La sigla DE&I sta per diversità, equità e inclusione (Diversity, Equity, & Inclusion in inglese) e indica tre valori che molte organizzazioni lavorative hanno recentemente iniziato ad adottare e valorizzare. Promuovere la diversità e l’inclusione all’interno di un’organizzazione è ormai diventata una necessità sociale, oltre che un modo per favorire un ambiente di lavoro attento alle sfide del presente.
Come mai è necessario questo approccio? Quali sono i benefici e le sfide per chi vuole favorire l’inclusione nel mondo del lavoro? Ne abbiamo parlato con Laura Zanfrini, docente di sociologia presso l’Università Cattolica di Milano.
Ci può spiegare a cosa facciamo riferimento con la definizione “Diversity, Equity, Inclusion“?
La diversità è una caratteristica delle società contemporanee, e quindi anche di tutti i contesti di vita e di lavoro, che sono eterogenei nella loro composizione. Ogni società si definisce in quanto insieme di differenze: pensiamo al genere, all’età, al ruolo sociale.
Attualmente sono molti gli stimoli che rendono manifeste delle differenze che prima restavano nascoste: viviamo, ad esempio, più a lungo e quindi ci sono più generazioni che convivono negli stessi luoghi, negli stessi ambienti. Inoltre, i processi di globalizzazione e la mobilità internazionale hanno accentuato la presenza nelle nostre società di persone provenienti da altri background culturali, linguistici e religiosi.
Il termine equity è qualcosa che richiama la necessità di costruire organizzazioni di lavoro fondate sui principi di non discriminazione e pari opportunità. Le società e gli ambienti di vita e di lavoro dovrebbero ispirarsi non solo a un principio di uguaglianza formale, ma anche di equità, e quindi sostenere in maniera particolare coloro che per varie ragioni vivono situazioni di svantaggio.
E il termine inclusione evoca la necessità di operare affinché le persone si sentano incluse, accolte, sentano di poter esprimere se stesse. Questo vuol dire rimuovere barriere immateriali, ma anche barriere di tipo materiale, come le barriere architettoniche.
E che correlazione c’è con l’ambiente lavorativo?
Diciamo che il concetto stesso di organizzazione implica il mettere insieme delle persone che sono diverse e farle lavorare insieme per un obiettivo comune.
Le organizzazioni stanno dentro la società e riflettono le trasformazioni che anche la società conosce. In azienda si ritrovano quindi a convivere quattro o cinque generazioni diverse, c’è una presenza femminile molto più significativa, ci sono persone con un con un background migratorio e via dicendo. Fino qualche tempo fa avere attenzione alle esigenze diverse poteva essere considerato un pensiero legato all’eticità. Oggi, invece, si tratta di adottare questa visione per favorire la sostenibilità dei nostri modelli sociali nei nostri regimi di accumulazione. Non possiamo permetterci di lasciare indietro nessuno né di disperdere nessun tipo di talento.
Oggi molte aziende hanno nel loro orizzonte progettuale l’idea di agire non solo come attori economici ma anche come attori sociali o, addirittura, politici. Un’azienda può scegliere consapevolmente di perseguire anche dei vantaggi che non sono meramente strumentali ma che hanno a che vedere magari col desiderio di concorrere anche a costruire il bene comune, costruire una società più giusta e inclusiva anche se questo non produce un ritorno tangibile immediato.
Quali sono le difficoltà maggiori nell’adottare questa visione?
Le aziende erano uscite un po’ con le ossa rotte dal punto di vista reputazionale dopo la crisi finanziaria che aveva messo messo in luce i limiti di un regime di accumulazione di un’economia basata su logiche speculative. Oggi, soprattutto dopo l’esperienza della pandemia, ci si aspetta dalle aziende che si pongano obiettivi non strettamente economici.
Sicuramente il rischio è, come per molte questioni, che adottare uno sguardo di DE&I diventi una moda, o che rimanga un po’ una retorica che porta ad azioni che non hanno un reale impatto. Per questo è necessario che le aziende che vogliono percorrere questa strada siano molto consapevoli della necessità di innanzitutto darsi degli obiettivi chiari. Talvolta, pur di far qualcosa, si accettano proposte già strutturate, come pacchetti di welfare aziendale proposti da provider che non prevedono però un’analisi dei reali bisogni alla base. Oltre alle competenze di tipo tecnico, servono competenze di lettura della società nella sua complessità nell’intreccio così complesso tra diversità sociali, differenze e disuguaglianze sociali.
Inoltre, è necessario affrontare il discorso valutando anche la disponibilità a collaborare con attori diversi, sia pubblici, che della società civile, che privati. Costruire delle forme di collaborazione amplifica i possibili impatti che si possono ottenere. Questo vale anche e soprattutto per le aziende più piccole, che magari da sole non non hanno molta capacità di impatto ma possono anche loro giocare un ruolo importante.
Come si offrono soluzioni consapevoli?
Oggi abbiamo un’assoluta necessità di rimettere al centro la questione della cura nella sua duplice accezione: sia prendendosi cura dei propri lavoratori e delle proprie lavoratrici, sia accompagnando la ricerca di soluzioni a quella che è una crisi globale dei sistemi di welfare tra equilibri finanziari precari, sistemi pensionistici e sistemi sanitari vacillanti.
Bisogna avere una serie di competenze assolutamente strategiche per gestire situazioni complesse: empatia, capacità di costruzione di soluzioni innovative o pacchetti di welfare aziendale che favoriscano un salto di qualità complessivo del sistema della cura.
Dunque è necessario acquisire competenze e specifiche chiavi di lettura della società contemporanea, che è una società in continuo mutamento. Quando affrontiamo i temi della diversity, equity e inclusion affrontiamo in realtà delle questioni di fondamentale importanza per la sostenibilità e per il futuro della nostra società. Non ci sono soluzioni precostituite e preconfezionate che vadano bene per tutti i contesti. Per questo parliamo di strumenti, non soluzioni. La sfida è proprio quella di avere la disponibilità a mettersi in discussione assumendo una posizione autoriflessiva.