I fenomeni nuovi, di rottura, che si vanno manifestando nel mondo del lavoro non sono solo interessanti in sé: il workers buyout, il fenomeno dei raider, la nuova logistica e altri fenomeni di lavoro in remoto che la pandemia Covid ha portato alla ribalta permettono di individuare con maggiore nettezza le fenditure che attraversano la nostra società, e dall’analisi delle cause di crisi si può tentare di costruire elementi per una nuova politica economica che ponga al centro dello sviluppo la creatività di un lavoro più libero e solidale.
Il primo elemento che appare in tutta evidenza è che la salvezza delle imprese coinvolte nel processo di acquisto da parte dei lavoratori nasce dall’immissione di capitali freschi apportati dai lavoratori. Ciò mette in rilievo la drammatica carenza di investimenti privati nelle nostre imprese. Al di là delle discussioni sul mercato come forma positiva di riallocazione delle risorse, noi siamo un Paese che ha risparmi privati corrispondenti al doppio del pur gigantesco debito pubblico. La mancanza di fiducia nel futuro porta a non investire. Ma senza investimenti il passare del tempo farà svanire i risparmi senza generare nuovo reddito.
Bisogna uscire dal paradosso in cui siamo intrappolati, trasformare i risparmi in investimenti, operando nell’ottica che portò Marcora ad un impegno legislativo che, ancora oggi, non ha avuto il seguito che la crisi avrebbe richiesto.
La mobilitazione del risparmio per il lavoro
La mancata mobilitazione del risparmio è strettamente correlata ai limiti della politica del credito del nostro Paese. È evidente che dare credito a chi ha garanzie immobiliari da offrire e non a chi rischia con intelligenti politiche di innovazione e di investimento formativo dei propri dipendenti e assume giovani che hanno studiato riempie le banche di creditori insolventi e poi di immobili inutilizzati.
Una più coraggiosa politica del microcredito aumenterebbe il numero di soggetti capaci di far fruttare il denaro, e quindi bancabili. Ma soprattutto andrebbe esaminata la politica adottata in occasione di molte procedure pubbliche di acquisto. Si costruisce una scatola finanziaria (semi) vuota, la si riempie con del credito a breve, con questo si acquista il controllo di una società quotata, poi si fonde la scatola vuota, il veicolo, con la società acquistata scaricando su questa il debito a breve che viene convertito su tempi più lunghi. La società risultante, gravata dal debito, ha meno utili e così paga meno tasse. Le azioni della società, a volte, crescono di valore. Questa, sinteticamente illustrata, ed altre forme di “estrazione di valore” sono state largamente praticate, poco studiate ed hanno portato, molto di più del costo del lavoro, alla crisi di molte aziende.
I soldi pubblici, in generale, ed anche una parte cospicua delle elargizioni private, ad esempio quelle delle fondazioni ex bancarie, sono state impiegate a sostegno del reddito o sono state impiegate, in misura insoddisfacente e poco coraggiosa, per sostenere iniziative pubblico-private che si sono configurate come esperimenti e non come politiche di sistema. Ad esempio, mentre altri Paesi (la Germania in primis) sostengono la valorizzazione in modo aperto dei dati e delle informazioni disponibili attraverso Wikidata e Wikipedia, l’Italia, che dispone di una quota rilevantissima del patrimonio culturale del pianeta, non lo ha fatto. Eppure, la diffusione della nostra cultura sarebbe il più efficace metodo per la promozione del Made in Italy coniugando le radici della tradizione con i frutti possibili dell’innovazione.
Uno stimolo a ripartire
Il workers buyout (di cui Secondo Welfare si era già occupato qui, ndr) ci stimola a ripartire, avendo ad esempio la legge Marcora, per predisporre strumenti di intervento finanziario che diano gambe a nuovo lavoro nei settori del futuro. Il recovery fund è una occasione che non dovremmo perdere.
Accanto ai fondi accantonati dai lavoratori, si potrebbe dare fiducia al risparmio con fondi di garanzia, potenziare la capacità degli istituti di credito di valutare il contenuto delle attività, anche tornando a potenziare gli sportelli territoriali, favorire la costituzione di reti di impresa per rendere più solida la presenza delle imprese sul mercato, sostenere agenzie e corpi intermedi che svolgano un’efficace azione di supporto e consulenza in occasione del passaggio di proprietà.
Sovente la crisi delle aziende nasce non da fatti produttivi, di mercato o finanziari, ma in occasione del passaggio di generazione nella proprietà. In alcuni casi, l’attività continua perché il controllo conseguente al titolo di proprietà passa a manager che hanno acquisito competenze nella stessa azienda o in aziende simili, ma questo spesso porta a situazioni di carenza di liquidità, che richiederebbero una più ampia raccolta di fondi.
Inoltre, in molte aziende, l’evoluzione tecnologica richiederebbe massicce assunzioni di giovani qualificati capaci di raccogliere in modo creativo il curriculum professionale di chi ha accumulato esperienza e relazioni durante la sua vita in azienda. È necessario incorporare negli oggetti prodotti, nei servizi erogati, un contenuto crescente di conoscenza se si vuole assicurare, in Italia, la tenuta dei livelli occupazionali e salariali rispetto alla concorrenza internazionale e un dignitoso livello salariale, consapevolezza che porta alla necessità di un sempre maggiore coinvolgimento di chi lavora nel processo complessivo di produzione.
Ciò è tanto più possibile in quanto un numero crescente di lavoratori collabora in modo creativo perché si considera parte del processo decisionale che promana da un titolo di proprietà, non più individuale ma collettiva. In questo contesto, non a caso, si assiste ad una efficace adozione di modalità cooperative là dove è più alto il tasso di innovazione dell’attività svolta.
Le ragioni di un successo
Il successo delle iniziative di acquisizione da parte dei lavoratori deriva, ovviamente, in un contesto legislativo generale di troppo debole sostegno, dal realizzarsi di molte condizioni locali favorevoli. Tutto ciò deve avvenire prima che la crisi sia irreversibile.
All’interno dell’azienda deve esistere una leadership riconosciuta dai lavoratori e diversa dalla proprietà, deve stabilirsi un rapporto efficace con soggetti esterni che affianchino il delicato processo di ridefinizione del piano industriale, deve emergere un consenso sociale ed istituzionale che renda la continuità aziendale obiettivo primario di tutta la comunità. Il processo non è, quindi, soltanto un processo interno allo stabilimento, ma coinvolge un territorio, la sua popolazione, le istituzioni pubbliche e private. In questo senso la difesa di una attività richiede di padroneggiare strumenti organizzativi nuovi, che non sono presenti, se non marginalmente, nella storia dell’industria.
In passato, l’industria organizzava il territorio per permettere, al suo interno, un efficace svolgimento del processo produttivo. Oggi il processo produttivo è sempre più un processo sociale, di cui la fabbrica è un momento, che richiede l’elaborazione di idonee politiche negoziate a livello territoriale. I casi di successo, se esaminati a fondo, ci danno indicazioni preziose per definire forme e contenuti di politiche di sviluppo locale. Anche qui il recovery fund è una opportunità da non perdere. Dobbiamo evitare che la debolezza della pubblica amministrazione locale giustifichi l’accentramento di tutte le risorse e delle relative scelte di allocazione.
È necessario predisporre accordi, patti, progetti a livello territoriale che permettano un rapido ed efficace impiego delle risorse. L’esperienza passata della gestione dei patti territoriali è stata, a mio avviso, sostanzialmente deludente, limitandosi ad assemblare piccole iniziative senza un disegno organico; in alcune aree del nostro Paese le risorse disponibili hanno finito addirittura per favorire il controllo del territorio da parte della criminalità organizzata. È necessaria la definizione di piattaforme territoriali di sviluppo che misurino il grado di successo dall’effetto sul mercato del lavoro, in termini di quantità e qualità di occupazione risultante. In tal senso vanno le proposte avanzate dalle organizzazioni sindacali confederali, e dalle analisi che provengono dai corpi intermedi, espressione del mondo del lavoro.
Lo sforzo di sintesi richiede tempo e coraggio, il contesto di competizione internazionale si fa sempre più aggressivo; le reti telematiche portano ovunque, ad alta velocità e a costi trascurabili verso un lavoro svolto altrove da persone a basso salario o da organizzazioni dotate di competenze di altissimo livello.
Queste reti, poi, sempre più erogano servizi generati da macchine, da sofisticati processi basati sull’intelligenza artificiale. Solo una riorganizzazione, a livello territoriale, che sia fondata su reti lunghe e complesse basate sulla solidarietà può permetterci non solo di difenderci, di mantenere un ruolo, ma può portare i valori di cui siamo portatori ad essere presenti, con peso crescente per condizionare, per informare di sé il nostro futuro.
Le cose non esistono in sé, ma solo nella relazione tra loro
Il futuro, va sempre ricordato, non è già scritto, non è logicamente deducibile dal presente. Un intensificarsi degli incontri tra le parti sociali, magari proprio a partire dai fenomeni più nuovi, meno facilmente inquadrabili nelle opinioni consolidate che abbiamo ereditato dal passato, è forse altrettanto importante, se non addirittura più importante, dell’analisi statistica dei parametri che caratterizzano il nostro mondo.
È rilevante individuare i momenti di consenso, di convergenza tra le parti sociali a partire dai quali agire per trasformare la realtà. Il cambiamento genererà una situazione più positiva, che farà emergere nuove suggestioni, che ci aiuteranno a capire meglio la realtà e a fare i passi successivi.
Il filosofo Pierre-Simone Laplace, forte della sua tracotanza positivista, ebbe occasione di sostenere
«Possiamo considerare lo stato attuale dell’universo come l’effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che ad un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi».
Oggi più nessuno scienziato oserebbe ripetere questa affermazione: Vespignani, nel suo libro “L’algoritmo e l’Oracolo” spiega perché neppure le condizioni atmosferiche possono essere previste al di là di due settimane, e non per mancanza di dati sulla situazione attuale.
Io credo che abbia ragione Carlo Rovelli quando sostiene che le cose non esistono in sé, ma solo nella relazione tra di loro, e nella relazione con noi che le osserviamo. Una relazione che può essere descritta solo in termini statistici, che mantiene al suo interno un irriducibile elemento di indeterminazione.
Anche la scienza come la poesia, l’arte o la politica è una metafora del reale. Non vera, forse, ma potente narrazione, unico strumento per cambiarlo. Il mondo è una rete fitta di relazioni, il futuro dipende dall’effetto di singole, minute azioni. Dal nostro agire individuale, tanto più efficace in quanto diventa diffuso, poi collettivo ed organizzato. Questa minuta azione, non singoli slogan o una valutazione statistica dei luoghi comuni più diffusi, sono la strada da perseguire per essere gli artefici del nostro futuro. Tutto questo a partire da limitati successi nel mantenimento dell’attività produttiva? Sì, non solo perché questi episodi si vanno diffondendo in altri continenti, in primo luogo in America Latina, perché pongono al centro le persone e non il denaro, ma perché approfondire il significato dei fenomeni nuovi, magari inattesi, è la strada che più rapidamente porta a discutere dei punti di forza e delle criticità del nostro mondo.