni: il meccanismo delle sovvenzioni non è più l’unico sistema di sostegno e promozione di scopi sociali (si pensi tra i molti ai prestiti, con o senza garanzie, o ai più recenti social impact bonds);
- oltre le fondazioni: si assiste all’emersione di una serie significativa di nuovi soggetti che agiscono come strutture istituzionali attraverso le quali la finanza sociale si sta sviluppando (aggregatori di capitale, social stock exchanges, broker di imprese sociali e portali internet, solo per citarne alcuni);
- oltre i lasciti o le donazioni: la formazione di capitali filantropici non avviene più semplicemente attraverso le donazioni di individui facoltosi, ma anche attraverso la privatizzazione di assets in pubblici o quasi-pubblici, ovvero attraverso l’istituzione di fondi di investimento specializzati in finalità sociali;
- oltre il denaro contante: si diffondono strutture che combinano nuovi accordi di scambio con le potenzialità di internet, allo scopo di facilitare donazioni non solo in denaro, ma anche in natura, siano esse nella forma di attività volontaria di persone che offrono tempo ed esperienza o piuttosto di dotazioni hardware e software.
È fuor di dubbio che sulle frontiere della filantropia e degli investimenti sociali stia emergendo un nuovo paradigma, in particolare attraverso la ricerca di leverage, ossia il meccanismo che consente di tradurre energia limitata in una maggiore potenza. L’ingresso del concetto di “leva” è rappresentativo del cambiamento in atto e segna il carattere innovativo di un mutamento che per molti si sta svolgendo all’insegna della discontinuità. Laddove la filantropia tradizionale poggiava principalmente sugli individui, le fondazioni e i programmi di responsabilità sociale d’impresa, le nuove frontiere della filantropia impegnano un più ampio e diversificato gruppo di istituzioni finanziarie private, tra cui banche, fondi pensionistici e previdenziali, come anche fondazioni che sviluppano le proprie attività operando come “banche filantropiche”. Laddove la filantropia tradizionale era perlopiù concentrata sugli introiti necessari all’operatività dell’impresa sociale o del soggetto non profit, le nuove frontiere sono più chiaramente concentrate sui capitali di investimento, che mirano a finanziare lo sviluppo sul lungo termine. Laddove la filantropia tradizionale incanalava la propria assistenza quasi esclusivamente nei confronti di organizzazioni non profit, le nuove frontiere sostengono anche un eterogeneo assortimento di imprese sociali, cooperative e altri tipi di organizzazioni ibride. Laddove la filantropia tradizionale portava una prospettiva di tipo caritatevole nel proprio lavoro, concentrandosi esclusivamente, o almeno principalmente, sul ritorno sociale, gli attori che operano sulle nuove frontiere della filantropia portano oggi un approccio più orientato all’investimento, concentrandosi sui ritorni sociali e finanziari, oltre che ricercando la strutturazione di sistemi auto-sostenibili che possano portare a soluzioni permanenti dei problemi sociali affrontati. Laddove la filantropia tradizionale muoveva tutto sommato una frazione relativamente limitata di risorse e comunque facente parte delle proprie disponibilità, le nuove frontiere riescono a smuovere le riserve più profonde che si trovano nell’ambito dei capitali privati. E laddove la filantropia tradizionale ha sempre ricercato la propria soddisfazione negli output generati dalle azioni messe in campo, le nuove frontiere sembrano porre una grande enfasi sugli outcomes delle proprie attività, con la conseguente spinta a ricercare metriche attendibili per la misurazione dell’impatto sociale.
Nuove frontiere della filantropia e social impact investing
La diffusione di un certo e giustificato entusiasmo ha senz’altro contribuito a portare alla luce fenomeni nuovi e promettenti che, come sopra accennato, stanno dando forma a nuovi modi di fare filantropia e nuove tecniche di finanziamento per servizi socialmente orientati. Tuttavia non si tratta solamente di modalità e strumenti differenti da quelli utilizzati dalla filantropia tradizionale, posto che tali mutamenti suggeriscono – come ebbe già a dire nel 2009 anche Stiglitz – un processo di ripensamento generale per trovare un nuovo equilibrio tra mercati, governi e altre istituzioni, inclusi i soggetti non profit e le cooperative, con lo scopo di costruire un sistema economico plurale. Per tale ragione è più che opportuna qualche riflessione che Salamon introduce nelle prime battute del suo lavoro. In particolare sembra utile considerare alcune espressioni che vengono spesso utilizzate nel discorso relativo alla finanza sociale, così come può risultare di aiuto qualche specificazione su elementi basilari e caratterizzanti le nuove frontiere della filantropia.
Salamon specifica come l’uso del termine “filantropia” avvenga da parte sua nella accezione più elementare: «la fornitura di risorse private a fini sociali o ambientali». Il vantaggio di usare tale locuzione sarebbe infatti quello di ricordare che, anche nel caso in cui fossero previste attività in grado di generare profitti e consentire la restituzione di interessi sugli investimenti, l’obiettivo principale rimarrebbe “sociale”. Ora, ad avviso di chi scrive, la scelta di parlare di “nuove frontiere della filantropia” si può spiegare anche sulla base di due ulteriori ragioni. Una di carattere più soggettivo, l’altra invece relativa ad un dato culturale. Da un lato, Salamon giunge al tema della finanza sociale come esito di un percorso di ricerca pluriennale che ha apportato significativi progressi proprio nella comprensione del fenomeno filantropico; dall’altro lato, poi, il contesto culturale da cui Salamon proviene è quello statunitense, dove la dimensione filantropica ha un peso sociale ed un valore civile significativamente differenti rispetto a quella europea, essendo nata in buona parte nell’ambito dell’attività di impresa, per stemperare l’idea originaria di una azienda intesa come commodity, dunque finalizzata solamente alla soddisfazione della proprietà. Questi due dati sembrano spiegare, almeno in parte le ragioni di una scelta netta da parte di Salamon per il versante filantropico dei cambiamenti dallo stesso osservati. Pertanto, se da un lato sembra assolutamente condivisibile la scelta di descrivere i cambiamenti in atto riferendosi alla filantropia e dunque, oggi, identificarli come “nuove frontiere della filantropia”, tuttavia si deve allo stesso modo riconoscere che le “nuove frontiere della filantropia” costituiscono una delle possibili prospettive di osservazione. A riprova di tale affermazione starebbe peraltro il fatto che altre locuzioni sembrano oggi maggiormente diffuse. Eppure Salamon segnala come le alternative alle “nuove frontiere della filantropia” possano apparire deboli e poco chiare. Ad esempio, il termine “impact investing” offrirebbe in sé «pochi indizi su quello che dovrebbe essere il contenuto di tale “impatto”». Per questo si potrebbe infatti ricorrere all’espressione "social-impact investing", posto che – si pone come evidenza – ogni tipo di investimento porta ad un eventuale impatto, ma il problema è quello di specificare quale tipo di impatto un investimento persegue. Che l’impatto ricercato da determinati tipi di investimento sia “sociale” sembra essere però ancora poco chiaro. Il c.d. social purpose rimane cruciale per definire il concetto di social-impact investing. Su tali osservazioni si può poi semplicemente registrare come anche il termine "finanza sociale" possa presentare i medesimi limiti ora evidenziati rispetto all’espressione “social-impact investing”.
Secondo quanto riporta Salamon, perché un investimento possa essere considerato come finalizzato ad uno scopo sociale, occorre considerare in quale modo l’investimento sia in grado di influire su uno tra i tre seguenti fattori: la popolazione assistita, il processo di produzione che supporta, i beni o i servizi prodotti.
Il passaggio di Salamon è particolarmente rapido e al lettore potrebbe rimanere qualche perplessità, posto che non vi sono ulteriori specificazioni che consentano di individuare cosa sia “sociale”. D’altra parte, a favore di Salamon, bisogna registrare come la sua scelta iniziale, ossia quella di approcciare il tema della finanza sociale dal versante della filantropia, da un certo punto di vista giustifichi l’assenza di ulteriori approfondimenti. Infatti, al di là delle definizioni che nel nostro discorso risultano necessarie per orientarsi nel mondo dell’impact investing, tutto ciò che viene dalla filantropia (orientamenti, iniziative, azioni, programmi e simili) dovrebbe essere di per se stesso “sociale”. Così, nella legittimità di ogni possibile prospettiva di osservazione, emerge un qualche profilo critico circa l’approccio di Salamon. Ad avviso di chi scrive si sarebbe potuta spendere qualche riflessione in più. Ad un livello inziale, dunque ancor prima di discutere del “sociale” circa la finanza, sarebbe stato utile approfondire in che modo la specificazione “sociale” sia in grado di definire l’ambito di attività delle imprese, appunto, sociali. È da tale riflessione che sarebbe poi possibile estendere il significato di “sociale” anche alla finanza. Pertanto qui sembra utile richiamare il pensiero di Bellanca che nel definire l’impresa sociale offre un interessante spunto: «l’impresa è sociale se offre, con un impegno vincolante di governance, i servizi dei commons e i merit goods, impiegando in maniera non privatistica la maggior parte degli eventuali profitti». Al di là degli aspetti legati alla governance e all’utilizzo degli utili, ciò che qui si vuole sottolineare è il nesso tra “sociale” e il tipo di attività che l’impresa svolge. Questa deve riguardare la produzione, o meglio, i servizi legati alla gestione, all’accesso e alla fruizione di determinate tipologie di beni economici. Senza qui addentrarsi nello scivoloso terreno relativo ai celebri commons e merit goods, sembra che la definizione ora riportata, se adeguatamente argomentata discutendo le caratteristiche dei beni economici in discorso, magari anche integrata con i sintetici criteri indicati da Salamon, potrebbe essere di grande aiuto anche per stabilire se una determinata attività possa essere o meno considerata “sociale”.
Capitale di investimento versus capitale operativo
Una ulteriore precisazione che occorre fare quando si parla di finanza sociale, riguarda il tipo di apporto finanziario di cui si discute. La chiarezza circa il “tipo” di capitale ricercato dai nuovi soggetti operanti alle frontiere della filantropia non è un passaggio ulteriore, per chi volesse eventualmente approfondire, ma è il prerequisito per capire di cosa si tratta e quindi se e a quale reale necessità risponderebbe la finanza sociale. Non sono infatti pochi i soggetti appartenenti al c.d. terzo settore che attendono con ansia il diffondersi di nuovi strumenti in grado di apportare capitale alle proprie organizzazioni. Tuttavia dietro questa attesa c’è spesso la speranza che capitali freschi vengano a risolvere i cronici problemi di liquidità e di bilanci in rosso: occorre capire bene che la finanza sociale non nasce in prima battuta per rispondere a questo genere di problemi.
In maniera un po’ semplicistica ma utile ai fini di una maggiore chiarezza, occorre distinguere tra capitale operativo (o circolante netto) e capitale di investimento. Mentre il primo riguarda il capitale che le organizzazioni utilizzano per eseguire le loro operazioni annuali, dunque coprire sostanzialmente i “costi della produzione”, il secondo, cioè il capitale di investimento, è costituito da quelle entrate che certamente possono contribuire al risultato operativo nel futuro, ma che vanno sostanzialmente a costruire da un lato, capacità e funzionalità organizzative a lungo termine, attraverso l’acquisto di attrezzature, servizi, competenze, e dall’altro, la pianificazione strategica che si prevede necessaria per la sostenibilità e lo sviluppo dell’organizzazione nel lungo periodo.
Appare quindi evidente che quando si parla di finanza sociale o social impact investing, la tipologia di capitale che si ricerca non è certo quello necessario al semplice funzionamento dell’impresa sociale o del soggetto non profit. La finanza sociale non nasce quindi per sopperire alle inefficienze (in termini strettamente economici) delle imprese sociali e degli enti non profit. Al contrario, la finanza sociale gioca in attacco: se l’impresa che eroga servizi sociali è efficiente e le sue iniziative o attività risultano dal punto di vista sociale efficaci, allora occorre – e può convenire – contribuire finanziariamente alla loro valorizzazione. In gergo si direbbe che al centro delle intenzioni di un investimento sociale c’è quella di “scalare” il servizio. Dunque il tipo di capitale necessario è quello di investimento, utile a far crescere l’impresa e così “allargare” il suo raggio di azione (sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo).
Conclusioni per continuare
Alla luce di quanto si è più sopra cercato di illustrare, appare evidente che l’unica possibile conclusione consiste nell’invito a misurarsi con il volume di Salamon. Una lettura critica di quest’opera, sebbene impegnativa, consente di iniziare ad entrare nel complesso e eterogeneo mondo della finanza sociale. D’altra parte, che si tratti di un percorso necessario è dimostrato proprio dal fatto che – a sentire Salamon – la filantropia un simile percorso l’ha già cominciato. Si tratta infatti di una realtà oggi in forte movimento, che a livello globale sembra incedere a passo sicuro verso e oltre le proprie frontiere.
Riferimenti
Salamon L. (2014), New Frontiers of Philanthropy. A Guide to the New Tools and Actors Reshaping Global Philanthropy and Social Investing, Oxford University Press
Bellanca N. (2011), Elementi di una teoria dell’impresa sociale, AICCON, Working Paper 95
Stiglitz J. (2009) Moving beyond market fundamentalism to a more balanced economy, Annals of Public and Cooperative Economics, 80(3):.345-360.
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